La Grecia è il solo paese che celebrava
la giornata del No ancor prima del referendum. Era il No a Mussolini che
ordinava la resa a Ioannis Metaxas, il dittatore fascista greco di allora.
George Caffentzis, filosofo statunitense di origini elleniche, racconta a Infoaut come
il processo di accumulazione del capitale europeo si sia inceppato proprio nel
paese che da bambino gli sembrava un selvaggio west. In questi casi, spiega, di
solito il potere politico decide di tagliare o ridurre il debito per rimettere
in moto l’accumulazione e il profitto e poi ripartire. Questa volta non è stato
fatto. In teoria si poteva scegliere anche una soluzione keynesiana, quella
ipotizzata da Varoufakis e Syriza, ma politicamente non poteva funzionare.
L’Europa non è un giardino d’infanzia deve restare uno spazio di accumulazione.
Se non riesce a risolvere il problema in Grecia, per poi poter generalizzare le
risposte in Italia, Spagna e con gli stessi lavoratori tedeschi, il dominio del
capitale è rovinato. La soluzione keynesiana, precisa lo studioso marxista, non
va bene però neanche per noi. Ormai non basta allargare l’accesso alle
assicurazioni sanitarie, come pensa Syriza, è l’intero sistema ospedaliero che
è andato in crisi. Dobbiamo ripensare la salute e la cura, la relazione
asimmetrica tra dottori e pazienti. Serve un nuovo tipo di medicina basato
sulla comunità. Syriza cerca le risposte ai problemi sociali ancora nello Stato
ma lo Stato non provvede più alla nostra sopravvivenza.
(di
Infoaut)
Abbiamo intervistato George Caffentzis (editor di Midnight
Notes) ad Atene, nella settimana intercorsa tra il massiccio voto
per il No e la firma al ribasso di Tsipras. Impegnato da anni nell’analisi dei
nuovi meccanismi di espropriazione (nuove recinzioni) e resistenza (commoning)
su scala globale, il suo sguardo ha il merito di leggere la crisi greca dentro
le grandi trasformazioni del capitalismo degli ultimi decenni. Un buon antidoto
agli entusiasmi facili e alle altrettanto repentine depressioni di casa nostra.
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Da nordamericano di origine greche, ogni anno passi un
po’ di tempo in Grecia. Quali differenze hai notato nelle condizioni di vita
nel corso dei tuoi soggiorni? Sono peggiorate?
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Vengo in Grecia da quando avevo quattro anni. I primi ricordi
risalgono a poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1949, e poi
all’inizio degli anni ’50. Sembrava il Vietnam del 1975: condizioni di estrema
povertà, da
dopoguerra. Ricordo un viaggio da Sparta (da lì venivano i miei genitori) ad Atene, con
la mia famiglia. Per me, ragazzino, era uno scenario da western, con cowboy e
indiani. Era questa la Grecia degli anni ’40/50. Quello che ho
conosciuto da adolescente era invece un paese soggiogato al controllo
statunitense,ereditato
dagli inglesi. La Grecia era diventata l’avamposto dell’Alleanza Atlantica nella
Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica. Ci fu una repressione della sinistra
feroce. Poi ricordo la Grecia del 1981, fu come una rottura: l’inizio
dell’era Pasok, di Papandreu, l’entrata nell’Unione Europea. Il paese cambiò
improvvisamente. Iniziavano consistenti investimenti capitalistici, soprattutto
nelle infrastrutture (porti, autostrade), nell’energia e le isole si aprivano
al turismo. Grandi masse di persone si spostavano in città, Atene divenne una
gigantesca metropoli. La Grecia cominciava ad apparire più europea. Il paese
che trovavo quando venivo qui da ragazzino aveva invece un carattere
profondamente rurale, le condizioni di vita erano frugali, c’era un forte
attaccamento alla terra, anche in chi viveva ad Atene o Salonicco. Tutto a un
tratto la gente iniziò ad vivere come a Parigi o Londra. Una diversa
personalità iniziava a prendere forma. E arriviamo quindi agli anni 2000, quella che hai sotto
gli occhi è un’altra Grecia. É un qualcosa dato per scontato da
tutti. Ed è per questo gli ultimi cinque anni sono stati così
duri, perché hanno messo in discussione i livelli di vita che si pensavano raggiunti una
volta per tutte.
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Questo investimento nel mutare le forme di vita è
corrisposto a un profondo salto nella finanziarizzazione della società e
dell’economia…
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È una parte della storia, hai alti livelli di vita, un ‘economia che diventa urbana
(5 milioni di persone ad Atene, 1 milione e mezzo a Salonicco, parliamo di una
società compiutamente urbanizzata). Quando si parla di consumismo, di
finanziarizzazione è di una forma di vita imposta che stiamo parlando, non di
qualcosa che si è scelto. Quando vivi in un appartamento in città, non è più come nella comunità di
villaggio, le cose di cui hai bisogno le devi comprare, che ti piaccia o meno.
È un cambiamento profondo avvenuto nella società greca. Qualcosa che ho potuto
osservare direttamente, tra i miei parenti che stanno qui. L’assunto era però
che questo fosse un one-way trip (un viaggio di sola andata),
per questo per molti gli ultimi cinque anni sono stati uno shock: garanzie che
si pensavano assodate sono state smantellate, niente di quel che era dato per
certo lo è più. Il recente voto per l’OXI è l’espressione della presa d’atto che le cose
sono cambiate. Per molta gente che conosco è stato uno sforzo di ridefinizione, un
dirsi: “Wow! Ma è questo che vogliono da noi…”
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Mi sembra ci siano due aspetti interessanti da considerare
e sviluppare. Il primo è che la gente ha interpretato la trasformazione della
società come qualcosa di “dato” e come un miglioramento delle condizioni di
vita (accesso al consumo, benessere). Allo stesso tempo, le promesse del
neoliberismo hanno presentato il conto al popolo greco, dicendo: “Avete vissuto
sopra le vostre condizioni, ora dovete pagare”. Nella resistenza espressa dal
No e da questi anni di lotte, c’è anche il non accettare di perdere le
condizioni di vita raggiunte…
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Beh si è così, ma non è solo il proletariato greco ad essere in crisi,
lo è anche lo stesso capitale, non dimentichiamolo. Questo è il vero
punto di partenza: quello che si è inceppato è il processo di
accumulazione del capitale europeo, che sta affrontando una
crisi di profitto, di accumulazione, ormai di lungo corso. É una crisi che il
capitale sta cercando di risolvere attraverso mezzi che non sono sicuramente
keynesiani! Ma non torneranno neanche alle formule del XIX secolo. Quello che
stanno utilizzando è il classico approccio liberale: tagliare i salari e ogni
tipo di garanzie e diritti; scaricare cioè i costi della riproduzione della
classe lavoratrice su essa stessa, sul proletariato. Perché ci sono solo due
modi per uscire da una crisi di questo tipo, entrambi vitali, perché entrambi
si rendono conto che non si può andare avanti così. Due modi che corrispondono
a due “partiti”: il proletariato greco e il capitale europeo. La difficoltà nel
trovare quella che viene presentata come una soluzione finanziaria, dimostra
nei fatti che il “problema greco” non è di ordine finanziario. È evidente cosa si
fa di solito in questi casi: haircut del debito, eliminazione
o forte riduzione, per rimettere in moto il meccanismo e ripartire. Non c’è
niente di nuovo, di nuovo c’è la drammatica situazione in cui versa il
capitalismo europeo. La questione è dunque tutta politica. Se fate caso, tra le
riforme che richiedono, c’è sempre una nuova legislazione sul lavoro e sulle
pensioni. Perché? Perché quello che vogliono fare è quel che ho visto applicato
in Nigeria: un rimodellamento radicale della società per creare le condizioni
di una nuova accumulazione [originaria] di capitale. I processi cui stiamo
assistendo si giocano su due livelli: uno, quello ufficiale, è l’aspetto del
capitalismo nella sua dimensione finanziaria; l’altro, basico e non detto, è la
svalutazione della forza-lavoro e della sua riproduzione. Il secondo è un
aspetto importante, centrale, non solo per i greci. Qui se ne sono accorti: “E’
con questo che abbiamo a che fare”. Per questo non c’è particolare ansia sul
tipo di memorandum che si andrà a firmare (l’intervista è avvenuta prima
dell’accordo capestro firmato da Tsipras, ndr) . Hanno interpretato
la cosa come un pronunciamento sull’accettazione o meno delle condizioni che gli vengono
imposte; e come una domanda se non sia invece il caso di iniziare qualcos’altro.
Cosa sia quest’altro da trovare è piuttosto vario: per qualcuno una soluzione
keynesiana (Varoufakis, Syriza). Teoricamente sarebbe anche possibile ma politicamente
è un problema enormeperché è una strada che è già stata provata e, capitalisticamente, non
funziona. In quel caso l’Europa diventerebbe per il capitale una sorta di
giardino d’infanzia, non uno spazio in cui realizzare una vera accumulazione.
Se non riescono a risolvere questo problema legato all’accumulazione in Grecia,
per poi generalizzarlo all’Italia, alla Spagna, agli stessi lavoratori
tedeschi, sono rovinati. Stiamo osservando una nuova tappa degli
aggiustamenti strutturali e della crisi del debito dei primi anni ’90. Come newyorchese l’ho
già osservata negli anni ’70, con la crisi fiscale, poi di nuovo in Nigeria
negli anni ’80. L’abbiamo vista nella sua versione lenta e deformata
statunitense, ora la vediamo arrivare in Grecia. È stato un processo
molto lungo, che ha ormai quarant’anni. Quel che c’è di nuovo, è che ha raggiunto
il contesto europeo, da dove si supponeva dovesse stare alla larga, invece è
successo anche qui. Per questo il responso di domenica è stato
importante, perché apre a delle possibilità nuove. Non per fare
dell’umorisimo ma la Grecia è l’unico paese al mondo che celebra una giornata dedicata
al No, all’Oxi. Quando Mussolini si preparava ad invadere la Grecia, mandò un telegramma a
Metaxas (lui stesso un dittatore fascista) intimandogli di arrendersi, ma lui
disse “No” e da allora è un giorno di festa, di vacanza. La gente non ha paura
di dire No.
.
Il secondo aspetto è quello che si pone qui oggi, alla
luce dei cambiamenti di vita assunti dalla popolazione greca (e per estensione,
un domani, europea) negli ultimi decenni – la fine della relazione con la
terra, quindi di una possibilità di sopravvivenza sganciata dalla relazione
capitalistica. È una grossa questione! Un compagno ateniese ci diceva ieri: “Il
nostro problema è oggi cosa fare, concretamente. Se anche assaltiamo i
supermercati, cosa facciamo dopo due giorni, quando saranno vuoti?!” Come
affrontiamo oggi il livello della riproduzione sociale? Ti sembra di scorgere
embrioni di commoning all’interno della società
greca?
.
Beh, questo è un enorme problema. Anzi è il Problema. C’è un principio di
ritorno alla campagna, un tentativo di ricreare ad esempio una subsistance farming,
un’economia agricola di sussistenza – agricoltori che vengono in città per
vendere la loro roba direttamente, senza mediatori o reti per la distribuzione
gratuita del cibo – ma si tratta di piccole iniziative, certo non adatte a
soddisfare i bisogni di oggi. Un po’ come le cliniche
autogestite, ho avuto notizie di quattro di queste: a Salonicco, ad Atene vicino a
piazza Exarchia, a Eraklion e Rethymno nell’isola di Creta. Stanno facendo
sforzi enormi, in particolare per chi non ha accesso regolare alle cure
sanitarie. Se ne aprono altre in giro per il paese, basandosi soprattutto sul
lavoro volontario. Iniziano anche a ripensare la relazione asimmetrica,
di potere, tra dottori e pazienti. Si fanno grandi sforzi per cercare di tessere una rete in
grado di funzionare dopo un eventuale collasso dello Stato; per pensare a un nuovo
tipo di medicina, basata sulla comunità. Il problema è come allargare queste
esperienze su larga scala. Stiamo parlando di un di servizio che, mi dicono, è
riuscito a soddisfare 1000/1500 pazienti l’anno, ma occorrerebbe una capacità
d’azione per milioni di persone.
Questi livelli, quello dell’agricoltura, della casa, della riorganizzazione
degli spazi, urbani e dei piccoli villaggi, sono oggi una grande sfida. C’è un
fatto che inizia ad essere riconsociuto, che la soluzione keynesiana non è solo
problematica per il capitale ma anche per noi. Una cosa è quella
che fa Syriza, aumentare il numero di persone che ha diritto di accesso alle
assicurazioni sanitarie, altra cosa ripensare cos’è la cura e la salute. Una
questione asolutamente necessaria, perché è lo stesso sistema ospedaliero ad
essere in crisi. Pensiamo alla discussione sulle malattie iatrogeniche, causate
cioè dall’intervento medico, la paura di recarsi all’ospedale perché la stessa
istituzione medica è oggi causa di malattia. É una questione
mondiale, non greca. La affrontiamo tutti. Anche rispetto al cibo, sono domande che ci
si pone: quello che sto mangiando mi nutre o mi sta uccidendo? L’assunzione di
fondo è che lo Stato non provvede più alla nostra sopravvivenza.
Come accennavi, c’é però anche un problema di scala,
dei brutali rapporti di forza che intercorrono oggi tra il proletariato greco e
l’Unione Europea: per esempio il controllo della liquidità, l’uso del debito
come cappio al collo del popolo greco. Quello che si manifesta è un puro
problema di potere…
Abbiamo qui a che fare con la famosa questione di scala. Possiamo prenderecome esempio gli zapatisti, in
Messico, che controllano un territorio di centinaia e centinaia di chilometri, con dozzine di
municipalità che hanno creato la propria forma amministrativa, prendendo
decisioni collettive. La loro esperienza mostra che queste cose sono
possibili. Ma si basano su forme di sviluppo sociale [endogene] che hanno
migliaia di anni, che nelle grandi città non abbiamo. Guarderei più al caso
dell’Argentina, dove sono stato un paio di mesi fa, e al gran numero di favelas in
cui la gente è giunta a rimodellare la propria vita urbana, al crescente
controllo che hanno saputo creare sulla vita quotidiana, un differente rapporto
alla proprietà. È una storia molto lunga… Qui in Grecia l’esperienza è più giovane. Il
ritorno alla vita in campagna riguarda qualche decina di migliaia di persone,
ma il grosso emigra: Germania, Australia, verso luoghi dove pensano di sfuggire
alla crisi del capitalismo. Ci sono degli sforzi ma le forze, specie quelle
monetarie, che sono imposte alla Grecia sono molto forti. E sinceramente non
vedo in Syriza, nei suoi modi, una risposta a questi problemi sociali. Guarda ancora
troppo allo Stato come agente in grado di dare risposte, non propone
alternative. Se guardiamo invece all’esempio che facevo prima, all’Argentina, le comunità delle
favelas sono state in grado di costruire un potere sociale che ottiene dallo
Stato risorse senza dargliene in cambio il controllo. Hanno costruito
rapporti di forza asimmetrici. Sono più potenti.
Come possiamo leggere il risultato del referendum dal
punto di vista della lotta di classe (e dell’umore di classe)? Molti compagni
sostengono che il referendum sia stato solo uno scontro interno, tra settori
della borghesia. Ci sembra una lettura riduzionistica di quello che sta
succedendo…
Sono d’accordo con voi. Certo, ci sono sempre disaccordi interni alla
classe capitalista su come risolvere una crisi: qualcuno guarda alla domanda
interna, qualcun’altro all’Unione Europea come ancora di salvataggio… ma
dobbiamo pensare che milioni di persone hanno votato, e hanno le loro ragioni.
Vi do giusto un esempio: molte persone che conosco hanno espresso
nel voto il rifiuto di essere terrorizzati. Le paure erano proiettate
sullo schermo sociale: non avrete più medicine, non avrete più scuola. Molti nella mia
famiglia hanno votato Oxi per dire: “Non ci intimidirete ulteriormente! Non ci
farete accettare che questa è l’unica via”. Dopo anni, un esplicito rifiuto
dell’austerity, perché la gente ha toccato con mano la questione fondamentale
della riproduzione sociale. Non siamo all’inizio della crisi, sono cinque anni
che la gente la vive sulla propria pelle. Ora ha detto: “Ne abbiamo abbastanza: Ya
Basta!”. Direi che questo è il senso principale del voto. Per quel che
riguarda la composizione di classe del No e dei vettori politici che lo hanno
orientato, penso che Syriza abbia un programma – ben espresso nello statement
di Varoufakis – alla Krugman e alla Stiglitz: prospettano un revival del
neo-keynesismo. Ha la sua logica, è comprensibile, ma qui in Grecia c’è anche
tutto il movimento dell’economia solidale, che ha un altro programma, non
riconducibile a quello di Syriza; viene fuori dalle esperienze anarchiche,
autonome, extra-parlamentari, dalle iniziative di base. C’è poi la forte
tradizione del Partito Comunista Greco (KKE), ci sono diverse strategie sul
campo. Non sono sicuro di cosa verrà fuori. Sono invece certo che
Syriza non sarà in grado di convincere la classe dirigente europea che la
Grecia stia andando fuori controllo e che sia dunque necessario, per loro, un
patto, un New Deal sul modello statunitense degli anni ’30.
Possiamo leggere il No come punto di iniziale rottura
del meccanismo del debito? Che effetto può avere sulla composizione di classe?
Come mantenere quel No?
C’è una soluzione finanziaria, che è anche politica, e parla di grexit: abbandonare la zona
euro, istituire altri rapporti monetari di scambio e di valuta; è una proposta sostenuta
da molte e differenti categorie, una proposta concreta, possibile,
perfettamente logica. In Argentina l’hanno fatto, hanno abbandonato
l’economia basata sul dollaro. Da un punto di vista capitalista ha il suo
senso, ma a me non interessa quel punto di vista, non m’interessa
ragionare sul come uscire dalla crisi nel capitalismo. Quella è la loro
soluzione, di una parte del capitale (inclusi non pochi membri di Syriza). La
questione, per noi, è pensare a un’uscita non capitalista dalle molteplici
crisi in cui ci troviamo. Ci sono progetti, visioni che implicano altre
soluzioni economiche e sociali che mi sembrano perfettamente percorribili. Non credo che sia
Syriza la soluzione: è una coalizione di neokeynesiani. Penso piuttosto a
soluzioni incentrate sul discorso dei commons.
Qual è stato il ruolo del Fondo Monetario
Internazionale in questa crisi? Nei giornali europei la narrazione sul FMI è
quella di un soggetto neutrale e imparziale, non portatore d’interessi.
Sappiamo invece della grande convergenza di interessi tra questa specie di
super-agente del capitalismo e gli Stati Uniti, tramite il Washington
consensus…
L’FMI fa sostanzialmente sempre quello per cui è stato creato, quello che
ho già avuto modo di osservare in Nigeria negli anni ’80: il suo obiettivo è
applicare i Piani di Aggiustamento Strutturale. Da qui la sua insoddisfazione
per l’operato di Syriza, che non ha accettato fino in fondo quella indicazione.
Dopo che l’Unione Europea ha realizzato che l’FMI non guardava solo all’Europa, che
le sue preoccupazioni non concernevano soltanto il fallimento di accumulazione
del capitale europeo, ma che aveva una concezione internazionale, da capitalista collettivo
globale, ha quindi dovuto tenere in conto quello che pensavano gli Stati Uniti
sulle relazioni tra l’Europa e il resto del pianeta. Per quello che ho potuto
capire, le indicazioni degli Stai Uniti all’Europa sono state di essere cauti sulla
vicenda greca: “Fate attenzione a quel che può succedere, c’è un’altra carta nel
gioco ed è meglio che non venga giocata”. Gli Stati Uniti non
vogliono la Grecia fuori dall’Europa perché c’è anche il passaggio strategico
del TTIP all’interno dell’Europa, che avrà bisogno di una ratifica dei
parlamenti nazionali. Una vicenda che avrà conseguenze importanti per gli Stati Uniti e un
impatto diretto sul proletariato europeo. Il loro discorso è stato un po’
questo “non è il momento di spingere troppo, quanto piuttosto di porre le basi
per il prossimo salto”. Si tratta quindi di avere una Commissione Europea più
disposta verso tutta l’Europa, soprattutto in vista dell’approvazione del
Trattato. Per finire, vorrei ancora dira qualcosa suquel che dovremmo fare
noi, fuori dalla Grecia, negli Stati Uniti o nel resto d’Europa. Dobbiamo
supportare la dimensione anti-capitalista che si è espressa nell’Oxi. Cosa possiamo fare,
noi, nei prossimi mesi, per sostenere il proletariato greco? L’Italia è parte
di questa storia.
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