venerdì 1 novembre 2024

Maledetti i costruttori di morte - Paolo Cacciari

 

Migliaia di persone condividono i propri saperi e il proprio tempo per immaginare, disegnare, costruire, commerciare e utilizzare nuove armi. Stanno nelle università, nei centri di ricerca, negli uffici di progettazione delle industrie, oltre che nelle accademie militari. Il peso della loro responsabilità assassina viene nascosto in tanti modi. Ogni tanto si ritrovano, in cenacoli come quelli di Aspen Institute e producono rapporti, con il contributo, ad esempio, della Leonardo Spa, della Marina Militare, di Intesa Sanpaolo e dell’Università degli Studi di Pavia

 

Costruiscono strumenti di morte sempre più sofisticati e letali. Progettano armi di sterminio capaci di colpire autonomamente e automaticamente senza un controllo umano diretto. Così non c’è più bisogno di uomini che si infanghino gli stivali, che premano il grilletto e che rischino di intaccare la propria psiche. Nulla in confronto alla affidabilità dei sistemi unmanned: droni di superficie, siluri sottomarini, missili ipersonici manovrabili a distanza da personale in camice bianco tramite reti cyber satellitari. Nulla di diverso – del resto – da ciò che avviene nelle fabbriche, nei magazzini robotizzati, negli uffici automatizzati; ogni mansione è calcolata, procedimentalizzata, mirata. Nessun pericolo di errore, nessuna responsabilità individuale. La lontananza e l’invisibilizzazione del comando creano una idea di astrazione della violenza inferta. Apparentemente, almeno. Perché invece il peso della responsabilità assassina è stato solo verticalizzato e accentrato in capo a coloro che hanno deliberatamente deciso di mettere la propria (umana) intelligenza e le proprie personali conoscenze a disposizione della progettazione dei nuovi “sistemi d’arma”. Macchine e programmi, dati e codici in funzione di prestabiliti obiettivi di distruzione. Questi signori sono tra noi: stanno nelle università, nei centri di ricerca, negli uffici di progettazione delle industrie, oltre che nelle accademie militari.

Ogni tanto si ritrovano, in cenacoli come quelli di Aspen Institute e producono rapporti, vedi l’ultimo (link) redatto con il contributo di Leonardo e la collaborazione della Marina Militare, di Intesa Sanpaolo e dell’Università degli Studi di Pavia. Un piccolo spaccato dell’élite del potere. Il rapporto redatto da un pull di esperti si presenta come linee guida per operatori economici e decisori politici al fine di incrementare la filiera produttiva delle armi e, prima ancora, sdoganarne l’impiego. È qui infatti che i generali vincono le guerre – prima ancora che vengano combattute – nel legittimare la produzione di armi.

Con piglio militare veniamo informati dal Rapporto che “Il dominio militare è stato storicamente caratterizzato dall’essere un terreno fertile per l’innovazione, poiché la capacità di innovare le operazioni militari costituisce uno dei vantaggi che le forze armate possono mettere a frutto per ottenere la superiorità e la vittoria”. Per chi non l’avesse già capito e sperimentato: “La storia militare è in effetti costellata da innovazioni che hanno spesso, e sempre più frequentemente con la crescita delle capacità tecnologiche, riguardato gli equipaggiamenti prima ancora che la strategia e la dottrina, la cui evoluzione è stata anzi spesso costruita proprio sulla disponibilità di nuovi sistemi di attacco o difesa o informazione”.

Da queste considerazioni d’ordine storico-generale ne derivano un caldo invito rivolto ai governi a spendere sempre di più in R&S per mantenere una strategia di deterrenza basata sull’asimmetria dei mezzi tecnici a disposizione, sul “surclassamento tecnologico” e sulla “superiorità informativa” nei confronti dei potenziali nemici (individuati nella Russia, nella Cina e in imprecisati “attori non statuali”). L’importante è che nuove tecnologie militari rimangano “non alla portata di qualsiasi attore si affacci all’orizzonte geostrategico”. Da qui l’invito affinché l’Europa (“Anche senza gli Stati Uniti”) metta in sicurezza i suoi assetti realizzando “nuove capacità [di] natura sia difensiva sia offensiva, poiché la deterrenza si costituisce con un’appropriata combinazione delle due”. A minacce potenziali interventi preventivi.

Impariamo dal Rapporto che oggi, oltre ai tradizionali “domini” sui campi di battaglia (terrestre, navale e dell’aviazione), la sfida tecnologica si gioca sulle armi ipersoniche, sulle armi a energia diretta (come il laser), sullo spazio digitale (cyberspazio). In tutti questi campi l’intelligenza artificiale agisce da dirompente “moltiplicatore di effetto”, per velocità e molteplicità di impiego, più “di quanto realizzabile con strumenti gestiti da un operatore umano”.

Ma ciò comporta una preoccupazione che gli esperti dell’Aspen, di Leonardo e della Marina definiscono di “natura etica e operativa”. I sistemi d’arma autonomi (AWS Autonomus Weapon System) infatti operano sulla base di una profilazione preventiva algoritmica che si aggiorna automaticamente e con programmi Machine Learning (autoapprendimento) capaci di identificare, scegliere e attaccare (Observe, Orient, Decide) un bersaglio senza il coinvolgimento umano. In pratica, algoritmi armati, macchine appositamente addestrate a fare cose originariamente non prevedibili. Gli obiettivi e le persone vengono colpite sulla base di pacchetti di informazioni dedotte dai sistemi di riconoscimento e di identificazione (sensori, foto, comportamenti, ecc.).

 

Sembra che da tempo in sede Onu si stia discutendo per stabilire delle “regole di ingaggio” condivise per l’uso di questi sistemi d’armi. Nello specifico si tratta di decidere quale debba essere il “livello appropriato di giudizio” che deve rimanere in capo ad un essere umano. Per gli “ottimisti tecnologici” tali sistemi dovrebbero essere considerati come un semplice valido supporto decisionale offerto agli agenti umani affinché possano colpire più rapidamente, profondamente ed efficacemente il nemico. I più dubbiosi ritengono che i margini di errore (“pregiudizi” incorporati nel software) contenuti nel design del sistema, nel suo addestramento e nell’operazionalità sono tali da non consentire il loro uso.

Per noi fa rabbrividire il solo porsi tali quesiti. Esiste una campagna per chiedere la proibizione di queste armi: stopkillerrobots.org. Se la produzione di qualsiasi tipo di arma da guerra è un insulto alla vita, quelle “tecnologicamente avanzate” funzionano incorporando l’intera società nella logica del conflitto. Nella guerra ibrida (che comprende attacchi cibernetici e cinetici usando bande di frequenza diverse per distruggere o disabilitare infrastrutture collettive ed equipaggiamenti personali) vi è una “commistione tra difesa civile e militare”, senza alcuna possibilità nemmeno teorica di separare i due ambiti. Ammonisce il citato Rapporto: “Un attacco cibernetico può ad esempio avere come obiettivo il sistema sociale per un’operazione di disinformazione, il sistema economico per un’operazione di frode informatica, il sistema industriale per un’operazione di ransomware, un intero sistema paese per un’operazione di blocco o danneggiamento di infrastrutture critiche”. Quindi “competenze e attribuzioni si sovrappongono e solo una fattiva collaborazione tra civile e militare può portare alla piena efficacia delle linee di difesa”. In tal modo tutte le strutture e le istituzioni sociali vengono chiamate a costruire un sistema intrecciato di monitoraggio, controllo e sorveglianza. In tempo di pace e in tempo di guerra, a difesa dei confini esterni e dell’ordine interno. Tecnologie militari e civili si sovrappongono in modo inestricabile. La “dualità” (applicazioni civili di ricerche militari e viceversa) si va unificando.

Si chiude così il cerchio della militarizzazione della società in nome della sicurezza e dello sviluppo tecnologico. E si capisce anche quale sia l’interesse di industrie come Leonardo ad entrare nelle università e i militari nelle scuole.

da qui

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