Pier Paolo Pasolini è stato un poeta, regista e intellettuale
dall’intensità controversa, un artista in grado di rappresentare gli strati più
complessi e oscuri della società italiana del Novecento. Ma c’è un lato meno
noto di Pasolini, un lato che si schiera non solo nelle piazze e nei set
cinematografici, ma anche sui campi di calcio. Per Pasolini, il calcio non è
mai stato semplicemente uno sport, ma una metafora potente, un’espressione
genuina di cultura popolare e un linguaggio universale che riflette le
dinamiche sociali, politiche e culturali.
Calcio e cultura popolare: la poetica del pallone
Pasolini amava il calcio, lo giocava e lo viveva, vedendolo come uno dei
linguaggi più immediati del popolo. Cresciuto in un Italia postbellica,
Pasolini sperimentò un paese spaccato tra il desiderio di modernità e un forte
radicamento nelle tradizioni popolari. Nel calcio, Pasolini ritrovava i valori
della comunità e della spontaneità: un gioco che, pur essendo terreno,
possedeva una sua intrinseca poesia, un’essenza che esprimeva tanto la vitalità
quanto l’imperfezione della vita stessa. Per lui, il calcio era un simbolo
della cultura proletaria, un campo in cui non era necessario “avere” ma
soltanto “essere”: i giocatori, per strada o in un cortile, erano tutti uguali
e si ritrovavano uniti dallo stesso amore per la competizione e il divertimento.
Il calcio, nel pensiero pasoliniano, era quindi un atto di resistenza culturale
contro una società sempre più consumistica e individualista.
Calcio come linguaggio: prosa e poesia
La famosa distinzione pasoliniana tra “calcio di prosa” e “calcio di
poesia” è una delle interpretazioni più affascinanti che l’intellettuale abbia
dato di questo sport. In un articolo scritto nel 1971, Pasolini definì il
“calcio di prosa” come il calcio tecnico, efficace, disciplinato, finalizzato
esclusivamente al risultato. È il calcio delle squadre che seguono gli schemi,
che cercano di minimizzare l’imprevisto in favore di una tattica consolidata.
Eppure, questo non era il calcio che interessava Pasolini. Al contrario, il
“calcio di poesia” era per lui quello dell’improvvisazione, della genialità
improvvisa, della bellezza istintiva. È il calcio che sfida le convenzioni, che
riesce a meravigliare anche l’osservatore più disilluso, come un colpo di
pennello inatteso su una tela bianca. Pasolini ritrovava questa forma di calcio
nelle azioni geniali dei calciatori più creativi, come nel “tocco di classe”
che trasforma un semplice passaggio in un’opera d’arte. Nel suo immaginario, il
calciatore-poeta era come un attaccante capace di sovvertire i piani tattici
con un gesto audace e inaspettato.
Il campo come teatro sociale
Per Pier Paolo Pasolini, il campo di calcio era molto più che un semplice
spazio di gioco: diventava un palcoscenico sociale, una sorta di teatro
naturale in cui si svolgevano i drammi e le commedie della vita. Guardando una
partita di calcio, Pasolini riusciva a cogliere dinamiche umane e sociali che
rispecchiavano le complessità della società italiana del suo tempo, soprattutto
le tensioni tra le classi, i sogni di riscatto e le ingiustizie strutturali che
la caratterizzavano. Così, il calcio si trasformava in un’arte viva, capace di
incarnare speranze, frustrazioni, alleanze e rivalità. Il calcio, infatti,
rappresentava per Pasolini un linguaggio universale in grado di unire e, allo
stesso tempo, dividere. La stessa partita si caricava di significati simbolici
e diventava una metafora delle contraddizioni sociali: ogni squadra poteva
rappresentare il popolo e l’élite, l’individuo e la comunità, la periferia e il
centro. Nel semplice atto di scendere in campo, i giocatori portavano con sé la
propria storia, la propria identità, come attori che recitano, e al tempo
stesso vivono, un dramma comune e collettivo.
Gioco e lotta di classe: il calcio come atto di resistenza
Nel suo sguardo attento e appassionato, Pasolini vedeva nelle partite tra
ragazzi di borgata una sorta di resistenza naturale alla borghesia e al sistema
capitalistico, simile alla lotta di classe che narrava nelle sue poesie e nei
suoi film. Il calcio popolare, giocato nelle strade e nei cortili, era per lui
una forma di autonomia sociale e culturale, un linguaggio della “subalternità”
che poteva essere usato per esprimere l’identità proletaria e contestare le
convenzioni imposte dalla società dominante. I giocatori stessi diventavano
degli eroi antieroi: ragazzi di periferia, lontani dai privilegi, che si
imponevano su un campo da gioco come simbolo di libertà, di gioia, e di
appartenenza. Per Pasolini, il calcio era una forma di espressione che, a
differenza del linguaggio verbale, non poteva essere strumentalizzata o piegata
ai fini del potere. Una partita tra ragazzi, senza arbitri né spettatori,
possedeva una sua integrità assoluta, una sua purezza che sfuggiva alla logica
commerciale e consumistica della società di massa. Quella stessa società che, a
suo parere, stava rapidamente trasformando anche il calcio professionistico in
una spettacolarizzazione commerciale, perdendo il contatto con le sue radici
autentiche e popolari.
Il campo come spazio di riscatto e ribellione
In una società che tendeva a relegare le classi popolari ai margini, il
calcio offriva un’opportunità di riscatto, un momento in cui l’individuo poteva
distinguersi, diventare protagonista. Pasolini osservava con attenzione le
sfide tra i ragazzi delle periferie, vedendo nel loro gioco una forma di
ribellione simbolica. Quei ragazzi, spesso vittime di povertà e ingiustizia,
trovavano sul campo di calcio uno spazio di espressione e affermazione
personale: il diritto a giocare bene, a fare “il colpo di classe”, diventava
una forma di rivendicazione di dignità. Pasolini vedeva in questo aspetto del
calcio un parallelo con la lotta dei proletari per il riconoscimento e la
giustizia sociale. In campo non c’erano i limiti della burocrazia o delle
gerarchie di classe: bastavano due porte improvvisate, un pallone di stracci e
la voglia di giocare. In questo modo, il calcio diventava una realtà in cui
ogni giocatore poteva riscattare la propria esistenza, scendere in campo da
pari a pari, trasformando la passione in azione e il bisogno di identità in un
linguaggio collettivo.
Il fascino della “partita infinita”
La passione di Pasolini per il calcio lo accompagnò fino alla fine. In
quello sport rivedeva la “partita infinita”, una metafora esistenziale che
supera il semplice aspetto sportivo. Il calcio, per Pasolini, rappresentava la
speranza di riscatto e il continuo rinnovarsi dell’azione, con ogni partita che
dava vita a una nuova storia, dove il risultato non era mai scontato e il
finale sempre aperto. Pasolini vedeva nel calcio un sogno collettivo, capace di
abbattere le barriere sociali e di unire, in uno spazio comune, persone di ogni
ceto e provenienza. L’interesse di Pasolini per il calcio ci ricorda che questo
sport può essere molto di più di un semplice passatempo. Come lui stesso ha
scritto, il calcio è uno dei pochi riti sopravvissuti nella nostra società
secolarizzata. Nella poetica del pallone, Pasolini ritrovava il senso
dell’umanità: quella capacità di creare bellezza dal nulla, di agire con
slancio e cuore, di rappresentare la vita nelle sue sfaccettature più intime e
contraddittorie.
Conclusione: Pasolini, il calcio e il nostro presente
Oggi, a quasi cinquant’anni dalla scomparsa di Pasolini, il suo modo di
guardare al calcio come specchio della società ci appare più attuale che mai.
Nella modernità, dove il calcio è diventato un’industria sempre più
competitiva, le riflessioni di Pasolini ci ricordano il valore intrinseco di
uno sport che può ancora raccontare la vita nella sua autenticità. Quel “calcio
di poesia” che tanto apprezzava, oggi è forse sempre più raro, ma vive ogni
volta che un giovane, in un campetto di periferia, prende un pallone per
sognare.
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