domenica 31 luglio 2022

“2+2=4. Il nero è nero. Il bianco è bianco.” L’ultimo discorso di Alla Gutnikova

 

Traduzione di Francesca Stefanelli

Come resistere al flusso della storia e contemporaneamente farne parte? E’ questo che sembra chiedersi l’autrice quando, uscendo dalla sua autoproiezione di “bimba, pesciolino, ragazzino che va ancora scuola” si cala nel “novero degli esseri umani”. Se nell’autofiction “Il canto del cigno di Alla Gutnikova”, un testo ibrido alla cui spina dorsale si agganciano le citazioni e i riferimenti più disparati, la protagonista reagisce e si difende psicologicamente dalla barbarie di una perquisizione e di un lungo processo grazie ai suoi interessi, ai suoi studi e alla sua, proprio letteralmente, conoscenza (alle domande dell’investigatore sui suoi whereabouts risponderà con definizioni enciclopediche, schermaglie linguistiche e kalambours), nell’ultimo discorso in tribunale, dopo un anno agli arresti domiciliari costellato da discorsi quotidiani sui vari aspetti della situazione, Alla è quasi apofatica: “celerò le mie piccole, tenere parole sulla punta della lingua”. Ma di chi stiamo parlando?

Alla Gutnikova è una poco più che ventenne attivista, traduttrice, giornalista e, in primis, studentessa che è stata privata dell’agentività sulla propria vita. Alla Gutnikova, studentessa di culturologia ed ex redattrice del giornale indipendente DOXA con sede a Mosca, ha passato l’ultimo anno della sua vita agli arresti domiciliari ventidue ore su ventiquattro per un video divulgativo sui diritti dellə studentə russə durante le proteste del 2021.

Il flusso della storia è il fattore di discrimine tra queste due proposizioni; l’abisso della storia è ciò che divide l’aprile 2021 dall’aprile 2022. Se la conoscenza è il seme dell’eterno, la più grande barriera difensiva contro la violenza, l’accidente storico, che sia una perquisizione o lo scanno di un tribunale, appare come il segno di un male strutturale, prediscorsivo, quasi unica cifra interpretativa del reale. Ma la libertà nella storia esiste, si dispiega dialetticamente, si concretizza, e Alla ci dà, alla fine del suo discorso, una ben precisa indicazione su cosa sia, soprattutto su cosa assolutamente non sia, e su come la si debba cercare.

(Francesca Stefanelli)

Non parlerò del caso giudiziario, delle perquisizioni, gli interrogatori, i tomi, i processi. È noioso, e non avrebbe senso. Negli ultimi tempi frequento la scuola della stanchezza e della frustrazione. Ma già prima dell’arresto ero riuscita a iscrivermi alla scuola del saper parlare di quello che conta.
Vorrei parlare di filosofia e letteratura. Di Benjamin, Derrida, Kafka, Arendt, Sontag, Bartes, Foucalt, Agamben, di Audre Lorde e bell hooks. Di Timofeeva, Tlostanova e Rahmaninova.
Vorrei parlare di poesia. Di come leggere poesia contemporanea. Di Gronas, Daševskij e Borodin.
Ma ora non è né tempo né luogo. Celerò le mie piccole, tenere parola sulla punta della lingua, sul fondo della laringe, tra lo stomaco e il cuore. E dirò solo qualcosina.
Spesso io mi sento un pesciolino, un uccellino, un ragazzino che va ancora a scuola, una bimba. Ma di recente ho scoperto con stupore che anche Brodskij è stato messo sotto processo a 23 anni. E dato che sono stata ammessa anche io al novero degli esseri umani, dirò:

Nella Kabbalah esiste il concetto di tikkum olam – perfezionare il mondo. Io vedo che il mondo è imperfetto. Credo che, come ha scritto Yehuda Amichai, il mondo fu creato bellissimo perché vi fossero il bene e la tranquillità, come una panchina in un cortile (in un cortile, non in una corte di appello!). Credo che il mondo sia stato creato per la tenerezza, la speranza, l’amore, la solidarietà, la passione, la gioia.
Ma il mondo è un posto di terribile, insostenibile, di troppa violenza. E io non la voglio la violenza. In nessuna forma. Né nelle mani dei professori nelle mutande delle studentesse, né nei pugni di un padre di famiglia ubriaco sui corpi della moglie e dei figli. Se decidessi di elencare tutti i casi di violenza che ho intorno, non mi basterebbe un giorno, una settimana, un anno. Per vedere la violenza che abbiamo intorno è sufficiente aprire gli occhi. I miei occhi sono aperti. Vedo la violenza, e non la voglio. Più violenza c’è, più fermamente io non la voglio. E più di ogni altra cosa, ciò che non voglio è quella violenza più enorme, più terrificante.
Amo molto studiare: da ora parlerò attraverso le voci di altri.

A scuola, nelle lezioni di storia, ho imparato le frasi “Voi crocifiggete la libertà, ma l’animo umano non conosce catene” e “Per la libertà, vostra e nostra”.
Al liceo ho letto Requiem di Anna Achmatova, Viaggio nella vertigine di Evgenija Solomonovna Ginzburg, Il teatro soppresso di Bulat Šavlovič Okudžava, Figli dell’Arbat di Anatolij Naumovič Rybakov. Di Okudžava più di tutto ho amato la poesia:

Coscienza, dignità e onore
ecco la nostra sacra torma
tendile il palmo, per lei anche nel fuoco
non proverai timore
Illustre e mirabile è il suo volto.
Dedicale il tuo secolo breve
Potresti anche non vincere, ma almeno
Morirai da essere umano!

Alla MGIMO (Istituto statale di Mosca per le relazioni internazionali) ho studiato il francese e memorizzato il verso di Edith Piaff “Non poteva durare per sempre”. E quello di Marc Robine “Non può continuare così”.
A diciannove anni sono andata a Majdanek e Treblinka e ho imparato come si dice “mai più” in sette lingue: never again, jamais plus, nie wieder, קיינמאל מער, nigdy więcej, לא עוד.
Ho studiato i Maestri ebrei e mi sono innamorata di due proverbi. Rabbi Hillel diceva “Se non ci sono io per me, allora chi ci sarà per me. Se esisto solo per me, a che scopo esisto? Se non ora, quando?” e Rabbi Nachman diceva “Il mondo intero è un ponte stretto, la cosa importante è non avere paura”.
Poi mi sono iscritta alla Scuola di Culturologia e ho imparato delle altre lezioni importanti. Prima cosa, le parole hanno un significato. Seconda, bisogna chiamare le cose col loro nome. E infine, sapere aude, cioè abbi il coraggio di usare la tua testa.

Fa molto ridere che il nostro caso sia legato agli studenti. Ho insegnato ai bambini materie umanistiche in inglese, ho lavorato come tata, sognavo di partecipare al programma “Insegnante per la Russia” in qualche piccola città per due anni e seminarvi l’intelligenza, la bontà, l’eterno. Ma la Russia – parole del pubblico ministero Trjakin – ritiene che io abbia spinto dei minorenni a compiere azioni pericolose per la loro vita. Se un giorno avrò dei figli (e ne avrò, perché ricordo bene il Comandamento più grande) appenderò alla loro parete il ritratto del governatore Ponzio Pilato, per farli crescere persone pulite. Ponzio Pilato, in piedi che si lava le mani – raffigurato così. Sì, se ora pensare e non essere indifferenti mette a repentaglio la vita, non so cosa dire di questo capo di accusa. Me ne lavo le mani.

E ora arriva, un momento di sincerità. L’ora della trasparenza.
Io e i miei amici e amiche non riusciamo a trovare riparo dal terrore e dal dolore, ma quando scendo giù per prendere la metro io non vedo visi rigati di lacrime. Non vedo visi rigati di lacrime.
Nessuno dei miei libri preferiti – né per bambini, né per adulti – mi ha mai insegnato l’indifferenza, l’apatia, la viltà. Mai da nessuna parte mi sono state insegnate queste frasi:

siamo piccoli uomini
sono una persona semplice
non è tutto così univoco
non si deve credere a nessuno
come dire, non mi interesso di tutte queste cose
non sono troppo dentro la politica
questo non mi riguarda
niente dipende da me
è compito degli organi competenti
cosa mai potrei fare io solo

Io conosco e amo tutt’altre parole.
Jonn Donn attraverso Hemingway dice:

Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te.

Mahmoud Darwish dice:

Quando prepari la colazione, pensa agli altri
(non dimenticare il cibo per i piccioni).
Quando fai le tue le guerre, pensa agli altri
(non dimenticarti chi cerca la pace).
Quando paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri
(chi viene nutrito dalle nuvole)
Quando torni a casa, a casa tua, pensa agli altri
(non dimenticare le persone nei lager)
quando dormi e conti le stelle, pensa agli altri
(a chi non ha dove dormire)
quando ti esprimi tramite metafore, pensa agli altri
(a chi ha perso il diritto di parola)
quando pensi a chi è lontano, pensa a te
( dì: se solo fossi candela dentro al buio)

Gennadij Golovatij dice:

I ciechi non possono guardare irati
I muti non possono urlare con rabbia
Chi non ha braccia non può imbracciare armi
Chi non ha gambe non può marciare.
Ma – i ciechi possono guardare irati
I muti possono parlare con ira
Chi non ha braccia può imbracciare armi
Chi non ha gambe può marciare

Qualcuno, lo so, ha paura. Sceglie di tacere.
Ma Audre Lorde dice:
Your silence will not protect you.
Nella metro di Mosca dicono:
Ai passeggeri è proibito salire sui mezzi che viaggiano su binari morti.
E la band Akvarium da Pietroburgo aggiunge: questo treno sta andando a fuoco.
Lao Tzu tramite Tarkovskij dice:
La cosa più importante: che credano in se stessi, che si sentano impotenti, come bambini. Perché grande cosa è la debolezza, e infima la forza. Quando l’essere umano viene al mondo è debole e malleabile, quando muore invece è forte e insensibile. L’albero mentre cresce è tenero e flessibile, ma quando diventa secco e duro muore. La freddezza e la forza sono i compagni della morte. La debolezza e la tenerezza esprimono la freschezza della vita che esiste. Per questo ciò che si è indurito non può vincere.

Ricordatevi che la paura divora l’anima. Ricordatevi del personaggio di Kafka che vede “nel cortile della prigione una forca, crede erroneamente che sia destina a lui, evade di notte dalla cella e si impicca”.
Siate come bambini. Non abbiate paura di chiedere, a voi stessi e agli altri, cosa sia male e cosa bene. Non abbiate paura di dire che il re è nudo. Non abbiate paura di gridare, di scoppiare a piangere. Ripetete, a voi stessi e agli altri: 2 + 2 = 4. Il nero è nero. Il bianco è bianco. Io sono un essere umano, sono forte e coraggioso. Forte e coraggiosa. Fortə e coraggiosə.
La libertà è un processo, nel corso del quale allenate giorno dopo giorno la vostra indisponibilità ad essere schiavə.

 

Il discorso è stato pubblicato nella sua versione originale sul sito di DOXA.

 

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Alika Ogorchuwkwu ucciso a Civitanova, frutto di un clima avvelenato - Sergio Sinigaglia

Il 5 luglio del 2016 a Fermo toccò a Emmanuel Chidi Namdi, ucciso con un pugno da Amedeo Mancini, frequentatore della curva di tifosi e “balordo” di cui si diceva avesse simpatia di estrema destra; il 3 febbraio del 2018 Luca Traini, già candidato per la Lega alle elezioni locali e noto per la sua appartenenza fascista, per puro caso non fece una strage sparando nel centro di Macerata e ferendo sei immigrati.

Ieri pomeriggio è stato il turno di Alika Ogorchuwkwu, nigeriano di 39 anni, che nel pieno centro di Civitanova cercava di vendere qualche confezione di fazzoletti. È stato brutalmente aggredito dall’operaio trentaduenne Filippo Ferlazzo perché a suo dire Alika “aveva importunato” sua moglie, tesi alquanto improbabile e di comodo e che nulla giustifica.

Lo ha inseguito, gli ha strappato la stampella con cui l’immigrato si sosteneva a causa di un incidente automobilistico, lo ha picchiato, fino a stenderlo a terra e soffocarlo. Intorno le persone hanno filmato, fotografato, ma non hanno alzato un dito per impedire che la tragedia si compisse.

Ancora le Marche, un tempo ritenute “isola felice”, lontane dalle cronache nazionali, decantate per la loro economia, modello vincente, incentrato sulla laboriosa piccola e micro industria, oggi massacrata da anni dalla crisi economica, dalla fine di un sistema basato sullo sfruttamento e spesso sull’autosfruttamento.

Un modello il cui fulcro era proprio nei luoghi in cui si sono verificati i fatti sopra citati. Ma la crisi forse c’entra relativamente con tutto questo, così come è relativa la collocazione politica. Ignoriamo se Ferlazzo votasse a destra, o chissà cosa. E’ del tutto secondario, dato che basta guardarsi intorno e verificare costantemente il mutamento antropologico avvenuto in questo Paese, come in buona parte d’Europa, ma che qui fa i conti con un lontano “passato” che incide ancora profondamente, come un fiume carsico.

Ci aspettano elezioni dove tutti gli indicatori vedono in testa il partito che insieme alla Lega più ha seminato odio e intolleranza nei confronti dei migranti ed è l’erede del fascismo italiano, la cui leader ha visto il suo libro autobiografico in testa alle classifiche dei testi più venduti per diverso tempo.

Ma crediamo che le pulsioni contro gli immigrati e le fasce disagiate della popolazione vadano appunto oltre la semplice collocazione ideologica. Sono il veleno seminato dalle stesse istituzioni, dallo Stato attraverso una legislazione vessatoria e discriminante, dove, tanto per fare un esempio, una legge di buonsenso come lo Ius soli non trova spazio, dove quotidianamente la guerra contro i poveri scorre nelle strade sotto i nostri occhi, in mille modi, con pratiche odiose e repressive che vedono in prima fila le forze di polizia. E in questo scenario, descritto sommariamente, che poi trovano linfa crimini come quello accaduto a Civitanova. Ci si può permettere di uccidere davanti a testimoni un immigrato perché si ha la consapevolezza che ci sia un contesto dove l’intolleranza verso gli ultimi è accettata e tollerata.

Gli ipocriti che oggi sui giornali commentano esterrefatti l’allucinante immagine di Ferlazzo che soffoca Alika farebbero bene a tacere e pensare a quanto in questi anni abbiano favorito la crescita di questo clima e soprattutto appoggiato governi che nel migliore dei casi, poco o nulla hanno fatto per invertire questa tendenza, proporre provvedimenti efficaci, anche sul piano sociale, per contrastare la deriva in atto. E a quanto facciano per impedire quotidianamente le decine di morti di chi cerca di arrivare sulle nostre coste. Compreso il governo che è ancora in carica.

A noi “costruttori di ponti, per dirla con il nostro Alex Langer, il compito di continuare ad agire come antidoto all’odio, all’intolleranza e al razzismo.

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sabato 30 luglio 2022

IL SALARIO DIGNITOSO È UN DIRITTO UNIVERSALE

 

Una proposta per l'Italia, a partire dal settore moda

La Campagna Abiti Puliti lancia il nuovo rapporto “Il salario dignitoso è un diritto universale. Una proposta per l’Italia, a partire dal settore moda”. 

La povertà lavorativa è un fenomeno sociale complesso, che va oltre la pura questione salariale e dipende da diversi fattori (individuali, familiari, istituzionali) e dalla configurazione delle catene globali del valore. Per essere affrontata e aggredita nelle sue cause strutturali, sono necessarie misure diverse e complementari di politica economica e fiscale, di natura legislativa e contrattuale, a livello sia nazionale che internazionale.

Elaborando i dati OCSE relativi al periodo 2000-2020 emerge come le retribuzioni abbiano subito una contrazione in termini reali nel periodo considerato, determinando un’erosione del potere di acquisto dei lavoratori. Ulteriore preoccupazione è determinata da una dinamica inflattiva tra fine 2021 e inizio 2022 particolarmente sostenuta, spinta dai prezzi dei beni energetici e in misura minore da quella dei beni alimentari. Nel 2019, Eurostat rilevava per l’Italia un tasso di rischio di povertà lavorativa per i lavoratori di età compresa tra 18-64 anni dell’11,8% ovvero 2,8 punti percentuali al di sopra della media UE-27.

In questo rapporto affrontiamo nello specifico il tema del salario quale prima, ma non unica, questione urgente su cui intervenire per aggredire il problema della povertà lavorativa e della diseguaglianza in Italia, a partire dalle filiere della moda.

In particolare, sulla scia della proposta di salario dignitoso nel settore TAC avanzata dall’European Production Focus Group relativamente ai paesi dell’Europa centrale, orientale e sudorientale, a sua volta ispirata all’iniziativa del 2009 dell’Asian Floor Wage Alliance per il continente asiatico, abbiamo calcolato un valore del salario minimo dignitoso pari a €1.905 netti mensili (ipotizzando una settimana lavorativa standard di quaranta ore settimanali, tale salario equivale a €11 netti all’ora).

Il concetto di salario minimo dignitoso a cui ci riferiamo, diritto umano riconosciuto nel diritto internazionale e nella nostra Costituzione, è definito come il valore della retribuzione base netta in grado di garantire al lavoratore e alla sua famiglia il soddisfacimento dei bisogni primari e condizioni di vita dignitose. Si differenzia dal salario minimo legale perché non si basa su valori di mercato. Sono considerati bisogni primari il cibo, il vestiario, i trasporti (abbonamenti ai trasporti pubblici), l’alloggio (spese per l’affitto o rate del mutuo, manutenzione ordinaria della casa), utenze domestiche (elettricità, riscaldamento, acqua, raccolta rifiuti, telefono, internet), istruzione, cultura e tempo libero, spese mediche ordinarie, vacanze (un viaggio della durata di una settimana per tutta la famiglia all’interno del proprio paese).

Il calcolo del salario dignitoso si basa su una metodologia piuttosto semplice, in modo da essere replicabile e aggiornabile nel tempo. L’idea centrale è quella di suddividere la spesa complessiva delle famiglie in due grandi componenti: spesa per generi alimentari e altre spese. Una volta definito il valore monetario della spesa alimentare familiare e assumendo che questa rappresenti una certa quota percentuale della spesa complessiva, otteniamo il valore del salario dignitoso come somma della spesa alimentare e della spesa non alimentare a livello familiare.

Il pagamento di salari dignitosi a tutti i lavoratori della filiera, diritto umano e sociale fondamentale, rappresenta un passo determinante poiché obbligherebbe le imprese a produrre meno e meglio, con impatti potenzialmente positivi sul benessere dei lavoratori, sull’ambiente e sulla stessa economia. Si potrebbe così finalmente virare verso un nuovo modello di organizzazione di impresa più sostenibile, democratico e basato su un ripensamento dei tempi di vita e di lavoro” dichiara Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti

È noto che la povertà lavorativa sia un fenomeno complesso e multidimensionale e richieda pertanto una molteplicità di strumenti e di misure, di carattere economico, legislativo, contrattuale e culturale. Per questo, a corredo del salario dignitoso di base e per incentivare rapporti di lavoro stabili, sicuri e duraturi, nel rapporto auspichiamo l’attuazione di altre misure che potrebbero essere sperimentate a partire dal settore TAC per poi essere estese all’intera economia: l’introduzione di strumenti di integrazione e sostegno dei redditi da lavoro più bassi, il c.d in-work benefit  e  l’avvio di un percorso pluriennale e graduale di riduzione collettiva degli orari di lavoro, a parità di salario dignitoso di base, in un’ottica di netto miglioramento della qualità della vita per i lavoratori.

Le raccomandazioni alle istituzioni politiche e alle imprese dettagliate nel rapporto sono volte ad affrontare in maniera sistemica e strutturale il problema della povertà lavorativa nonché della urgente transizione verso una industria della moda sostenibile, che potrà dirsi tale solo se inclusiva, equa e democratica.

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Il Parlamento ratifica le missioni militari in Libia e conferisce pieni poteri al ministro dell’interno - Fulvio Vassallo Paleologo

 

Con il solo voto della Commissione esteri e difesa della Camera, dopo il voto favorevole del Senato, il Parlamento, esautorato persino dei poter dii esprimere il proprio indirizzo con un voto d’aula, ha ratificato, tardivamente, il finanziamento delle missioni militari in Libia per il 2022, che comprende anche il supporto alla sedicente Guardia costiera libica ed alle varie milizie che ne fanno parte, anche sotto la denominazione di GACS (General Administration for Coastal Security)Supporto che è sostenuto anche dall’Unione Europea.

Quest’anno si è andati ancora oltre e si è realizzato anche quanto Salvini chiedeva già nel 2019 prima dell’estate del Papete e della caduta del governo giallo-verde. Nel decreto, si prevede che “la missione è stata spostata integralmente tra le operazioni di polizia internazionale sotto il comando del Ministero dell’Interno”. Con il solo voto di una Commissione parlamentare i poteri relativi alla gestione della parte più importante dei rapporti con i libici sui dossier immigrazione e sicurezza in acque internazionali sono stati concentrati sul ministero dell’interno. Che Salvini aspira ad occupare di nuovo, dopo il prevedibile successo elettorale delle destre, dopo le prossime elezioni di settembre, tanto che ha già stilato un programma per i primi cento giorni che mette al centro un inasprimento della normativa e delle prassi di contrasto di fronte a quella che si definisce soltanto come immigrazione clandestina.

Il Partito Democratico ha cercato di simulare una svolta sui rapporti con la guardia costiera libica, ma leggendo gli atti si scopre facilmente che si tratta dell’ennesimo bluff, per conquistare qualche voto in più in quella vasta area di opposizione solidale che denuncia da anni la disumanità del Memorandum d’intesa Gentiloni Minniti del 2017 e delle prassi che ne sono seguite, inclusa la criminalizzazione dei soccorsi in mare operati dalle ONG che da quell’anno in poi sono state al centro di una ossessiva campagna mediatico-giudiziaria che lascia ancora gravissimi strascichi ancora aperti, come il processo Iuventa a Trapani. Il PD non ha votato soltanto la scheda 47, peraltro compresa nei documenti approvati al Senato, relativa alla formazione con personale italiano della sedicente guardia costiera “libica”, ma ha votato tutte le altre schede, soprattutto la scheda 33(in calce), che permettono il finanziamento delle missioni italiane in Libia, inclusa la missione NAURAS con la presenza di una nave della Marina militare italiana inserita nel dispositivo Mare sicuro, stabilmente presente nel porto militare di Tripoli (Abu Sittah) con compiti di coordinamento e di supporto logistico della sedicente Guardia costiera libica. Secondo la scheda 33, ( in calce) “Per il 2022 si conferma il potenziamento del dispositivo aeronavale, al fine di contribuire ad arginare il fenomeno dei traffici illeciti e rafforzare le capacità di controllo da parte delle autorità libiche, con assetti con compiti di presenza, sorveglianza, sicurezza marittima, raccolta informativa e supporto alle autorità libiche. La consistenza massima del contingente nazionale impiegato nella missione è incrementata a 774 unità. Mare Sicuro e la missione in supporto alla Marina libica non hauno un termine di scadenza predeterminato. Le relative attività continueranno fino a quando permarrà il consenso delle autorità libiche, ferma restando l’esclusione di qualsivoglia interferenza e/o partecipazione del personale italiano nei processi decisionali delle autorità locali nello svolgimento dei compiti istituzionali di propria competenza“.

In realtà, l’Italia interromperà solo l’addestramento della sedicente Guardia costiera “libica”, che dallo scorso anno per quanto riguarda la Tripolitania dalla fine del 2020 e’ sotto il pieno controllo dei Turchi. Conseguenza dell’intervento di Erdogan a difesa di Tripoli quando il generale Haftar la stava occupando. E adesso la Turchia controlla, attraverso le milizie libiche, le motovedette donate dall’Italia.

Il governo italiano continuerà a inviare pezzi di ricambio per la manutenzione delle motovedette donate a suo tempo e soprattutto, anche dopo questo voto, si andrà alla proroga tacita del Memorandum d’intesa Gentiloni–Minniti del 2017. Il voto sulle missioni militari all’estero, ed anche le schede che riguardano la Libia (vedi sotto) non incidono sulla proroga tacita del Memoradum d’intesa gentiloni Minniti del 2017 e sugli accordi internazionali secretati di recente dal Viminale, senza che nessun parlamentare del Pd protestasse. Continuerà la collaborazione con Frontex e con i libici per tracciare le persone in fuga in acque internazionali in modo da agevolare le intercettazioni violente dei libici. Una collaborazione che rende sempre più difficile l’impegno delle navi delle ONG ancora presenti nelle acque internazionali del canale di Sicilia, ancora più esposte alle incursioni delle motovedette libiche supportate dal governo italiano, ma ormai in gran parte sotto controllo delle autorità militari turche, che dal 2021 hanno una loro base navale a Khoms. Ormai la presenza italiana in Libia, soprattutto in Tripolitania è condizionata dai rapporti di subordinazione con Erdogan, come è emerso dal recente viaggio di Draghi in Turchia. Una posizione di debolezza che si può tradurre anche in un aumento incontrollabile delle partenze dalla Libia, nella totale mancanza di realistici canali di evacuazione umanitaria dalla Libia, a cui nessuno in Europa sembra interessato, a parte qualche sporadica iniziativa di facciata.

Le autorità italiane di coordinamento dei soccorsi e la Marina militare continueranno a riconoscere una zona Sar di ricerca e salvataggio riservata esclusivamente ai libici. Una zona Sar di morte e di sequestri in alto mare, altro che ricerca e soccorso di naufraghi. Per i governi le imbarcazioni sovraccariche fi migranti in fuga dalla Libia sono tutte in buone condizioni di navigabilità e costituiscono “eventi di immigrazione illegale” non casi in cui attivare misure di soccorso. Il Viminale continua a ritardare ingiustificatamente l’assegnazione di un porto di sbarco sicuro, e con un nuovo governa di destra si prospetta il ritorno alla pratica illegale dei “porti chiusi”. La collaborazione con i libici sarà sempre più intensa, per evitare che le imbarcazioni cariche di migranti in fuga dai campi di detenzione inumani, secondo i rapporti ONU, che documentato “torture sistematiche”, possano trovare scampo in Europa. E quindi saremo ancora complici degli abusi che i migranti continuano a subire nei campi di detenzione. Non basta qualche corridoio umanitario per poche decine di persone per nascondere la vergogna di accordi che il Parlamento non mette in discussione, neppure dopo la tardiva e limitata dissociazione da parte del Partito democratico. Una dissociazione tanto più finta in quanto corrisponde ad un indirizzo politico che stava già maturando a giugno all’interno del governo Draghi, non certo in nome del diritto internazionale o per una difesa dei diritti umani in Libia, ma solo per riequilibrare l’impegno dei militari italiani all’estero, riducendo il loro impegno di formazione della sedicente guardia costiera “libica” in modo da aumentare la loro presenza sul fronte dei confini orientali, a supporto dell’Ucraina in guerra contro la Russia.

Di certo i tentativi di censura non riusciranno a chiudere la bocca ai cittadini solidali ed ai giornalisti indipendenti, ed a impedire la circolazione delle informazioni, che, se non arriveranno dal Viminale, o dalla Centrale operativa della guardia costiera (IMRCC), verranno fuori proprio dai processi in corso contro le ONG, come nel procedimento Open Arms a carico del senatore Salvini a Palermo e saranno comunque accessibili a livello europeo. Vedremo quanto le prove “escluse dagli atti in questo procedimento” possano giovare alla difesa di Salvini, o non piuttosto ad aprire uno squarcio sulle reali attività di contrasto dei soccorsi in mare attuate dall’Italia dal 2017 in poi. Presto l’Italia, se continuerà ad operare sulla linea della negazione del diritto internazionale e degli obblighi di soccorso previsti dal Regolamento europeo n.656 del 2014 potrebbe incorrere in altre procedure di infrazione, dopo la condanna subita nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo per i respingimenti collettivi (caso Hirsi) ordinati nel 2009 da Maroni. I programmi elettorali delle destre in materia di chiusura dei porti e blocchi navali, che potrebbero essere previsti da un nuovo decreto sicurezza, se fossero attuati anche parzialmente, potrebbero costare molto cari agli italiani. Soprattutto se l’Unione Europea dovesse avviare anche nei confronti del nostro paese, come si è verificato già nei confronti dell’Ungheria di Orban, una procedura di infrazione per lesione dello stato di diritto, base delo Stato democratico, che comprende l’assoluto rispetto degli obblighi di salvataggio in mare sanciti dal diritto internazionale. Di certo la censura, che il Viminale, oggi, ed in prospettiva futura, cerca di imporre sulle attività di salvataggio nel Mediterraneo centrale e sui rapporti di collaborazione con la sedicente guardia costiera libica, non impedirà una documentazione completa degli abusi di cui le autorità italiane ed europee si renderanno complici.

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venerdì 29 luglio 2022

Commissario di (senza) governo - notav.info

 

Già da solo il titolo di questo parziale e iniziale report rende bene il senso della fase e dei pilastri su cui si regge il progetto tav Torino Lione. È questo infatti il riassunto che proviamo a fare della riunione svoltasi ieri mattina, 23 luglio, a Torino in prefettura dell’osservatorio sulla Torino Lione. Un tavolo di “lavoro” (è un parolone, visti i risultati sul campo dell’opera, 20 anni e più di progetti ferroviari senza aver ancora posato 1 metro di rotaia) che coinvolge  i protagonisti e sostenitori istituzionali dell’opera.

I presenti ve li avevamo anticipati con la lettera di convocazione, le notizie, parziali che iniziamo a riportare giungono a mezzo di articoli e comunicati stampa che con grande giubilo oggi le testate regionali riportano. Il protagonista indiscusso, top player della giornata, è Calogero Mauceri, commissario di governo che in contemporanea o quasi con le dimissioni del governo, fiero del suo mandato e dei suoi pieni poteri (siamo ironici visto che il Mario nazionale si appresta, tra gli applausi dei suoi coetanei, a tornare al bocciodromo) è riuscito a convocare con una riunione operativa su questa strategica opera (anche qui restiamo nell’ironia se non si trattasse della terra in cui viviamo, la valle di Susa, che è stata scelta per ospitare questo progetto).

 

E così in mattinata il commissario si è recato a vedere il tunnel geognostico di Chiomonte, prima di scendere in città alla sua riunione. Partiamo malino, da fonti anonime ma bene informate e presenti, abbiamo saputo che la visita si è interrotta al km 3: “Fermo commissario, più avanti non si può andare, è pericoloso ed entrano solo i robot, il caldo non è sopportabile dall’uomo”.

La sua, una battuta, ma neanche troppo “… non è possibile una cosa simile, rischiamo di fare una figuraccia internazionale se si viene a sapere”. Primo tempo malino, ma si recupera in prefettura e qui i maestri del tav danno il meglio. Si promettono mirabolanti benefici derivanti dalla costruzione dell’opera, 1000 posti di lavoro in Valsusa, formazione dei giovani, de-militarizzazione del territorio, traguardi a breve nel 2023 sulla progettazione e sugli appalti. Nulla di nuovo e nulla di più di quello che leggiamo da anni sui giornali e che anche oggi ritroviamo sulla carta stampata. Insomma nulla su cui aggiungere nulla.

 

Un dato invece dobbiamo sottolinearlo, non nuovo ma preoccupante per il futuro della valle di Susa. Il vero protagonista politico della giornata è il partito democratico che, con ben 3 esponenti in linea diretta di carica dal basso verso l’alto, ha retto e cucito il percorso che ha portato in questi mesi alla convocazione della riunione di ieri mattina. Parliamo di Pacifico Banchieri, presidente dell’unione montana valle di Susa, Jacopo Suppo, vice sindaco della città metropolitana di Torino, e Stefano Lorusso sindaco di Torino. Insieme queste 3 tessere di partito possono reggere in futuro un gioco già iniziato, molto utile al commissario di governo al fine di portare ancora energie e soldi verso il progetto.

Due su tre, infatti, provengono dal territorio della valle di Susa nel quale il progetto ambisce ad insediarsi e sono la garanzia con la quale i proponenti possono “vendere” una condivisione progettuale con i territori coinvolti. Condizione fondamentale per continuare a beneficiare dei contributi europei. Le scuse addotte le conosciamo bene e sono sempre le stesse: bisogna parlarsi, dialogare, andare oltre i piani ideologici e le dottrine, avere il senso del ruolo istituzionale che si ricopre.

 

Come territorio e movimento Notav, invece, pensiamo che non ci sia dialogo e discussione possibile con chi oggi – dopo decenni – continua progettare, distruggere e usare soldi pubblici per un’opera inutile, climaticida e fuori dal tempo Per tutti loro, per Mauceri, per i futuri governi, per gli ubbidienti servi di partito abbiamo solo una risposta: la lotta No Tav! Sui sentieri, sulle montagne, nella valle e nella città ci troverete sempre!

https://comune-info.net/commissario-di-senza-governo/

ricordo di Luca Serianni

 

 

Il rigore e l’impegno del professore - VALERIA DELLA VALLE

Ricordare in breve Luca Serianni, il suo magistero, le sue pubblicazioni, la sua attività di docente, è impresa difficile. Difficile anche immaginare come una sola persona abbia potuto, nel corso di una vita dedicata interamente alla ricerca e all’insegnamento, studiare a fondo tanti e diversi aspetti della lingua italiana. Difficile anche per me che l’ho conosciuto nel primo anno di università, seduti vicini ad ascoltare le lezioni di quello che sarebbe diventato il nostro maestro, Arrigo Castellani.
Vorrei ricordare almeno, scegliendo dalla sua sconfinata bibliografia, i saggi dedicati agli antichi testi toscani, ai puristi, al primo e al secondo Ottocento, a Dante, a Manzoni. E poi la fondamentale Grammatica italiana (Utet 1988) i tre volumi della Storia della lingua italiana Einaudi, diretta con Pietro Trifone nel 1993, il Devoto–Oli Vocabolario della lingua italiana curato in numerose edizioni con Maurizio Trifone a partire dal 2004. Quello che colpisce, nella produzione di Serianni, è la vastità dei suoi interessi, che lo hanno portato a occuparsi della lessicografia antica e moderna, della lingua della medicina, di quella dei viaggiatori, dei musicisti, dei poeti, del melodramma, della lingua del diritto, ma anche del romanesco, della prosa degli scrittori, della lingua dei cantautori. Proprio qui sta la sua singolarità: uno studioso privo di pregiudizi e paraocchi accademici, disposto ad analizzare con lo stesso rigore e con la stessa curiosità testi diversissimi, letterari e non letterari, ma tutti indagati come testimonianze del modificarsi e dell’evolversi della nostra lingua.
PER DARE UN’IDEA della vastità delle sue ricerche, basterà citare il volume Per l’italiano di ieri e di oggi (il Mulino, 2017), in cui gli allievi hanno raccolto ventotto suoi saggi. Scorrendo l’indice abbiamo un quadro eloquente degli interessi di Serianni: non solo Dante, ma Canova, Cavour, Tomasi di Lampedusa, Fedele D’Amico, fino a Toti Scialoia e a un’indagine sulle parole più ricorrenti nel linguaggio infantile. Aveva contato molto, nella formazione di Luca Serianni, essere stato allievo (il migliore allievo) di Arrigo Castellani, il grande storico della lingua italiana che ho citato all’inizio. Da lui aveva ereditato il tratto signorile e un po’ «d’altri tempi» e la capacità di spiegare i meccanismi linguistici in modo chiarissimo, nitido, quasi matematico. In più, rispetto al suo maestro, Serianni sapeva aggiungere nella leggendarie lezioni di storia della lingua italiana il particolare suggestivo, l’aneddoto, la battuta capace di conquistare gli studenti. Più che ripercorrere l’elenco dei suoi studi, vorrei qui ricordare l’impegno di Serianni nei confronti della scuola e dell’educazione linguistica dei futuri cittadini: al primo posto, nella gerarchia dei suoi valori, c’erano il ruolo di docente e il compito sociale e civile dell’insegnamento. Non a caso, nella conversazione con Giuseppe Antonelli intitolata Il sentimento della lingua (il Mulino, 2019), aveva dichiarato che «Nel caso della lingua italiana, avverto anche l’esigenza di un certo impegno civile: diffondere la padronanza della lingua e della sua storia è un modo per rafforzare il senso di appartenenza a una comunità».
E INFATTI tante sue opere sono diventate testi di culto per chi insegna: da Prima lezione di grammatica (Laterza 2006) a Scritti sui banchi (Carocci 2009), da L’ora di italiano (Laterza 2010) a Leggere, scrivere, argomentare (Laterza 2013), da Prima lezione di storia della lingua italiana (Laterza 2015) fino al recente Parola di Dante (il Mulino 2021), per non nominare le grammatiche scolastiche pubblicate in numerosissime edizioni che vanno dal 1992 a oggi, sulle quali hanno studiato generazioni di studenti. Questo suo impegno costante nei confronti del mondo della scuola lo ha visto protagonista di incontri con studenti e insegnanti: non solo nei licei storici (l’ultima sua lezione sull’importanza dello studio delle lingue classiche si è svolta al Liceo Virgilio nella «Notte del liceo classico» il 6 maggio 2022), ma nelle scuole di periferia e della provincia italiana, nelle chiese (le tre lezioni magistrali su Dante nella chiesa Regina Pacis di Ostia, nel novembre del 2021), nelle lezioni sulla «Lingua italiana come cittadinanza» al quartiere Tufello per un progetto del III Municipio di Roma. Ecco, ora che purtroppo devo ricordare quello che Luca Serianni ci ha lasciato, sono costretta a fare delle scelte e a privilegiare un aspetto, trascurandone altri di grande prestigio (la sua attività come accademico dei Lincei, della Crusca e dell’Arcadia, come vicepresidente della Società Dante Alighieri, come presidente della fondazione Lincei per la scuola).
SCELGO ALLORA di rievocare l’ultima lezione di Luca Serianni, quella fatta il 14 giugno del 2017 nell’Aula Magna della Facoltà di Lettere della Sapienza. In quell’aula gremita come per un concerto rock, in un silenzio interrotto solo dagli applausi scroscianti di studenti, ex studenti e colleghi, Serianni, rivolgendosi agli studenti, disse: «Ho avuto, nel mio lavoro, come riferimento il secondo comma dell’articolo 54 della Costituzione, che dice "I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore". Per questo ho chiesto ai miei allievi: “Sapete che cosa rappresentate per me? Voi rappresentate lo Stato».
E aveva aggiunto: «Spero che questa affermazione possa lasciare traccia di sé in quanti, un giorno, dovessero ricoprire cariche pubbliche. Non sta a me stabilire se io abbia adempiuto al precetto costituzionale». Che Luca Serianni abbia adempiuto fino in fondo al precetto costituzionale è dimostrato dal modo in cui ha svolto fino agli ultimi giorni la sua missione di educatore. Per migliaia di studenti Luca Serianni è stato non «un» professore ma «il» professore: chi frequenta i social sa che in questi giorni, dopo l’assurdo incidente che ne ha provocato la morte, un’ondata di affetto e di ricordi si è riversata nel sito a lui intitolato.
NON POTREBBE ESSERE diversamente per chi come lui ha messo al centro del suo impegno gli studenti (cosa non ovvia nel mondo universitario). Per ricordarlo ricorrerò proprio alle parole scelte dai suoi ex allievi (ormai diventati a loro volta insegnanti, ricercatori, professori, giornalisti, bibliotecari, autori radiofonici, scrittori, sceneggiatori) nel libro prima citato: «Per noi il nostro Maestro è semplicemente, Luca, e così è archiviato nelle memorie digitali e sentimentali che ci appartengono. È uno di famiglia, a cui vogliamo bene perché ci ha fatto mostra e dono di molte cose: il tempo, la disponibilità, la correttezza, il senso del dovere e, buona ultima, la conoscenza». Le molte conoscenze che Luca ci ha trasmesso continueranno a vivere nelle sue opere, per noi e per le generazioni future, ma l’amico ci mancherà per sempre.

da qui                               

 

Luca Serianni, lezioni di italiano - Francesco Erbani

 

Luca Serianni, storico della lingua italiana, accademico dei Lincei e della Crusca, è morto dopo essere stato investito da un’auto lunedì 18 luglio, mentre attraversava la strada sul litorale romano di Ostia. Serianni, che aveva 74 anni, ha insegnato in diverse università e ha chiuso la sua carriera accademica alla Sapienza di Roma nel 2017. Lo ha fatto con una lezione di congedo tenuta davanti a centinaia di persone, colleghi, ex allievi, amici, ma soprattutto davanti ai suoi studenti che affollavano l’aula I della facoltà di lettere. E ha chiuso la prolusione rivolgendosi a questi ultimi: “Sapete che cosa rappresentate per me? Immagino che non lo sappiate. Voi rappresentate lo stato”.

Si è espresso così senza accenti enfatici, anzi abbassando la voce e tenendo gli occhi fissi sul foglio dove aveva appuntato il suo discorso. È rimasto fedele al suo stile compassato anche in una circostanza emotivamente coinvolgente per chi all’essere insegnante ha dedicato tanto impegno quanto all’essere studioso di assoluta e riconosciuta qualità. L’unica breccia nel suo profilo austero Serianni l’apriva per farvi passare una controllata ironia giocata sul registro del professore apparentemente serioso e invece amabile, disponibile alla parodia pur di rendere accessibile il suo sapere.

Voi rappresentate lo stato, detto ai suoi studenti, fornisce anche l’idea che Serianni coltivava di una comunità e in particolare di una comunità linguistica, di una comunità dei parlanti. È una comunità che riconosce le regole e che fa riferimento a un codice. Ma è una comunità aperta e lo scopo fondamentale dei suoi membri è capirsi reciprocamente. Le norme e il loro rispetto consentono questa relazione, ma poi è importante anche il modo in cui si usano le norme, compreso il fatto che possono cambiare con il tempo, perché è sempre la comunità dei parlanti a decidere come dev’essere una lingua.

Serianni si sottraeva elegantemente quando qualcuno voleva ergerlo a giudice severo di una lingua italiana considerata ormai disfatta. E se come parametro si usava la presunta scarsa frequenza del congiuntivo, lui, dati alla mano, mostrava che non era affatto scarsae che, anche limitatamente alla lingua parlata, dopo “io spero” era difficile che anche in una chiacchierata non comparisse un verbo al congiuntivo.

Orientarsi nel mondo

Allievo prima di Arrigo Castellani, poi di Ignazio Baldelli, che lo vuole come assistente nella cattedra di storia della lingua italiana, Serianni diventa ordinario nel 1980. La sua produzione scientifica è vasta. Fin dalla metà degli anni settanta si cimenta con la lingua letteraria del duecento e del trecento, poi lavora sulla grammatica storica. Le sue lezioni sono basate su affondi nell’evolversi dell’italiano sempre sostenuti dall’analisi di testi ed esaminando sia le trasformazioni della lingua sia le trasformazioni della società italiana verificabili attraverso la lingua.

Contemporaneamente l’attenzione degli allievi è però richiamata sul ruolo che la lingua svolge nel promuovere consapevolezza, senso di orientamento nel mondo, cultura diffusa. Come può avvenire questo? Con l’ampliamento graduale del proprio vocabolario, con l’arricchirsi della sintassi, con il confronto di una lingua con un’altra, compreso il proprio dialetto, con l’adattarsi della lingua a un contesto specifico, con il ragionare sulle differenze tra lingua scritta e lingua parlata.

Serianni guarda con scrupolo alla formazione linguistica e dunque ai compiti della scuola. Nelle sue lezioni e poi in un libro del 2010, L’ora d’italiano (Laterza) contesta che sia il tema lo strumento migliore per abituare i ragazzi alla scrittura. Consente di migliorare la padronanza della lingua, ma non limita la tentazione di andare a ruota libera. Lui aggiunge di “sbrodolare”.

È il riassunto, invece, la regina delle prove, perché impone di capire un testo, di mettere in ordine gerarchico le sue parti, dalla più importante alle meno importanti, e di dire con altre parole quello che c’è nel testo. Va bandito, insiste Serianni, l’eccesso di grammaticalismo, tipico della classica versione di latino, del tutto priva di riferimenti a un contesto. E invece il latino serve nella sua storicità, dando importanza al suo lessico, al significato delle parole, in raffronto costante con l’italiano.

La chiarezza dell’argomentare spinge Serianni fuori dai recinti accademici. È consulente del ministero dell’istruzione per i programmi scolastici e susciterà qualche polemica il suo suggerimento di eliminare dalle prove scritte per la maturità il tema di carattere storico (scelto, per altro, da una minoranza assoluta di studenti). Si moltiplica la sua produzione scientifica.

Tra il 1993 e il 1994 cura insieme a Pietro Trifone una Storia della lingua italiana in tre volumi, che si affianca all’einaudiana Letteratura italiana diretta da Alberto Asor Rosa. Verranno poi, tra gli altri, Prima lezione di grammatica (Laterza 2006), Leggere, scrivere, argomentare. Prove ragionate di scrittura (Laterza 2013), Il sentimento della lingua (conversazione con Giuseppe Antonelli, il Mulino 2019), Il verso giusto. 100 poesie italiane (Laterza 2020) e infine Parola di Dante (il Mulino 2021), in cui ragiona, smontandola, sulla presunta alterità della lingua della Commedia rispetto all’italiano di oggi.

Serianni dentro e fuori dalle aule universitarie, con i suoi libri, gli incontri pubblici e le interviste, si mostra custode ragionevole di una qualità della lingua e bandisce tanto le sciatterie quanto le visioni apocalittiche. Sono troppi gli anglicismi? Sono l’uso dei parlanti e dunque il tempo lungo di una lingua ad accettare quelli ammissibili e a scartare quelli inammissibili.

Lo stesso vale per i neologismi. Piuttosto è lesivo del diritto di chiunque a capire cosa esige una pubblica amministrazione il fatto che questa infarcisca la comunicazione con parole inglesi o, peggio, con malaccorte traduzioni. Ma non è un dramma per chi, come Serianni, sostiene che non è la norma a fare l’uso, ma l’uso a fare la norma.

Parlando ai suoi studenti il giorno in cui ha lasciato l’università - era un’afosa mattina del giugno 2017 - Serianni ha ricordato i suoi maestri e quella regola alla quale si è sempre attenuto con gli allievi, vale a dire di riconoscerne le qualità senza forzarne le inclinazioni di studio e di ricerca. A patto però, ha aggiunto indirizzando lo sguardo complice verso i ragazzi, che, sia che privilegiassero la linguistica storica, sia che si orientassero verso quella testuale, quella letteraria o verso la sociolinguistica, si attenessero a un obbligo inderogabile: quello di usare l’accento acuto sul sé di sé stesso. Una sua radicata e proverbiale concessione al grammaticalmente corretto.

da qui

giovedì 28 luglio 2022

LA CASALINGA DI VOGHERA HA STUDIATO ALL’ALBERGHIERO DI MASSA LUBRENSE? DI BATTUTE INFELICI, DISPERSIONE SCOLASTICA E SPECCHI DI GALADRIEL - Orsetta Innocenti


Premessa. La vicenda del cosiddetto (vd. sotto) “alberghiero di Massa Lubrense” ha scatenato una indignazione abbastanza indiscriminata, che ha esondato un po’ ovunque, dai social, all’opinione pubblica, a tanti e tante esponenti del mondo della scuola.

Ritornare sulla questione significa riflettere sulle ragioni, e sull’opportunità politica, di questa stessa indignazione, a partire da un allargamento di sguardo sulla situazione oggettiva e sulla percezione culturale e sociale dei professionali (ma, in generale, di tutte quelle scuole spesso percepite come “di serie B”, che da ora in poi chiamerò “basse”) in Italia.

Mi pare infatti che questa difesa, un po’ da riflesso condizionato, dei professionali rischi di far passare in secondo piano un dato sostanziale e inequivocabilmente statistico: il fatto che i professionali in Italia – anche qualora fossero classi logiche paragonabili a Harvard (è evidente che non lo sono, la hybris di De Gregorio è di avere scimmiottato la casalinga di Voghera, senza che la battuta le sia venuta bene come a Nanni Moretti) – non stanno messi bene, e da anni, per molte e variegate ragioni strutturali e sistemiche che si possono riassumere in due parole tonde: “negligenza istituzionale”.

 

Non dirlo, difendere l’eccellenza del cosiddetto “alberghiero di Massa Lubrense” (che non esiste), porta come corto circuito inevitabile il “tutto ben, madama la Marchesa” pronunciato da Alessio Boni-Matteo Carati un secondo prima di gettarsi dal balcone del suo appartamento pieno di abbandonata solitudine, suicidandosi, nella Meglio gioventù.

Credo per questo che sia importante domandarci se il maggior prestigio percepito, sociale e culturale, ad Harvard lo abbiamo dato, e lo continuiamo a dare, noi, come società, ogni santo giorno, quando esibiamo la nostra disinteressata indifferenza per le sorti della scuola pubblica italiana in generale e delle sue scuole non liceali in particolare. La mia risposta è sì. Lo dice l’economia (gli stipendi contano), lo dicono, troppo spesso, gli sguardi di amici e conoscenti quando dichiari che per lavoro insegni a scuola, lo dice lo stato di abbandono in cui le istituzioni lasciano la professione docente fin dai suoi processi fondativi (formazione in ingresso, accesso ai ruoli – in particolare per la scuola secondaria) e di accompagnamento (formazione in itinere, profilo professionale, scientifico e di ricerca del docente). Siamo ancora, sostanzialmente, fermi al: “chi sa, fa; chi non sa, insegna” – con la “supplenza” a scuola scelta per ripiego, forma, percepita come a tutti accessibile, di ammortizzatore sociale.

 

L’inesistente alberghiero di Massa Lubrense. Come ho scritto sopra più volte, il professionale alberghiero, a Massa Lubrense, semplicemente, non esiste. Esiste, questo sì, una scuola superiore con tre sedi accorpate: il “Polispecialistico San Paolo” (codice: NAIS01600P), con sede principale a Sorrento, dove si trova, per l’appunto, insieme a un altro istituto tecnico, Economico e Tecnologico, il Professionale Servizi Enogastronomici, e ben due sedi succursali, una a Sant’Agnello, dove è ospitato il Tecnico Turistico, e una a Massa Lubrense (dove sono ospitati il Turistico e Amministrazione, Finanza e Marketing)1.

 

Si parla di un complesso scolastico di “circa 1100 studenti”: una scuola dunque che è stata vittima, come tantissime altre, del cosiddetto “dimensionamento”, l’accorpamento di più istituti sotto uno stesso dirigente se la popolazione scolastica scende, per le superiori, sotto i 500 alunni (secondo l’ultimo emendamento, nella legge di stabilità del 2020). Dunque no, senza la serie di leggi sul dimensionamento – che ha portato un solo preside a doversi occupare di scuole popolosissime, accorpate e diverse, su un territorio anche piuttosto vasto, mettendo in ogni caso insieme realtà complesse – non si potrebbe parlare, nemmeno virtualmente, della presenza di un professionale alberghiero a Massa Lubrense. Nel caso specifico, si tratta di tre comuni (Sorrento, Massa e Sant’Agnello) che si snodano sulla strada della costiera, mettendo insieme le specificità immagino complesse di tre comuni di uno dei massimi punti del turismo campano.

 

Dimenticarsi questa realtà, cedere alle lusinghe della narrazione amministrativa secondo la quale – poiché sono accorpati sotto lo stesso codice meccanografico, sotto la responsabilità di una stessa preside – queste tre realtà scolastiche sono geograficamente interscambiabili significa a mio avviso accollarsi il rischio di avallare la più ampia narrazione degli ultimi 25 anni (la prima legislazione sul dimensionamento scolastico è la L. 59/1997), secondo la quale le scuole possono essere trasformate in centri commerciali dell’istruzione, con piccole realtà specifiche di ‘istruzione di prossimità’ conglomerate in enormi ‘megastore’ in cui uno a fianco all’altro si trovano il supermercato, il negozio chic, la farmacia, la filiale della banca. Con la differenza che i megastore sono per davvero in un unico luogo, mentre, appunto, per quanto riguarda le scuole, e l’organizzazione, gestionale e didattica, della loro complessità, questa vicinanza è solo virtuale.

 

Si è visto al tempo delle restrizioni più pesanti durante la pandemia quando, per spostarsi da Sorrento a Massa Lubrense a Sant’Agnello, c’era bisogno di due tre (a seconda che la propria residenza fosse o meno in uno dei tre comuni) autocertificazioni diverse: soltanto un altissimo grado di concettualizzazione logico-formale (unito all’onnipresente ossessione per il risparmio della finanza pubblica ai danni dell’istruzione: un preside costa allo stato assai meno di tre presidi – per non parlare del dimensionamento del personale ATA che si può attuare in questo modo) può far parlare, nella vita quotidiana dell’esperienza di alunni/e, personale ATA, preside e insegnanti, della stessa scuola.

 

Nei fatti, ciascuna di quelle tre sedi vedrà forzatamente la preside per un numero di ore che non corrisponde al tempo scuola complessivo degli alunni e delle alunne; nei fatti, gli alunni e le alunne di quelle tre sedi sono estranei/e gli uni alle altre; nei fatti, se un/una docente perde posto in uno dei vari indirizzi, avere una cattedra “nella stessa scuola” non sarà proprio per niente lo stesso di quello che succederebbe a me se la perdessi in un indirizzo della mia.

Questa prima considerazione, brutalmente logistica, mi porta al secondo punto.

 

La fuga nei e dai professionali. Che i tecnici e i professionali rappresentino una enorme risorsa per la società italiana, lo so bene e ho provato anche ad argomentarlo in passato (del resto, e per scelta, orgogliosamente, ci insegno). Ma che questa sia stata, e sia oggi, la visione che informa gli interventi scolastici (già scarsi in assoluto, l’ho già detto) sulla scuola pubblica mi pare che sia quanto meno opinabile.

 

Le scuole tecniche e professionali (per non parlare dei Centri per l’Istruzione degli Adulti e dei percorsi di Istruzione e Formazione Professionale) svolgono, infatti, un ruolo socialmente cruciale di istruzione di prossimità in condizioni di difficoltà grandissime. Di nuovo, anche questo si è visto durante il tempo più duro dell’emergenza pandemica, quando la didattica a distanza (non importa in quale forma: totale, ibrida o mista) ha portato alla luce una sperequazione di cui sono stati maggiormente vittime proprio gli alunni e le alunne delle scuole “basse”. Per la possibilità economica di accedere alle forme di didattica a distanza, certo, ma anche (ne ho parlato diffusamente nel febbraio del 2021) perché lo stesso ministero è risultato incapace, in parte per ragioni oggettivamente contingenti, in parte per scelte decisamente miopi, di garantire a studenti e a studentesse di quegli indirizzi una quota minima ragionevole di quell’istruzione pratica cui pure avevano diritto ‘per contratto’2. E’ come se queste scuole – “della seconda possibilità”: le scuole dove spesso alunni e alunne arrivano con alle spalle la sensazione di avere ‘fallito’ in scuole percepite come socialmente e culturalmente ‘più Harvard’ – finissero sempre e costantemente fuori dai radar: dell’opinione pubblica (tranne quando una De Gregorio fa una battuta sullo status di legal alien di un presidente del consiglio dimissionario in Parlamento), del ministero, ma anche, in parte, dei suoi stessi docenti.

 

Questo elemento è stato ben messo in luce in due interventi, parzialmente fuori dal coro, usciti nei giorni scorsi in merito alla ‘vicenda Massa Lubrense’3. In entrambi, molto all’osso, il senso delle riflessioni si può sintetizzare dicendo che, se continuiamo a difendere acriticamente il (cosiddetto) “professionale di Massa Lubrense”, rischiamo di far passare il messaggio che nelle scuole di seconda scelta vada tutto bene, eccellenze a-problematiche a servizio del territorio; mentre invece, se ci caliamo appena un minimo nelle loro realtà, scopriamo che no, non va affatto tutto bene: restano luoghi di frontiera, difficili, dove la popolazione scolastica spesso arriva con il peso di una frustrazione (intellettuale, economica, culturale, sociale), del non sentirsi, altrove, all’altezza, e dove spesso i/le docenti non trovano motivazione per restare, perché non percepiscono (giustamente) la loro professionalità formata, accompagnata, valorizzata a sufficienza, e dunque ‘scappano’ in realtà scolastiche socio-culturalmente più rassicuranti, in un eterno cane vizioso che si morde la coda. Non è un caso (quante volte io stessa me lo sono sentita dire) che quei e quelle docenti che ai professionali, ai tecnici (e ai CPIA e sui percorsi IeFP) decidono di restare – di solito perché hanno avuto la fortuna, individualmente, di approfittare di percorsi di formazione a tutto campo che hanno loro dato strumenti di consapevolezza professionale e scientifica – siano spesso apostrofati come “missionari”, dotati di una “vocazione” eccezionale. Il prestigio di questi istituti rispetto ad Harvard si sostanzierebbe dunque – a ben guardare – non nell’avere una reale attenzione istituzionale, formazione costante per i/le docenti, riconoscimento professionale, sociale ed economico, didattica di prossimità dedicata con un numero anche inferiore alla media nazionale di alunni per classe (al fine di garantire una attenzione maggiore su necessità più complesse), ma in un non meglio precisato, emotivamente trascinante, numero di “eroine” e di “eroi”.

 

Non c’è nulla di particolarmente nuovo, in tutto questo. E, anzi, andando a spulciare i comunicati della prima ora in difesa del cosiddetto “professionale di Massa Lubrense”, vediamo che uno dei più accorati in difesa delle scuole professionali è fatto dalla dirigente di una delle scuole polo aderenti alla rete delle “Avanguardie educative”4. Si tratta di una rete nazionale di “scuole polo regionali: ‘ambasciatrici’ del Movimento per promuovere, sostenere e condividere i principi ispiratori del Manifesto programmatico per l’Innovazione”5, che si era segnalato, durante le settimane immediatamente seguenti il primo lockdown, per l’estensione di un Manifesto della scuola che non si ferma nel quale si proclamava la volontà di essere “pronti a metterci in gioco e in discussione, con professionalità e sacrificio” [corsivo mio]6.

 

Investimenti. La scuola italiana non ha bisogno né di sacrifici, né di eroi (né di poeti, né di santi, né di navigatori – nei comparti del lavoro pubblico, così come al governo), ma di professionalità coltivata. Quello su cui a mio avviso è necessario prima, se proprio si vuole, indignarsi, ma poi agire, come società civile dotata di consapevolezza politica, è il fatto che gli strumenti per coltivare questa professionalità in maniera sistemica non sono stati garantiti, e da parecchio, dalla pianificazione sull’istruzione posta in essere dai successivi governi della Repubblica (fino ad arrivare, buoni ultimi, ai non interventi del governo Draghi).

Non si possono infatti definire in alcun modo interventi ‘strutturali’ i fondi dati, insieme, a pioggia e a macchia di leopardo previsti nel PNRR. Invece di stabilire l’unica misura in grado di fare inclusione per davvero – riassumibile in due parole secche, “anche meno”: “meno” studenti per classe, “meno” classi per docente, “meno” plessi per preside, “meno” pratiche amministrative per unità di personale dedicato, “meno” metri quadri da pulire per collaboratore scolastico – infatti, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, per intanto, si è limitato a inviare con la modalità della ‘pioggia discreta’ una quantità di fondi per il “Piano contro la dispersione scolastica”, che appaiono cospicui per singola scuola, ma che sono un nulla rispetto agli investimenti che sarebbero necessari per riportare almeno a 24 (dagli attuali 27 minimo) il numero massimo di alunni per classe.

 

Il polo di Sorrento, con sedi associate a Massa Lubrense e Sant’Agnello, che ospita, come abbiamo visto, tra i suoi indirizzi il professionale alberghiero, ha ricevuto per esempio 225.651,19 euro sul totale dei 79.322.182,06 euro stanziati per la Campania (che ha ricevuto il finanziamento maggiore): calcolando che, come dichiarato dal sito ufficiale di Scuola in chiaro, nella sede di Sorrento del Polispecialistico San Paolo ci sono 1071 studenti, si tratta di 210 euro e spiccioli a studente/ssa per prevenire la dispersione in una scuola dove (sempre secondo i dati ufficiali di Scuola in chiaro) “si registra la crescita del fenomeno degli ‘abbandoni’”7.

Si tratta di un raffinato gioco delle tre carte: nei comunicati stampa il titolo 1,5 miliardi per il Piano contro la dispersione scolastica suona benissimo8. Peccato che poi, così, una tantum e a pioggia, si tratti di bruscolini, puro stucco (con i quali non è possibile nemmeno pagare l’insieme di tutti i libri previsti per un anno scolastico). Per andare a incidere sui parametri degli “anche meno” che ho evocato prima si muovono ordini di grandezza assai più imponenti. Per fare un esempio ‘a spanne’, riducendo anche di un solo alunno il numero di studenti per classe, in media cresce del 5% l’organico docente, dunque di circa 40.000 unità; calcolando in circa 30.000 euro annui la spesa per docente, parliamo di cifre che si attestano intorno al miliardo e duecento milioni. Cifre alte, certo, ma per interventi finalmente strutturali e sistemici; cifre che tuttavia in tempo di PNRR sarebbero state possibili, ma avrebbero fatto meno colpo (esattamente come inondare le scuole di lavagne da Minority Report, le cosiddette “smartboard”, fa molta più propaganda che assumere in una oscura stanza di segreteria non aperta al pubblico una nuova unità di personale).

 

Il dito e la luna. E’ tempo di tornare al punto di partenza, e alla battuta che ha dato origine al dibattito. Non è mia intenzione commentarla più di tanto – fare questo implicherebbe mettere in piedi ragionamenti che riguardano il codice della comunicazione, i generi letterari (la differenza per esempio tra informazione e satira), i contesti (il salotto di In onda che si trasforma, e non certo da oggi, nel salotto di casa), e, di conseguenza, una tipologia completamente diversa di intervento. Diciamo che si è trattato, nelle cose, di una battuta infelice, e tanto basta (ho studiato lettere, e so dunque che quando la comunicazione di un messaggio, a torto o a ragione, fallisce, come ha clamorosamente fallito questo, la parte più cospicua della responsabilità risiede, sempre, nell’emittente).

 

Mi pare però che – ed è questo che ho cercato di argomentare in queste righe – De Gregorio abbia, anche involontariamente, sollevato la voce di un contesto implicito che si è sentito chiamato in causa anche e soprattutto per quello che potrei definire l’effetto dello specchio di Galadriel nel Signore degli anelli (che rivela, a ciascun membro della Compagnia dell’Anello che vi si riflette dentro, le sue più segrete verità).

 

Il poco prestigio percepito di cui godono non solo i professionali, ma tutta la scuola italiana, si snocciola, a mio avviso, in una noncuranza diffusa, dall’alto e dal basso. Lo dicono i tassi di partecipazione alle manifestazioni e alle iniziative per l’aumento dei fondi alla scuola pubblica (dove ci troviamo sempre coi soliti quattro inossidabili gatti), lo dicono i tassi di adesione agli scioperi, lo dice l’indifferenza sostanziale della “società civile” con la quale si sono consumati gli scempi delle riforme Moratti, Gelmini, Renzi, e il silenzio di fatto con il quale sono stati accolti i provvedimenti dei ministeri Azzolina e Bianchi durante l’emergenza, nonché il nulla sostanziale messo nel PNRR dal “governo dei migliori”. Lo dice il fatto che troppo spesso nel discorso pubblico “liceo” è usato serenamente come sinonimo di “istituto superiore”, e che una buona parte dell’Italia colta media non conosca la presenza nel sistema scolastico dei CPIA e dei percorsi di IeFP, o che non sappia che, col Dlgs 61/2017, ai professionali (come l’inesistente “alberghiero di Massa Lubrense”) è stato dato un Esame di stato meno esame degli altri (con la seconda prova parzialmente interna), e un percorso che, per venire incontro all’obiettivo europeo di abbassare il livello di bocciature italiano, ha previsto non fondi in più per interventi didattici continui nel tempo, ma semplicemente la residualità per legge della bocciatura in prima (cioè sull’età soglia dei 16 anni)9.

 

Adontarsi, richiamare puntigliosamente le eccellenze di alcuni percorsi professionali (che sicuramente esistono – ma un sistema sano non è fatto di eccezioni), mi pare rischi, con clamoroso effetto boomerang, di spostare l’attenzione sul problema sbagliato. E il problema dell’istruzione professionale italiana non è quello di una notista politica che si improvvisa comica, senza avere, come ho già detto, la bravura di Nanni Moretti, ma quello di una mancanza strutturale di attenzione, interesse, investimenti, fondi sull’istruzione pubblica da parte di troppi. Così – spostandosi dalla luna al dito – si continua, implicitamente, a sollevare la politica italiana, nel merito, dalle sue enormi, strutturali, responsabilità.

 

Note

 

1 Tutti i dati, qui e dopo, sono presi dal sito di Scuola in Chiaro: https://cercalatuascuola.istruzione.it/cercalatuascuola/istituti/NAIS01600P/polispecialistico-san-paolo/ (u.c. 23/07/2022).

2 Cfr. Orsetta Innocenti, Figli di una scuola minore. La ‘distanza’ nei tecnici e nei professionali, in Le parole e le cose, 24/02/2021: https://www.leparoleelecose.it/?p=40829 (u.c. 23/07/2022).

3 Cfr. Roberto Ippolito, Harvard, l’alberghiero e l’ingiustizia sociale, in Tecnica della scuola, 22/07/2022: https://www.tecnicadellascuola.it/haward-lalberghiero-e-lingiustizia-sociale?fbclid=IwAR3St9vhQxt3VS_ndL5KZg1jm8P6z6rbaiv_dpJ8RxAhh_P8ZXPizQZ6BW0 (u.c. 23/07/2022) e Alfonso D’Ambrosio, Indignarsi per Concita perché tutto resti uguale, in Senza filtro, 22/07/2022: https://www.informazionesenzafiltro.it/concita-de-gregorio-alberghiero-massa-lubrense/?fbclid=IwAR10PI45vDERa7BEe_X-U5AFql3q6KM0ggpMiN78AuI5jecuGRPvek1XIYo (u.c. 23/07/2022).

4 Ampi stralci del comunicato, liberamente consultabile alla pagina FB della DS Laura Biancato, sono riportati in questo articolo: Fabrizio De Angelis, “Draghi come un professore di Harvard che ha avuto la supplenza all’Alberghiero di Massa Lubrense”. La frase di Concita De Gregorio finisce nella bufera, in Orizzonte scuola, 21/07/2022: https://www.orizzontescuola.it/draghi-come-un-professore-di-harvard-che-ha-avuto-la-supplenza-allalberghiero-di-massa-lubrense-la-frase-di-concita-de-gregorio-finisce-nella-bufera/ (u.c. 23/07/2022).

5 Cfr. il pieghevole di Indire che illustra la rete: https://pheegaro.indire.it/uploads/media/AVANGUARDIE_EDUCATIVE/Pieghevole_scuole_polo_ITA_PER-WEB.pdf (u.c. 23/07/2022).

6 Cfr. Manifesto della scuola che non si fermahttps://www.indire.it/wp-content/themes/indire-2018/manifesto-la-scuola-non-si-ferma.pdf?fbclid=IwAR3z_NpUzD6QVUGKmg1EOZ19Yl-qvKLqnN50jxeqLNi1Mr61naiczfQO1Oo (u.c. 23/07/2022).

7 Per il riparto delle cifre regionali di questa fetta di PNNR rimando alle cifre fornite dal governo. Cfr, rispettivamente qui (riparto regionale): https://pnrr.istruzione.it/wp-content/uploads/2022/06/M4C1I.1.4_Dispersione_Riparto_regionale.pdf e qui (riparto per scuole): https://pnrr.istruzione.it/wp-content/uploads/2022/06/M4C1I.1.4_Dispersione_Riparto_istituzioni_scolastiche.pdf (u.c. 23/07/2022).

8 Cfr. la pagina dedicata del sito del Ministero dell’Istruzione: https://www.miur.gov.it/web/guest/-/pnrr-1-5-miliardi-per-il-piano-contro-la-dispersione-scolastica-il-ministro-bianchi-ha-firmato-il-decreto-con-i-primi-500-milioni-per-interventi-sulla#:~:text=Ministero%20dell’Istruzione&text=Abbiamo%201%2C5%20miliardi%20a,nella%20fascia%2012%2D18%20anni. (u.c. 24/07/2022).

9 Rimando su questo a Anna Maria Agresta – Marina Polacco, La riforma dei professionali e il (falso) miraggio delle competenzeLe parole e le cose, 09/01/2020: https://www.leparoleelecose.it/?p=37434 (u.c. 23/07/2022).

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