lunedì 30 maggio 2016

Tra me e il mondo - Richard Wright


E all’improvviso una mattina nel bosco mi sono imbattuto
nella cosa,
Mi ci sono imbattuto in una radura erbosa con querce rugose
ed olmi a sentinella.
E sono emersi i particolari anneriti dello scenario, ficcandosi
tra me e il mondo...

C’era il disegno di ossa bianche sonnacchiose dimenticate
su un cuscino di ceneri.
C’erano poi i resti carbonizzati di un arboscello che puntavano
un dito mozzo e accusatorio verso il cielo.
C’erano i rami strappati, le piccole vene di foglie bruciate, e
il rotolo bruciacchiato di corda unta;

Una scarpa vacante, una cravatta vuota, una camicia strappata, un cappello solitario e
un paio di pantaloni macchiati di sangue nero
E sull’erba calpestata bottoni, fiammiferi spenti,
cicche di sigarette e sigari, bucce di noccioline, una
fiaschetta svuotata di gin, e il rossetto di una puttana;
Tracce sparse di catrame, piume e penne svolazzanti nell’aria e
l’odore persistente di benzina.
E nell’aria mattutina il sole versava stupore giallo
nelle orbite svuotate del teschio impietrito...
E mentre me ne stavo lì la mia mente raggelata da una pietà fredda per
quella vita andata.
La terra mi afferrò per i piedi e attorno al mio cuore si innalzarono
le mura ghiacciate della paura –
Il sole si spense nel cielo; il vento notturno borbottava tra l’erba
e scompigliava le foglie tra gli alberi; il bosco si risuonò
del latrato affamato dei mastini; le tenebre
urlavano con voci assetate; e i testimoni si levarono
e presero vita:
Le ossa riarse si mossero, agitandosi si alzarono per fondersi alle
mie ossa.
Le ceneri grigie si trasformarono in carne soda e nera, ed entrarono nella mia
carne.
La fiaschetta del gin passata da bocca in bocca; i sigari le sigarette
si riaccesero, la puttana si imbrattò di rossetto
le labbra,
E migliaia di facce mi turbinarono attorno, insistendo a gran voce che
venisse arsa la mia vita...

E poi mi presero, mi denudarono, schiacciandomi in gola 
i denti fino a quando non inghiottii il mio proprio sangue.
La mia voce annegò nel ruggito delle loro voci, e il mio
corpo nero bagnato scivolava e rotolava nelle loro mani
mentre mi legavano all’arboscello.
E la mia pelle si attaccava alla catrame bollente, che mi si staccava di dosso
in mucchietti flosci.
E le piume e le penne bianche si affondarono appuntite
nella mia carne sanguinante e si levarono i gemiti della mia agonia.
Poi una misericordiosa frescura sorprese il mio sangue, il battesimo
della benzina.
E in una vampa rossa balzai verso il cielo mentre il dolore si alzava come
acqua, bollendomi gli arti.
Ansimando, scongiurando mi aggrappai come un bambino mi aggrappai ai roventi
fianchi della morte.
E ora non sono che ossa riarse e la mia faccia un teschio impietrito che fissa
con giallo stupore il sole...

Poco più di cento rapidi racconti - Eliana Elia

l'altra sera ho preso la metropolitana leggere, ho portato con me un librettino di quelli della Fahrenheit 451, un taschinabile, 
ne trovo uno di racconti brevissimi, perfetto per un viaggetto da meno di un'ora fra andata e ritorno.
ce l'avevo da anni, finalmente l'ho preso.
partito il trenino ho aperto il libro, e ho cominciato a sorridere, un paio di volte anche a ridere, insomma Eliana mi piaceva.
ogni tanto alzavo lo sguardo e vedevo che qualcuno mi guardava come se avessi un problema, sopratutto quelle ragazzine e quei ragazzini semi-autistici, col cellulare sempre in mano.
come poteva un libro fare quell'effetto, immagino pensassero, e siccome era impossibile, lo sanno tutti, dovevo essere un po' toccato.

adesso faccio una prova, vediamo l'effetto che fa.

Aperture (p.78)

La maestra entrò in classe e disse: "Aprite le finestre". Gli alunni fecero silenzio, spalancarono i loro libri e respirarono aria fresca.


Il Paradiso Terrestre (p.45)

Durante le vacanze estive sono andata nel Paradiso Terrestre; tutti me lo avevano sconsigliato dicendomi che si trattava di un posto fuori moda, antiquato, senza piscina e senza aria condizionata. Mi sono trovata, invece, benissimo. Il posto era incantevole.: Adamo ed Eva mi hanno offerto tante mele renette.


In aria (p.97)

Si era finalmente alzato il vento. Strinse nel pugno il filo e, mentre l'aquilone si posava sulla terra, il bambino cominciò a volare.


Giornata (p.29)

I nipoti andarono a farle visita. Si rallegrò di vederli dopo tanti anni. Aveva preparato con cura i loro piatti preferiti e, durante il pranzo, assaporò tutti i loro racconti. Il tempo passò in fretta e quando i ragazzi andarono via , mise una cornice a quella giornata e l'appese al muro.


cosa ve ne sembra?
spero che questi microracconti non vi piacciano, perché il libro è introvabile - franz


due canzoni con topi



domenica 29 maggio 2016

Perché raccontare le storie di Gaza è pericoloso - Ameera Harouda

Due coraggiosi registi e attivisti sahrawi che documentano le violazioni dei diritti umani - Habibulah Mohamed Lamin



Nota dell'editor di Witness: durante un recente viaggio nei campi-profughi sahrawi [en, come tutti i link seguenti salvo diversa indicazione] a Tindouf in Algeria, WITNESS ha incontrato il giornalista locale Habibulah Mohamed Lamin. Questo messaggio di Lamin fa parte di Watching Western Sahara, un'iniziativa di WITNESS Media Lab che si occupa e contestualizza video sui diritti umani girati dagli attivisti digitali sahrawi. Questo post è stato originariamente pubblicato sul blog di WITNESS.

I campi profughi dei sahrawi sono composti perlopiù da tende e case di fango sparse che si estendono nell'immenso deserto del Sahara dell'Algeria occidentale. Vennero creati quando il Marocco annesse il Sahara Occidentale nel 1975 e le 100 mila persone che li popolano dipendono dagli aiuti umanitari per far fronte ai bisogni di cibo, acqua e vestiti.
Nel 1976, il popolo Sahrawi fondò uno stato chiamato Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi, o RASD. La RASD opera in esilio nei campi e nelle zone del Sahara Occidentale controllate dal Fronte Polisario [it]. Dopo aver accettato il cessate il fuoco negoziato dall'Onu nel 1991, i sahrawi si sono serviti di mezzi pacifici per richiedere il loro diritto all'autodeterminazione. L'accordo di pace prometteva un referendum che avrebbe permesso ai Sahrawi di votare per l'indipendenza, ma ciò non si è ancora concretizzato.


Brahim Dahani

Dihani è venuto ai campi per partecipare ad un laboratorio organizzato dall'Unione degli Studenti Sahrawi (o UESARIO). Tutti i 16 studenti riuniti nella stanza erano desiderosi di imparare. Non appena il loro insegnante gli ha chiesto di riconoscere delle inquadrature cinematografiche, hanno iniziato: “grandangolo”, “no, campo lungo”, in un'atmosfera piena di entusiasmo.
“Sono venuto per imparare le tecniche di ripresa così da poterle utilizzare quando torno a casa”, ha detto Dihani. Secono lui, protestare nel Sahara Occidentale è difficile a causa del divieto imposto dal Marocco, che impedisce qualsiasi genere di raduno di manifestanti.
La repressione delle proteste da parte del Marocco è una questione che i gruppi internazionali di supporto e i funzionari dell'Onu documentano da molto tempo. Ad una seduta del Congresso sul Sahara Occidentale, indetta il mese scorso dalla Commissione Tom Lantos per i Diritti Umani, Eric Goldstein di Human Rights Watch ha espresso le preoccupazioni dell'organizzazione, che includono “le violazioni del diritto alla libertà di espressione, di associazione, di riunione e il diritto ad un equo processo, le torture nel corso degli interrogatori e la violenza della polizia verso i manifestanti”.
“La tua vita è in pericolo”, mi ha detto Dihani, “non appena metti piede fuori dall'aeroporto di El Aaiun”. Come ha spiegato, la repressione contro i media a cui lo sottopongono le autorità marocchine è un processo che prevede controlli severi. “Mentre torno a casa”, ha aggiunto, “mi aspetto ogni tipo di ispezione come la perquisizione senza vestiti e così via”.

Mariem Zafri

Mariem Zafri ha 33 anni e vive nella città di Smara, nei territori occupati dal Marocco. Ha da poco completato uncorso di attivismo video per i diritti umani organizzato da FiSahara e WITNESS.
Al ritorno dai campi verso casa sua nel Sahara Occidentale, le è stato sequestrato il volantino dei difensori dei diritti umani. “Sono stata oggetto di discriminazioni razziali, in quanto mi hanno messo in una stanza per gli interrogatori separata.” Ha descritto l'attivismo digitale nel territorio come uno specchio per riflettere su “la grave situazione dei diritti umani nella regione”. Per esempio, Zafri ha segnalato il processo militare del 2013 dei detenuti di Gdeim Izik, che ha portato alla condanna a morte per 9 civili sahrawi. I prigionieri politici avevano indetto lo sciopero della fame per 36 giorni. Quando alle famiglie fu impedito di far loro visita, hanno protestato a Rabat, cantando: “Nessuna legittimità per il tribunale militare”.
Zafri è d'accordo con le numerose organizzazioni sahrawi e internazionali che vorrebbero il mandato della MINURSO, la missione di pace dell'Onu nel Sahara Occidentale, esteso anche al monitoraggio dei diritti umani. Tale monitoraggio, dice Zafri, “permetterà ai Sahrawi di scendere in piazza ed esigere i loro diritti”. Attualmente, i diritti umani sono trattati di rado da giornalisti e sostenitori internazionali. All'inizio di questo mese, un gruppo di cittadini europei in visita a Gdeim Izik è stato espluso da Rabat dalle autorità marocchine. A Human Rights Watch è stato proibito di far visita al territorio.

 
 Video dei familiari dei prigionieri politici sahrawi in protesta a Rabat, Marocco

Gli attivisti digitali del posto, come Zafri e Dihani, sono gli unici rimasti a documentare gli abusi nel Sahara Occidentale. Come mi ha detto Zafri, le sue possibilità di portare avanti questo servizio sono a rischio. “Sono sempre in pericolo, anche quando non sto riprendendo”.
Habibulah Mohamed Lamin è un giornalista che vive nei campi-profughi del Sahara Occidentale. Ha lavorato come interprete e traduttore per i visitatori dei campi, tra cui WITNESS, ed è direttore del Equipe Media Branch di Tindouf, un gruppo di attivisti digitali che opera nel Sahara Occidentale.


fotomontaggio






















da qui

sabato 28 maggio 2016

E le palle ancora gli girano





Essere o non essere competitivi? - Emilia de Rienzo

Che per riuscire nella vita bisogna essere competitivi, è un’idea assodata e indiscutibile. La parola competizione con le altre parole che viaggiano insieme a lei: merito, valutazione, selezione, sembrano ormai ciò di cui c’è assoluto bisogno per costruire una società moderna ed efficiente. Secondo questa visione, la competizione ha  effetti positivi,  migliora la realtà, favorisce il progresso e quindi la vita di tutti. Lo crediamo senza indagare più di tanto cosa voglia veramente dire dover sempre gareggiare.
Non si analizza questa parola nelle sue implicazioni sociali, economiche e psicologiche più profonde, non si guardano gli effetti negativi e, se lo si fa, si pensa che i danni “collaterali” siano inevitabili.

Di slogan in slogan, queste idee sono diventate patrimonio collettivo, hanno messo radici nella mente di ognuno di noi e rimbalzano ogni giorno dai discorsi ufficiali della politica ai dialoghi della gente più comune. La competizione deve animare le imprese, le istituzioni, gli stati, ma anche le relazioni sociali tra persone, e purtroppo anche l’educazione dei nostri bambini. Ci vantiamo se sono intelligenti, bravi a scuola, nello sport, se sono belli; li vogliamo vestititi all'ultima moda, con il cellulare ultima generazione e ci preoccupiamo se soni troppo altruisti, se sono sensibili, se pensano troppo agli altri. Li impegniamo dalla mattina alla sera: a scuola, in palestra, a lezioni di musica o di una lingua. Vogliamo che imparino subito a difendersi, a essere forti. La fragilità, la delicatezza d'animo non sono delle doti, sono degli handicap da cui bisogna "guarire". 

La forza del modello competitivo viene dalla determinazione con cui viene applicato, dal consenso acritico di cui gode e dal suo radicamento nella nostra cultura.
E così che ci siamo costretti a correre sempre più velocemente per superare gli altri e noi stessi: non abbiamo tempo è il ritornello più in voga ogni volta che qualcuno ci chiede di fermarci un attimo anche solo a fare due chiacchiere. 
Siamo presi dall'ansia da prestazione, temiamo di non essere all'altezza…, ci sentiamo umiliati se non riusciamo a realizzare ciò che ci eravamo prefissati, abbiamo sempre paura di perdere “qualcosa”. 

Nonostante la stanchezza che a volte ci pervade, non mettiamo in dubbio che essere competitivi sia una necessità e ci adoperiamo per essere sempre al top delle nostre possibilità sia fisiche che intellettive. E questo lo chiediamo anche ai nostri figli che devono anticipare ogni apprendimento per poter superare gli altri, per essere superiori, i più bravi, per raggiungere “mete ed obiettivi” e acquisire più competenze possibili. Alcuni mandano i figli a scuola prima dei sei anni, nelle scuole materne migliori si imparano le lingue straniere, si impara a scrivere e a leggere. E il gioco, l'imparare a stare con gli altri, l'esplorazione di un mondo che in un bambino piccolo è una necessità, non è poi così importante. L'importante è che "sappiano"...

La competizione, quindi, si estende ben oltre la competizione economica e il mercato; arriva a plasmare la nostra quotidianità e soggettività senza che ne abbiamo piena coscienza. Siamo messi in competizione con gli altri e con noi stessi, nel mondo del lavoro, ma anche nel modo con cui stiamo con gli altri, con cui educhiamo i  nostri figli. La vita stessa diventa una incessante gara. 
Tutti devono giocare, e si gioca per vincere, sapendo che, se qualcuno vince, qualcun altro dovrà perdere. Lo si sa e non ci si chiede cosa succederà a chi perde. Si gioisce per la propria vittoria, ma si gioisce anche per la sconfitta degli altri.

Ma come regolare nella scuola una "sana competizione"? Ed ecco entrare in campo la parola magica che appassiona e fa discutere: meritocrazia. Nella scuola va incoraggiata la meritocrazia e non c'è merito che non si misuri, che "finalmente" introduce l'obiettività delle valutazioni. Nella scuola finalmente entrano i test, le griglie di valutazione nel consiglio di classe, ma anche a livello nazionale e transnazionale. La logica che li sottende è la misurazione oggettiva. E i test sono davvero uno strumento eccezionale, così accurati e "intelligenti" da saper misurare non solo le competenze cognitive, ma anche la capacità di comunicare, di socializzare, di saper lavorare con gli altri...
Quanto lavoro per rendere la scuola sempre più efficiente e capace di individuare gli alunni più meritevoli!
Se hai un buon punteggio sei dentro, se non lo raggiungi, sei fuori. Tutto quello che rimane fuori dalla griglia non "vale", non esiste perché non è previsto un punteggio.
Questo vale per ogni tipo di valutazione, anche quella prevista per gli insegnanti.

Eppure se interroghiamo i ragazzi, ma anche noi stessi, ricordiamo come gli insegnanti che abbiamo più amato, che hanno saputo trasmetterci la gioia del sapere, erano quelli capaci di dare "qualcosa in più", un qualcosa di indefinibile che ci apriva le vie della conoscenza senza farla "odiare", anzi...

Questo "qualcosa in più" ci racconta quanto sia irrinunciabile la componente soggettiva, non quantificabile e non standardizzabile anche se non arbitraria. Il che significa, come dice Beatrice Bonato, in Aut Aut, che bisogna:
smettere di spingere gli studenti verso il miraggio di punteggi più elevati, riconoscere gli allievi dotati senza pretendere di creare, fin dalla scuola, un'élite dei talenti .
Martha Nussbaum ci invita poi a sottrarci all'idea di rendere sempre più efficienti le scuole:
Distratti dall'obbiettivo del benessere chiediamo sempre più alle nostre scuole di insegnare cose utili per diventare uomini d'affari piuttosto che cittadini responsabili.
Forse un buon esercizio sarebbe quello di provare a reintrodurre possibilità umane fondamentali, teoricamente e praticamente scartate dall'ideologia dominante: aprire spazi di relazione, di libertà, di bellezza per riflettere sulla costruzione di una società democratica veramente inclusiva, tenendo fuori dalla porta l'ossessione del confronto competitivo e della "traduzione delle differenze in classifiche".
La cultura è un dono che dobbiamo saper offrire ai nostri studenti vivificandola, avvicinandola alle loro realtà di vita, sottraendola a un'idea "aristocratica" in cui ancora troppi insegnanti credono.
Questo è il passaggio fondamentale a cui bisogna prepararsi. E per fare questo dobbiamo "metterci in gioco" nella relazione, imparare ad accettare l'imprevedibilità, a ridefinire le regole del gioco, diventare ricercatori il cui sapere non  è fine a se stesso, ma il mezzo mediante il quale si potenziano e sviluppano le abilità degli allievi e si entra in dialogo continuo con loro.

venerdì 27 maggio 2016

Sciola, appunti di una biografia (mai scritta) sulla gioia di vivere e di creare - Donatella Percivale




Nell’ottobre del 2013 Pinuccio Sciola mi chiese di aiutarlo a scrivere la sua biografia. “E’ arrivato il momento di farlo”, mi disse. A lui mi legava una stima profonda e un sentimento forte della vita che chiamavamo bellezza. Accettai.  Quelli che seguirono furono pomeriggi di stupore, ricordi e risate. E frotte di amici e conoscenti che non smettevano mai di bussare alla sua porta. “Pinù, vogliono vedere le tue pietre”, gridavano da dietro la grande finestra. Così, interrompeva i fiumi di racconti e scompariva per far suonare i suoi amati graniti. Quando capimmo che quel libro difficilmente saremmo riusciti a scriverlo, scherzò: “Magari ci ispiriamo a Leopardi e buttiamo giù un bel Zibaldone”. Non scrivemmo nemmeno quello. Erano troppi gli impegni, le commesse, le mostre, la voglia di vivere e lavorare che animavano Pinuccio Sciola.
Quelli che seguono sono solo alcuni pensieri. Appunti di fine estate. Frizzanti come la granita di uva zuccherina che mi preparava in quei pomeriggi carichi di vita e libertà.

Santità
Chi farei santo? Quel gran genio di Leonardo! Chi più di lui ha fatto miracoli? L’artista che possiede la capacità creativa, porta in sé il segno del divino. Santificare vuol dire essere vicino a chi ha creato le meraviglie di questo mondo. Perché Giordano Bruno deve rimanere su un palo a bruciare e non essere invece adorato su un altare? Propongo un calendario laico di cervelli creativi che parta da Bruno per arrivare a Borsellino, uomini che si sono spesi per gli altri. Uomini che per la fede nella loro passione hanno dato la vita.

La funzione dell’arte
L’artista deve incidere, lasciare il segno, documentare il reale, far sì che le mostruosità di cui ci macchiamo non vadano dimenticate. Questa estate ho modellato alcune delle mie pietre pensando ai bambini morti in Siria. Pietre che simboleggiano delle date, pietre come salme crivellate di buchi, come quei poveri corpi. Siria 2013. Ecco cosa dovremmo ricordare di questa estate.

La notorietà
Ad oggi ho contato almeno una ventina di tesi sui miei lavori: studenti dell’Accademia di Brera di Milano, dell’Università di Parma o di Bologna. All’estero, mi conoscono più che in Sardegna. Ma oramai non mi fa più arrabbiare. Il problema della nostra isola è l’invidia. Ci corrode il petto. E ci fa solo strisciare.

Lavoro
Quante ore lavoro durante la giornata? Almeno 14. Sto cercando dove vendono il tempo, ma non sono ancora riuscito a trovare il negozio.

Creatività
Ognuno, a suo modo, ce l’ha. Magari è più nascosta, ma io la sento. Mi viene addosso, anche con un sorriso.

Sagra delle pesche
Nel ’69, con un gruppo di amici di San Sperate, ci inventammo una festa, un’occasione per stare tutti insieme e fare baldoria. Per un mese intero addobbammo portali e dipingemmo murales, un’ondata di creatività che sembrava non finire. Decidemmo di chiamarla “La sagra delle pesche” e alla fine non c’era una casa che non fosse aperta, una gara tra rioni e famiglie a chi avesse più pesche e cibo buono da offrire. Per strada non si riusciva a camminare senza che qualcuno non ti invitasse a bere. L’ultima sera, durante un ballo, crollo a terra dalla stanchezza. Un amico si avvicina tutto spaventato e mi dice: “Pinuccio, Pinuccio, cosa possiamo fare, cosa desideri? Aprii gli occhi e gli gridai forte in faccia: “MORIRE!”.

La morte
E’ un bel momento questo per pensare alla morte, ho tre figli che viaggiano per il mondo con la loro testa, ho regalato e venduto emozioni, e se dovesse finire qui, semplicemente, ringrazierei. Ci troviamo su questa terra solo di passaggio e la nostra vita, paragonata al tempo delle pietre, è solo un attimo. Tutti siamo costretti a sparire, e se ognuno imparasse ad amare il proprio tempo vivrebbe meglio. Con meno ansia e più leggerezza. Avere ben chiara la consapevolezza della propria morte, aiuta a vivere meglio. E fa amare il proprio tempo.

La realtà
Penso che la lettura dei quotidiani sia fondamentale, una fonte inesauribile di idee e di suggestioni. Io sono ancorato alla realtà. La biciclettata che faccio ogni mattina per andare a prendere il cappuccino al bar, è fonte di energia e di pensiero. Amo il rapporto con la gente del paese: chi prima arriva al banco offre a tutti gli altri. E’ una fortuna infinita salutarsi, riconoscersi, scambiare parole. Che senso ha vivere nelle grandi città? Rivolgersi a mala pena qualche parola, vivere perennemente attaccati al telefono. Quante parole si scambia oggi una coppia? In Germania hanno calcolato che in media, durante una cena, ne dicono sette. E quello lo chiamano amore?

La ricchezza
Quando sento la gente che si lamenta, impazzisco. Ma ce l’abbiamo il sole sulla testa o no? E le gambe per camminare? Perché ci lamentiamo sempre se poi continuiamo a sprecare tutto? Non sappiamo più inchinarci, non guardiamo più la terra. All’improvviso siamo diventati troppo alti? La ricchezza è quella che abbiamo sotto ai piedi. E la calpestiamo: tutti i giorni.

ascoltare Marco Ongaro

ecco un cantautore bravissimo, ma quasi sconosciuto, ascoltare le sue canzoni non è tempo perso, almeno per me non lo è mai – franz

Una recensione di Leon Ravasi
Il nuovo disco di Marco Ongaro è un buon disco di solido rock e di verace impasto cantautorale. Uno di quei solidi prodotti medi di cui c’è tanto bisogno, con alcuni brani che si staccano nettamente dalle media, come la title track. Le sonorità sono volutamente e in modo ricercato occhieggianti ai sixties, con grande uso di organo hammond, svisate chitarristiche alla Hendrix, riff alla Elvis Presley e armoniche alla Neil Young, citazioni tutte quante volute e dichiarate in quanto tali. La voce di Ongaro è poi la parte più convincente: scura naturale, arrochita al punto da far pensare a una vita vissuta, ma non bruciata, è una voce che convince e affascina. Un buon disco.
Insomma non sarà il caso di gridare ogni volta al miracolo! Qualche volta ci si può accontentare delle cose fatte bene. E Dio è altrove?, forsse approfittando della distrazione del Dio in questione, è fatto come Dio comanda. Insomma Dio non è morto, ma è altrove, o almeno guarda altrove.
Lo spunto è letterario (Ongaro cita Potocki), ma lo svolgimento è dilaniano. Così come un po’ tutto il disco occhieggia a Dylan, tra citazioni e tributi d’autore: l’assolo di “All along the watchtower” in Ligabue, il suono dell’organo così Like-a-rolling-stoniano (quasi un omaggio ad Al Kooper da parte di Moreno Piccoli), la voce e la scelta dei temi e lo spirito, disingannato ma non annichilito, disposto ad ascoltare e a mettersi in discussione, che lo caratterizza.
Dieci canzoni che escono dopo un lungo periodo di silenzio da parte di Ongaro: un silenzio rumoroso, in realtà il suo, perché se è vero che non esce con dischi a suo nome dal 1995 (Certi sogni non si avverano), è altrettanto vero che nel 2000 ha composto e prodotto un intero cd per Grazia De Marchi – Lasciatemi vivere – e nel 2002 è uscito conShakespeariana, una ricca e interessante galleria di personaggi femminili tratti dalle opere di Shakespeare, interpretata da Giuliana Bergamaschi e tra le opere più votate all’ultimo Club Tenco. Oltre a numerose collaborazioni per recital ed eventi teatrali.
Fatto sta che per vedere uscire un uovo disco a nome Marco Ongaro si è dovuto attendere la nascita dell’etichetta D’Autore di Edoardo De Angelis. Ongaro canta molto bene, con una vocalità calda e profonda, capace di dare solennità e spessore, mentre, musicalmente, la direzione artistica e gli arrangiamenti sono di Roby Ceruti, che ha buona parte di “responsabilità” in questo ritorno alle atmosfere dei sixties.
Sotto questo aspetto il disco è addirittura rigoroso: spartano e vivido, suona forte come una roccia, senza concessioni alle mode di tendenza, ma con quel tanto di anacronistico che rende il prodotto gradito alle orecchie più gravate di anni. Sognare, dormire, forse svegliarsi, Ginevra, Tutto è secondario, assieme alla già più volte citata Dio è altrove sono i punti più alti del disco, ma il dato più rilevante è la qualità media che non scende mai sotto il livello di guardia.

Una recensione di Alessio Lega
“…singolare sorte per questi due album (Archivio postumia ed Eptalogia), che interamente arrangiati e registrati, non sono a tutt’oggi stati pubblicati. Per qualcuno è filtrato il contenuto, dal momento che Ongaro ne ha proposto, dal vivo, le scalette complete in più d’un occasione; alcuni estimatori dell’artista poi li posseggono in copie fortunosamente scippate all’autore sotto minaccia di torture e vessazioni. Rimangono però due opere sospese nel limbo, incredibilmente, visto che oltre ad essere due dischi di valore artistico assoluto, sono una chiave di volta fondamentale per capire l’evoluzione di questo cantautore; mi scuserete quindi se ne parlo, pur consapevole del fatto di parlare di opere che molto difficilmente potranno in qualche modo arrivare a chi mi legge, a meno che la Rosso di sera, che le ha prodotte e ne detiene i diritti, non decida di renderle pubbliche…”.
Così scrivevo 3 anni fa in un libro cominciato e mai finito, e di cui l’opera di Marco Ongaro era uno degli oggetti di studio più lungamente approfonditi. Passatemi questo vezzo iniziale… ma mi sembrava così terribilmente ongariano iniziare con la citazione di un proprio inedito, che non ho saputo resistere oggi che finalmente, a quindici anni di distanza dalla loro registrazione, le due opere vedono la luce.
Un problema: io conosco questi dischi perfettamente, li ho ascoltati dal vivo, li posseggo, come dicevo, in copia. Sono convinto che siano complessivamente un capolavoro, e non è l’impressione dettata dalla scoperta subitanea, dal sorgere dell’entusiasmo per una novità inaspettata. È piuttosto una convinzione meditata e perfettamente formata in me, solo che questo atteggiamento poco si addice al concetto di recensione… però non sono in grado di recensire questo disco più di quanto sarei in grado di recensire Le nuvole, The Wall o Dias y flores.
Ecco che dunque, più che recensire, mi proverò a manifestarvi le mie riflessioni su queste due opere raccolte in un solo CD.
Iniziamo dal titolo. Un’archivio dunque, un repertorio: repertorio di personaggi e situazioni. Ma perché postumia? O meglio perché l’autore sin dalle prime interviste ha adoperato per se la definizione di “cantautore postumo”?
Tutti i personaggi di Ongaro sono non vivi, a partire dall’autore, che parla appunto postumo, come la luce di una stella che ci giunge quando essa è spenta da chissà quanto, ma non per questo brilla meno. Non confondiamo però il postumo col morto, Ongaro parla da classico, dunque immortale, perciò fuori dalla storia. La sua è una riflessione sul sacrificio che la vita fa alla parola per divenire qualcos’altro. Un qualcos’altro che è Storia, storie o forse solo avanspettacolo, ma che non è più vita. L’arte, o in fin dei conti la comunicazione, inizia dopo la vita, appunto, postuma. Questa è l’amarissima riflessione che nutre l’opera ongariana. Finchè si vive è impossibile comunicare.
A noi, posterità vivente, l’autore invia bagliori da chissà quale altrove, da chissà quale pianeta, segnali di fine corsa, mappe, giornali di bordo. La sua poetica per questo deve rinunciare a possedere il senso, tutt’al più può affiancarlo, ci si può confondere senza intrappolarlo; per questo la sua parola è chiara ma imprecisa, la sua musica è evocativa, ma laddove sembra vertere a un crescendo viene a mancare.
Il procedimento compositivo di Marco Ongaro rifugge l’originalità bizzarra, il passaggio che lascia increduli. La sua cifra è nella perfetta comprensione dei meccanismi mitici della canzone, quelli fuori dal tempo, per riportare ogni parola a una casa/trappola, una casa dolce casa incantata e pericolosa, una casa di bambola risaputa e inquietante.
Questi dischi di Ongaro sono una sorta di casa di Hansel e Gretel, dove si sgranocchierà la dolcezza retrò al gusto di rosolio dei confetti, dei muri di marzapane, ma chissà, vi si potrà anche attendere la trappola di una profondità stregata.
Tutte le canzoni di questo CD appaiano frammentarie, come pezzi di un puzzle fra i relitti di un naufragio, che galleggiano suggerendo l’idea di un antica visione d’insieme irrimediabilmente perduta. Tutti i punti di vista proposti non trovano l’unità di fini, pur in qualche modo suggerita, Marco Ongaro sembra anzi compiacersi del binomio chiarezza/mistero che propone continuamente in questa tappa d’arrivo del suo stile ironico e swingante, in seguito abbandonato per il Rock di Dio è altrove e di Esplosioni nucleari a Los Alamos.
Tappa d’arrivo, dicevamo, ma anche mappatura di una crisi: non una crisi creativa ovviamente, le canzoni sono molto belle, ma il loro risolversi nel giro di pochissimi versi, il loro fare quasi sempre riferimento a topos letterari consolidati (a volte precisi: LolitaLandru; a volte generici: La signora Russa), pone falsi paletti in una sabbia mobile di informazioni, fa intravedere un’uscita che non esiste, promette una comprensibilità che non arriverà.
Emblematica la politicamente scorretta e avarissima di parole Lolita:
Forse c’è un bambino in me / ed è lui che ama te.
Ma se c’è un bambino in me / certo è lui che ama te (sempre se c’è!).
Lolita / finisci la tua pasta al burro
Lolita / quel telefono è un po’ troppo azzurro, mettilo giù
Se mi prometti, mi prometti che non lo farai più
Io ti prometto, ti prometto che non lo farò più.
nell’affrontare uno dei temi più scottanti e repressi della sessualità ecco che Ongaro non cerca la deflagrante sfida e passione della stupenda canzone di Léo Ferré Petite (Allora tu non mi andrai / perchè sotto la gonna non avrai più / il codice penale), sussurra piuttosto all’orecchio turbato dell’ascoltatore una tenerezza incoffessabile e affida ogni commento alla melodia che, retta dal sax e scossa dal contrabasso, si avvolge come un serpente sulle parole, e rabbrividisce strascicando la voce su quell’ineffabile e torbidissima pasta al burro (si suppone proveniente dallo stesso panetto usato da Brando in Ultimo tango a Parigi).
Arrangiato in maniera talvolta trionfalisticamente fastidiosa Eptalogia, pur meno unitario di Archivio, contiene brani stupendi, a partire dal primo Demian, di derivazione Herman Hessiana, questo personaggio rappresenta lo struggimento senza fine della memoria dell’antica amicizia, di un alleanza perduta.
Il sosia è un altro dei brani chiave del disco per il gioco di sovrapposizioni multiple, per la schizofrenia evidente del tema, per la bella invenzione che ricorda il famosissimo doppio perverso inventato da Gainsbourg nei suoi ultimi anni (Gainsbarre).
Sospesi così perfettamente, come fra le pagine mancanti di una rivista, questi pezzi rappresentano l’esito ultimo del gioco di rimandi e travestimenti iniziato dall’autore col suo primo disco AI: Ongaro è partito facendo canzoni che sembravano le Songs di un musical di cui non conoscevamo trama e dialoghi, ma a cui eravamo richiamati dai luoghi comuni, dagli spazi stabiliti per tacito accordi fra ascoltatore e narratore.
In questi due dischi però quel Musical è diventato la vita stessa, le paillettes si sono sbiadite e i confini fra vita e cultura, fra futuro e passato son diventati inestricabili.
Nella straordinaria L’hai voluto tu la crisi della coppia è tutta sancita da giochi con le (e non di) parole che si affiancano e si contraddicono, che restano le stesse per dire l’opposto:
Tu mi parlavi / io non capivo
probabilmente ti tradivo / poi te l’ho detto
che ti ho tradito / mi hai perdonato
mi son pentito
specularmente, nella seconda strofa rimane quasi tutto uguale, cambiando completamente il significato:
poi me l’hai detto / che mi hai tradito
ti ho perdonato / mi son pentito.
Cioè: mi son pentito d’averti perdonato, quando la prima volta il tuo perdono m’aveva fatto pentire d’averti tradito!
La conclusione della canzone scivola su una doppia citazione, anch’essa speculare, di due autori speculari e leggendari (che fra l’altro, racconta la leggenda, un giorno litigarono per una stessa donna):
mi lascerai / non che non ti lascerò
io si, io si / tu no, tu no.
la prima (Io si) è una canzone di Tenco, la seconda (Tu no) è una canzone di Piero Ciampi.
A giocare troppo col fuoco delle parole si rischia però di rimanere bruciati…raschiato il fondo del barile della comunicazione può cominciare l’afasia. Forse per questo l’autore trattò con le pinze questo materiale, lasciandolo alla fuggevole attenzione di qualche concerto, ma non premendo troppo per farlo pubblicare, annunciandolo postumo sin dal titolo.
Ongaro aveva intuito di aver toccato il fondo e che la risalita non sarebbe stata cosa facile: il suo linguaggio ha poi dovuto necessariamente riverginarsi attraverso la purezza popolare di Lasciatemi vivere. Ma per questo sarebbe dovuta passare una nottata di quasi dieci anni (giusto interrotta da quella sorta di autoantologia che fu Certi sogni non si avverano).
Oggi una delle più belle opere della canzone italiana, una delle più profonde riflessioni sul suo linguaggio, è finalmente disponibile. Come dissero Cafiero e Malatesta ai contadini del Matese: “I forconi li avete, i coltelli ve li abbiamo dati, se volete fate, se no vi fottete”.

Un’intervista di Giorgio Maimone
Marco Ongaro ha un viso schietto e sincero, di quelli che fanno subito simpatia e ispirano fiducia. E una bella stretta di mano salda. È vero che questo non basta, soprattutto in campo musicale, ma aiuta molto. È una persona con cui si può parlare della “sensualità dei cibi” e di “piatti di assoluta autorevolezza”. Se poi aggiungiamo che queste caratteristiche si traducono in un modo di far musica altrettanto schietto, abbiamo il disegno a tutto tondo di un cantautore anomalo, un cantautore “su commissione” come ama definirsi, in questa chiacchierata tutta vissuta con un sorriso sotto i (reciproci) baffi.
“Lavoro su commissione, sì. Come stimolo, scrivere per qualcuno che ti ordina una cosa è intrigante. È quasi uno spunto rinascimentale. Non mi sento pittore ma pennello e tavolozza. Se scrivo per Grazia De Marchi scrivo cose mie che parlano di lei. L’idea di “Shakespeariana”, invece me l’ha data il regista Paolo Valerio che più di me aveva .in testa Shakespeare. Cleo, l’ultima canzone, l’ho scritta a luglio dello scorso anno e prima di partire mi telefona questo chitarrista di Verona, Roberto Cerutti. Mi chiama e mi fa: “Senti io vorrei farti fare un disco. La formazione è questa: chitarra, basso, batteria, organo hammond. Il gruppo si chiama La Scorta”. Benissimo – gli ho detto – troviamo una cantante e io ti scrivo le canzoni. E lui mi ha detto voglio: “No, io voglio la tua voce “rovinata”. Queste esatte parole. E li mi ha convinto. Lui voleva la mia voce “rovinata”, quindi mi sono sentito tranquillo sul tornare a cantare. Ma ho scritto “Dio è altrove” come se fossi un autore. Ho scritto per “quella formazione” e per “questa voce”. Ero di nuovo un autore.Non un cantautore. Poi io sono la voce della Scorta…..”
È un caso?
“Non è proprio un caso, ma è un approccio differente. Una sfumatura”.
Ma sei tu nelle cose che scrivi.
“Sì sono io, ma mi piace la sfida. Esistono dei margini di sfida. È quello che mi piace. Il fatto che ci siano dei limiti. Il fatto che debba scrivere qualcosa su quello che Shakespeare ha già scritto. O su un episodio della vita della De Marchi. O sull’ecologia. Tra 10 anni non ci sarà più acqua sul pianeta. Io svolgo il tema, li c’è la sfida”.
Come se fossi un giornalista?
“Ho dei limiti. Mi piace aver dei limiti. Poter vincere la sfida all’interno di quei limiti è la sfida, quello mi stimola. Quando mi propongono un nuovo lavoro, come primo impulso dico no. Poi torno a casa e l’ho già scritta. Così funziona”.
E, a parte tutto, quando scrivi sei un autore molto prolifico. 
“Questo disco nuovo ha questa nascita su commissione ma devi sapere che c’è già pronto un nuovo lavoro con Grazia de Marchi, che ho scritto lo scorso luglio e in agosto me n’è stato commissionato un altro, simile a Dio è altrove, su tema ecologico, sempre dallo stesso chitarrista della Scorta. Ho scritto 16 brani per Grazia e 13 per lui, perché quando mi si chiede qualcosa io sono febbrile. Altrimenti il pianoforte resta chiuso, la chitarra nella custodia.
Ne esce fuori un mosaico a molte facce, ma quali sono le musiche di Marco Ongaro?
“Se compongo alla chitarra è impossibile che non esca Dylan. Se compongo al pianoforte ecco Paolo Conte. Se scrivo per la De Marchi mi ritrovo tra il De Andrè e il Branduardi. Sono forse l’ultimo in grado di definire il mio stile vocale; credo di avere varie sedimentazioni che vengono fuori a seconda delle occasioni. Il motivo per cui mi piace fare l’autore è che non devo pormi problemi di questo tipo. Devo pormi il problema di far cantare gli altri”.
Ti piace il tuo nuovo disco?
“Sì, mi piace, riconoscendo anche quello che non sono io di quel disco. Il lavoro che ho fatto su commissione mi piace. Sono io nei testi e nelle musiche; negli arrangiamenti non sono io, mai. Però ne sono contento: ero appena reduce da “Shakespeariana” in cui, sotto questo aspetto, ho sofferto moltissimo. Incidere un quartetto d’archi con quattro archi che non si sono mai incontrati tra loro è stata un esperienza terribile. Ci sono musicisti che non si sono mai conosciuti in quel disco e che suonano nella stessa canzone!”
“Dio è altrove” è tutta un’altra cosa. A parte che in certi momenti suona come se fosse in presa diretta. Addirittura in certi momenti ti dà l’idea del work in progress, di qualcosa non rifinita, interrotta a un certo punto. Sbozzata, ma non ultimata, ma forse questo è un po’ nel tuo stile. E lo dico come pregio del lavoro, sia ben chiaro, non come critica.
“Dio è altrove”, la canzone, a parte il fatto che è ovvio che per me è perfetta così (sorride mentre si brinda con un bicchiere di Ripasso dal titanico splendore), aveva lo spunto più che altro nell’emozione. Questa sorta di eresia nel fatto che Dio se ne sia andato altrove. L’inizio è una storia ebraica di un rabbino in Polonia che nella sua sinagoga trova Dio seduto. “Signore cosa fai qui? Gli chiede. “Non ti immagini quanto io sia stanco”.Il concetto dell’eresia è che Dio sia andato in un luogo così disperso dell’universo in modo da non sentire niente di quello che succede qui e che i messaggeri ci mettano così tanto ad arrivare e a riportare le notizie che qualcosa sarebbe inevitabilmente cambiato nel frattempo, ma lui non se ne preoccupa più.
E la “title track” è infatti il brano più di presa di tutto il disco,
“Ho imparato dopo molti anni ad aprire il disco con un pezzo “forte”.
Il motivo dei ringraziamenti del disco ha a che fare proprio con la scrittura in quel mese. Sono passato prima da Lecce dove c’era Max Manfredi, mi sono fermato a casa di Alessio Lega, abbiamo suonato per tre giorni poi sono andato in Calabria, sono arrivato caricatissimo. La prima canzone che ho scritto è stata Il Conte Max da Genova”
Quello con le dita insanguinate…
“Esatto. Gandalf Foschini è chi mi trascrive le musiche perché io possa depositarle in SIAE, Ferdinando Dolfo è l’autore del primo progetto di copertina (bocciato). George Steiner ha scritto “Morte della tragedia” che stavo leggendo in quel mese, il libro in cui si parla dell’eresia del Dio che è altrove. Nicola Nicolis è un cantautore veronese decano, “nonno” lo chiamano, che mi ha prestato il libro “Morte della tragedia”. Iole e Gaetano Mazzone mi hanno ospitato in Calabria. Poi c’è mio fratello: il fratello del cantautore come ha detto Micocci. Mi fa: “Tu come campi?” “Ho un fratello che mi aiuta”. “Il fratello del cantautore! Anche Tenco ne aveva uno!”. Ora fa il fotolito e mi prepara tutti gli impianti delle copertine.
Quindi ora sei soprattutto un autore. Ma nei primi dischi ti sentivi cantautore?
“Sì, li scrivevo senza un progetto. Apparentemente le cose che mi venivano fuori da sole. Vado al Tenco nell’82 ottengo un discreto successo. Il fatto è che il Tenco allora aveva un paio di giornali che scrivevano sulla manifestazione. Soprattutto la prima sera. Poi mi sono reso conto che effettivamente la discografia non era aperta a nuovi dischi di cantautori emergenti. Lucio Quarantotto ha vinto nell’84 e poi fino all’87 non è esistita una targa per opera prima. Perché non esistevano opera prime! Però c’era questa dance-music, disco-music. Anni ’82-83. Mi ricordo che anche qui è partito tutto con una commissione (eccoci che ci risiamo con le commissioni). Il tizio che me l’ha commissionata mi ha dato una cassetta e mi ha detto “Tu sapresti fare un brano come questo”. Era un brano dei Twins, un gruppo tedesco. Dopo un’ora gliel’ho consegnata la canzone. Arrangiata in modo identico. Ma la mia era più bella e cercava di dire cose intelligenti. E così è nato il mio alter-ego: O’gar, l’autore di disco-music. Ma cercavo comunque di dire cose intelligenti. Per questo poi O’gar è morto a Parigi nell’86. Per quanto cercasse di dire cose intelligenti le diceva in inglese a gente che l’inglese non capiva. Ha avuto successo in Spagna!
E a quel punto sei partito coi dischi a tuo nome.
“Sì, il primo disco è dell’87. Che ho dovuto forzare, perché ancora c’era questo blocco ai nuovi cantautori. Figurano tutti nei ringraziamenti del primo disco; tutti quelli che non mi hanno preso. Vincenzo Micocci, Lilli Greco, Sandro Colombini … Per cui ho detto a Venturiero che prima era il mio agente che cercava di procurarmi una casa discografica e che nel frattempo aveva fondato una sua etichetta, di farmi fare il disco. Venturiero era rimasto fuori alla mia esperienza di O’gar che sarebbe stata l’unica avventura in comune che gli avrebbe fruttato dei soldi in tutta la nostra carriera unità. Con me ci ha solo rimesso. Però è un collezionista privato. È una questione affettiva. Lui deve avere tutto quello che faccio. È una questione maniacale. Del primo disco mi ha detto: “Di questo disco non verrà mai trasmessa una canzone in nessuna radio” E il giorno stesso l’ha pubblicato. Se non è collezionismo questo!”
Ma dopo l’esordio più o meno faticato ci sono stati i sette anni di silenzio. Perché?
“Nel ’90 a fatica, quando cominciavano di nuovo ad uscire i cantautori, con lentezza terribile siamo riusciti a buttar fuori “Sono bello dentro”. Che è coinciso con l’incisione del Vino di Ciampi al Teatro Argentina, forse il massimo successo che abbia avuto. Da lì ho inciso “Archivio Postumia” nello stesso anno, con un gruppo, ed è l’unico disco che ho arrangiato completamente io.
Nel ’91 “Eptalogia” che è un altro progetto che avevo in mente. E la Rosso di Sera non li ha pubblicati. “Archivio Postumia” lo sapevo che non sarebbe potuto essere pubblicato prima di 10 anni. Per questo gli ho dato quel titolo. Suona ’90, ma con strumenti non datati. Poi ho fondato un gruppo: Le vittime del sesso, una rock-band con cui ho girato un paio di mesi. A quel punto non avevo più voglia neanch’io di pubblicare “Eptalogia” che era di stampo più jazzistico. Nel ’95 finalmente riesco ad uscire con il disco successivo: “Certi sogni non si avverano” ma a quel punto ero stufo dell’ambiente e mi sembrava un modo di concludere perfetto. Esce il disco e io invece di promuoverlo mi ritiro, altra prova di affetto del mio editore”.
Ma gradatamente, a forza di dischi su commissione, sei tornato.
“Questo disco è più rock dei precedenti perché mi è stato commissionato da un chitarrista rock. Ha una fender del ’68 in casa! Mentre Luca Olivieri ha vinto a Memphis la gara per i migliori Elvis”.
Si respira un aria vintage tra i solchi del tuo disco
“Ce l’hanno detto. L’arrangiatore fa a Cerutti: “Hai fatto bene a stare fermo trent’anni perché adesso sei tornato di moda!”. I ragazzi cresciuti coi suoni di plastica non li sopportano più e adesso riscoprono la chitarra di Hendrix.
Ogni disco una storia, completamente diversa.
“E paradossalmente abbiamo cercato di allontanarci dai riferimenti . Ma Dio è altrove suona come Like a Rolling Stone. La chitarra e l’hammond fanno lo stesso gioco. Così come Ginevra richiama Neil Young e così abbiamo inserito l’armonica a bocca, perché non ci nascondiamo. Lo facciamo proprio così, come deve essere il riferimento. È un disco ricco anche di citazioni italiane. L’assolo in mezzo a L’infermiere è degno di Solieri, il chitarrista di Vasco Rossi. Una canzone che ho scritto la De Marchi, Colombo, diceva: “ho passato metà della mia vita a cercare di non somigliare”, ma è quasi impossibile. Se non somigli a uno somigli all’altro. L’importante è rivendicarlo, non nasconderlo.

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