Per Pinuccio Sciola - Mario Faticoni
Estraggo dal mio recente Un delitto fatto bene, il
ricordo di una delle numerose gesta di
Pinuccio Sciola.
Eravamo a Venezia nell'ottobre 1976 per il tema “ambiente
come sociale”e Sciola aveva preteso e ottenuto
che l’inserimento dell’esperienza di Paese Museo in quella
sezione non dovesse essere la semplice esposizione del materiale audiovisivo,
dei murales e delle sculture. “A Venezia bisogna andarci fisicamente, spiegare,
mostrare. E non solo con le opere ma con le persone che hanno fatto quelle
opere e ci vivono accanto”, aveva detto con quel tono che conoscete.”Il
decentramento va difeso. Se Venezia non viene in Sardegna, la Sardegna va a
Venezia”.
E ci aveva trascinati
tutti. La Biennale era stata
quasi costretta a inserire ufficialmente le esperienze artistiche sarde
nel programma, a fare un manifesto, a stilare un comunicato stampa: “La
Sardegna porterà nei campi di Venezia una sintesi delle attività culturali che
attualmente sono in fermento e che tendono sia al recupero di una cultura da
sempre condizionata e oppressa, sia a rappresentare la sintesi di momenti
culturali, sociali, politici della Sardegna d’oggi”.
Su quattro camion solcano il Tirreno sculture e prodotti
artistici, allestimenti scenici, complessi corali, gruppi di teatro gestuale e
dialettale, con in testa quelli di San Sperate, suonatori di launeddas,
cantori. Un’ottantina di persone, tutti partiti alla disperata, fra cui Leonardo Sole, Mauro Deledda, Lorenzo
Puxeddu, Gianfranco Pintore.
Il primo giorno tutto si era svolto in Campo Santa
Margherita. Il rione popolare reagisce con ammirato stupore alla contaminazione
sarda della piazza: paesaggio sardo rapinato e degradato, canne, cadaveri
scolpiti nel legno, impiccati che penzolano dagli alberi, morti bianche, morti
di miniera, morti di emigrazione, morti da militarizzazione, morti da
inquinamenti; canti, poesie, azioni gestuali, la musica delle launeddas,
rappresentazioni teatrali...
Fortissima emozione, successo…Ma qualcosa non va.
Sciola alza la voce.“La cultura sarda
carica di problemi qui rischia di restare come in un museo. Ci hanno messi in
un ghetto, occorre uscirne, andiamo a piazza San Marco. Lì passano tutti, lì lo
scontro vero con la nuova cultura sarà inevitabile”. Trasportare tutto in
vaporetto, discussioni con i vigili: “non avete il permesso”. Ma la Biennale si
muove e i cadaveri e le canne si posano nella piazza. Reazioni indescrivibili.
Tutti si fermano. Stupore, ammirazione, pensieri angosciosi. Troppo crude
quelle morti, quelle sofferenze. Troppo belle, troppo universali per essere
solo sarde. “Venezia è marcia, nell’acqua c’è cromo e mercurio, sono anche
cadaveri veneziani”, grida Sciola. “Bisogna essere rudi per rompere
l’incantesimo, questo isolamento che chiamano decentramento - commenta Sole -
non siamo più isolati, come inquinamento siamo alla pari. La lezione è tutta
qui. In questa rottura, in questa smagliatura…”.Viene distribuito un
ciclostilato.
“Siamo a Venezia come sardi. I cadaveri che vedete sono
l’immagine della nostra realtà presente e della vostra realtà futura. Sono
l’immagine della disgregazione economica, sociale, culturale, del popolo sardo,
colpito a morte nell’indifferenza generale. Per l’italiano medio la Sardegna è
l’isola del silenzio non perché siamo già morti, ma perché nessuno sente o vuol
sentire. Il modo migliore per non far sentire è quello di mitizzare una realtà
inquietante proiettandola fuori del tempo e dello spazio. A questo scopo serve
egregiamente il folklore. I panni colorati del folklore nascondono la deportazione
di settecentomila sardi, la distorsione dell’economia attraverso l’impianto di
una monocultura petrolchimica che ha soffocato il sistema produttivo
dell’isola; la trasformazione della Sardegna in un’immensa base militare Nato,
duecentomila ettari sottratti ad agricoltura, pastorizia, pesca, turismo; il
terrorismo culturale applicato sistematicamente nelle nostre scuole contro la
lingua e la cultura sarda; le nostre Seveso sono il gruppo Sir-Rumianca,
l’Anic-Montedison, la miniera di Funtana raminosa che ha inquinato il
Flumendosa, la superporcilaia della Planargia, la base atomica de La
Maddalena…”.
La sera, in Campo Santa Margherita, prima di Parliamo di
miniera della mia vecchia Cooperativa Teatro di Sardegna, Lorenzo Puxeddu
canta la sua poesia: “…Ischìdadi
Sardigna! / Assutta sas lacrimas uddidas / de sos fizos tuos isuliadus / fattu
’e su mundu…”.
Prima di ripartire si era andati a venti chilometri dalla
città per un convegno nazionale sul decentramento culturale. La Sardegna avava
chiesto spazio per un intervento, e Pinuccio aveva parlato. Poco. Ma non si era
levata coppola.
La scomparsa di questo gladiatore culturale è una perdita
commisurata al bisogno enorme che Italia e Sardegna hanno di fecondare il
terreno lasciato incolto dalla delittuosa gestione culturale dell'intero Paese.
Cantarne la scomparsa però non serve se non si tessono le lodi anche dei
protagonisti meno noti di lui, se non si mette a fuoco, oltre alla sua
arte, la sua preziosa natura di
operatore culturale. Una figura presente ancorché poco visibile in Sardegna,
terra attraversata e animata non solo allora da una foltissima schiera di
artisti e intellettuali atipici, una rete con maggiore presa sulla massa
giovanile di altre componenti politiche e sociali. Onorarli di una maggiore
attenzione è il miglior elogio della missione culturale di Pinuccio Sciola.
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