martedì 17 maggio 2016

Come l’Europa proteggerà i confini - Guido Viale


«Sia le politiche climatiche che le politiche migratorie sono beni pubblici comuni, e per essere più efficaci possibile hanno bisogno di risorse comuni». Con queste parole, che concludono un articolo su Affari e finanza (Repubblica, 2.5), Guntram Wolff, direttore del Bruegel Institut, propone di finanziare con una tassa sulle emissioni carboniche oltre alla conversione energetica anche «controlli comuni alle frontiere e politiche migratorie»: una versione “allargata” della proposta del ministro tedesco Shaeuble di finanziare la sorveglianza delle frontiere con una tassa sulla benzina.
Sotto la voce «sorveglianza delle frontiere» entrambi intendono le barriere che hanno bloccato i profughi lungo la rotta balcanica. Ma un flusso, o una parte di esso, tornerà a imboccare la via del Mediterraneo, dove il filo spinato non serve; per fermarli occorre mobilitare una flotta e fare la guerra agli scafisti. Per politiche migratorie intendono invece accordi come quello indecente con la Turchia (sei miliardi) estesi, come propone Renzi, ai paesi dell’Africa da cui partono quei flussi o che ne vengono attraversati. Quei paesi sono tanti e molto più poveri della Turchia; perciò servirebbero molti più miliardi per convincere i rispettivi governi a riprendersi quei “loro” profughi in fuga per salvare la pelle: ribattezzati però “migranti economici” per negar loro il diritto alla protezione prevista dalla Convenzione di Ginevra. L’offerta di un miliardo e otto fatta lo scorso novembre al vertice di Malta era stata non solo respinta, ma anche sbeffeggiata.
È per questo, e per quel “bene pubblico comune” che sono le politiche migratorie, cioè per tener lontani i profughi, che occorrerebbe mobilitare le risorse, che non ci sono, destinate alla lotta contro i cambiamenti climatici. Proposta grottesca, se non contenesse un fondo di verità: una cosa che accomuna cambiamenti climatici e profughi infatti c’è: questi non sono “migranti economici” da “rimpatriare” in una “patria” che non hanno più; sono tutti profughi ambientali, cacciati dalla devastazione prodotta innanzitutto, ma non solo, da cambiamenti climatici ormai in pieno corso e da guerre generate da quella devastazione.
E non solo in Siria; con diverse modalità, sono in corso o in incubazione anche in tanti paesi di origine di quei flussi: per accaparrarsi o difendere con le armi risorse sempre più scarse; l’avanzo di quello che le multinazionali occidentali o cinesi lasciano alle popolazioni locali. Il disastro in Siria anticipa un destino comune: «Considerata la terribile siccità che l’ha preceduta, nel futuro prossimo la guerra civile e internazionale in corso in Siria sarà definita ‘la prima guerra figlia del cambiamento climatico’ – scrive l’economista cileno Andrea Rodrigo Rivas su L’altra pagina, aprile 2016 – Prima dello scoppio della guerra, e molto prima della comparsa dell’Isis, la Siria ha attraversato la peggiore siccità prolungata da quando ebbe inizio la civiltà agricola nella Mezzaluna fertile…una siccità devastante che ha trasformato in deserto il 60% del suo territorio. La rovina delle colture e la morte della maggior parte dell’allevamento hanno ridotto sul lastrico milioni di contadini costretti a emigrare verso le città, alla ricerca di un lavoro…
Così, nelle città siriane, crebbero velocemente occupazioni illegali, sovrappopolazione, mancanza di infrastrutture, disoccupazione e delinquenza… Anche nel Sahel – continua Rivas – siccità, degrado dell’habitat e negligenza dei governi sono all’origine della violenza armata. Le siccità prima avvenivano ogni 10 anni, ora ogni 2… Nel lago Ciad, principale bacino idrico del continente Africano, tra il 1963 e il 1998 l’acqua è diminuita del 95 per cento. È una delle principali ragioni della povertà nel nord della Nigeria e dell’auge di Boko Haram… La Siria e il Mali – conclude – sono un anticipo di ciò che probabilmente avverrà su una scala molto maggiore nel corso di questo secolo».
Questo ci dovrebbe indurre a guardare meglio le tante barriere anti-profughi – fisiche, politiche, amministrative e militari – ormai al centro dello scontro politico in Europa: non sono un espediente temporaneo per far fronte a un’emergenza che l’Europa non era preparata ad affrontare. Sono, consapevoli o meno che ne siano i suoi promotori di destra o estrema destra, ma anche delle maggioranze al governo che si accodano alle loro pretese nella speranza di non perdere elettori, la risposta che l’Europa (ma anche gli Stati Uniti, l’Australia o il Giappone) dà ai problemi creati dai cambiamenti climatici. Non una lotta con il tempo per cambiare sistema energetico e modello economico, ma la chiusura nei propri confini come in una fortezza assediata; lasciando che i paesi al di fuori vadano in malora; e contando su quelle barriere per proteggerci dal loro contagio.
È l’inizio di una difesa armata dei confini che alimenterà guerre sempre più feroci sia al di là di essi che al loro interno: una previsione che il Pentagono aveva già fatto oltre dieci anni fa. Ma a questa “politica estera” fallimentare (i cambiamenti climatici non si fermano con filo spinato e Hot spot e meno che mai con le guerre: colpiranno sempre di più anche l’Europa) corrisponderà una “politica interna” altrettanto feroce e vessatoria: non solo contro l’”invasione” dei profughi, ma anche contro i cittadini europei. T
utti, ad eccezione di quell’1 o 10% che dai disastri economici o ambientali trae crescenti benefici. Non importa se a vincere le elezioni sarà Angela Merkel o l’AfD, o se a governare l’Austria siano Socialdemocratici e Popolari o Norbert Hofer, se poi le politiche verso i profughi sono le stesse. A quelle politiche corrisponderà sempre di più un “tallone di ferro” sui cittadini europei. Anche la costituzione di Renzi, consapevole o meno che ne sia, serve a predisporre le basi di governi autoritari e feroci necessari per gestire un paese-fortezza, dove non ci sarà più posto per quel nostro stile di vita “non negoziabile”. Perché un paese-fortezza è condannato irrevocabilmente al declino economico, alla sclerosi culturale e all’invecchiamento, soprattutto in Europa. E in queste condizioni non si realizzerà né si promuoverà mai quella conversione ecologica indispensabile per evitare che tutto il pianeta precipiti in un completo disastro.
Ma l’Italia ha un problema in più: protesa come un ponte in mezzo al Mediterraneo, è esposta al ruolo di ultimo avamposto dei flussi provenienti dall’Africa e dal Medioriente, come succede oggi a Libia e Turchia, assai più che a restare membro a tutti gli effetti della fortezza Europa. I cui veri confini sono ormai al Brennero, al Gottardo e a Ventimiglia, o a Idumeni, molto più di quanto possano essere negli Hot spot di Lampedusa, Porto Empedocle, Pozzallo o Lesbo. Infatti i respingimenti dei cosiddetti migranti economici sono lasciati a Italia e Grecia; la distribuzione delle “quote””di profughi tra i paesi membri non funziona e già si parla di “compensare” la loro mancata ricezione con un’indennità economica da corrispondere allo Stato che dovrà farsene carico. Proprio come con la Turchia.
Una ragione in più per riconoscere nelle politiche verso i profughi l’orizzonte entro cui si misureranno, in Italia e in Europa, la lotta politica e il conflitto sociale dei prossimi decenni. L’Italia affronta già oggi la questione mettendo per strada – e affidando alle mafie – migliaia di profughi a cui non viene riconosciuta la protezione e alimentando così un giustificato allarme su cui ingrassano i Salvini. Per combattere questa prospettiva occorre opporsi ai respingimenti, promuovere una svolta politica radicale il cui nucleo forte non può essere costituito che dalle reti già oggi impegnate nell’accoglienza e nell’inserimento sociale dei profughi. Sono loro il vero antagonista delle politiche di respingimento e di tutto ciò che ne segue: l’avanguardia di un fronte sociale completamente nuovo che intorno a questo impegno deve saper costruire il progetto di una società dell’accoglienza per tutti: profughi e cittadini europei. In cui conversione ecologica, per fermare i cambiamenti climatici, e cooperazione internazionale, per aiutare i nuovi arrivati a farsi protagonisti della rinascita dei loro paesi di origine e, insieme a noi, di tutta l’Europa, trovino un punto di sutura autentico tra «politiche climatiche e politiche migratorie»

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