Ieri vedendo
Mattarella salire all’altare della patria per celebrare il 25 aprile mi è
venuto di chiedermi cosa c’entri il monumento al milite ignoto della prima
guerra mondiale con la Resistenza. Forse la cosa mi è balzata agli occhi con
più forza rispetto al passato per la presenza di un presidente in cartone
ondulato che firma senza fiatare ogni controriforma costituzionale ed
elettorale rispetto all’idea di Repubblica e di società nata dalla battaglia
contro il nazifascismo, ma anche se non soprattutto – e a settant’anni di
distanza lo si può cominciare a dire – contro i suoi
fiancheggiatori occulti e silenziosi, i suoi alleati inconsapevoli, i suoi
ambigui nemici, i suoi reticenti cappellani.
La
risposta è che l’altare della patria non c’entra proprio nulla perché l’arida e
cinica nomenklatura politica e istituzionale che scende in piazza per mostrarsi
nel giorno di festa, tenta semplicemente di sussumere e confondere i valori e
gli ideali della Resistenza con quelli più generici delle guerre patrie come se
si fosse trattato solo e soltanto di liberare l’Italia da un’invasione
straniera e dalla sua quinta colonna e non di liberare il Paese dai suoi
incubi interni, di risvegliarlo dal suo sonno lungo vent’anni e infranto fuori
tempo massimo dalla monarchia complice quando si è resa conto che rischiava il
trono. Come scenario solenne sarebbe assai meglio il Sacrario delle fosse
Ardeatine (quello che il ministero della difesa chiama significativamente
“mausoleo” dimostrando di non saper difendere nemmeno la lingua) o qualche
altro luogo di strage. Ma è proprio questo che non si vuole: la classe
dirigente erede di quella complice del fascismo che fu salvata in blocco per
volontà degli Usa, timorosi che l’Italia finisse nel campo avverso, cerca di
nascondere il senso e la verità della Resistenza, dissolvendola dentro un
calderone di generico patriottismo. Al punto che qualche emerito imbecille
di quelli che la politica sforna in serie, ha cercato persino di mettere in
mezzo la squallida vicenda dei marò.
La
verità è che si vorrebbe celebrare una sorta di Resistenza di fantasia
quando invece essa ha assunto caratteri peculiari ed unici nella vicenda
europea, almeno per ciò che riguarda i grandi Paesi del continente, collegando
strettamente, almeno nella sua maggioranza, la salvezza del Paese alla sua
trasformazione. Ciò è stato possibile anche grazie alle vicende tragiche e
allo stesso tempo cialtrone in cui il Paese è stato trascinato dalla sua razza
padrona. E ora i suoi eredi, impegnati apertamente e senza più remore nella
distruzione della Repubblica nata dalla lotta contro il nazifascismo, la
vogliono dissolvere dentro una lettura conforme e anodina. Eppure è proprio
alla Resistenza italiana che si ispirò Thomas Mann nella prefazione alla
Lettere dei condannati a morte della resistenza Europea, un’idea
tutta nostra, nata in casa Einaudi e poi tradotta nelle altre
lingue: “Sarebbe vana, dunque, superata e respinta dalla vita, la
fede, la speranza, la volontà di sacrificio di una gioventù che non voleva
semplicemente “resistere”, ma sentiva di essere l’avanguardia di una
migliore società umana? Tutto ciò sarebbe stato invano? Inutile, sciupato
il loro sogno e la loro morte? No non può essere”. Era il 1954, uno degli
anni in cui il maccartismo cominciava a far dubitare del mondo nuovo e
negli spiriti più liberi ispirava una nuova idea della democrazia. Oggi ci
accorgiamo che potrebbe essere se diamo credito alle anime morte e se a
cominciare dal referendum non diremo di no.
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