(grazie a Gianni Lixi per la segnalazione)
Solo il boicottaggio può fermare l’occupazione israeliana - Gideon Levy
Aluf Benn, invitava a non essere troppo ottimisti sull’efficacia di un
boicottaggio contro Israele per la sua occupazione dei territori palestinesi.
Sono d’accordo con Benn, ma in ogni caso non possiamo non riconoscere che la
strategia Bds (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) è l’unico modo per
cambiare le cose, l’ultima speranza per ottenere il cambiamento che anche Benn
desidera. È l’unico mezzo per impedire a Israele di proseguire con i suoi
crimini. L’alternativa è lo spargimento di sangue, che nessuno desidera.
Le sanzioni e il boicottaggio sono lo strumento più
legittimo e nonviolento a disposizione (Israele chiede continuamente al mondo
di usarlo contro i suoi nemici) e hanno dimostrato di essere estremamente
efficaci. Anche chi nutre le stesse perplessità di Benn (e io condivido alcuni
dei suoi dubbi) deve ammettere che il direttore non offre alcuna alternativa
più realistica. Il suo appello alla sinistra israeliana non ha alcuna speranza
di successo, considerando fino a che punto la società sia ormai caratterizzata
dal lavaggio del cervello, dall’ignoranza, dalla cecità, dall’amore per la
bella vita, dalla mancanza di opposizione e dall’aumento dell’estremismo.
Questa è una situazione criminale che deve essere
risolta, non possiamo permetterci di restare immobili in attesa che l’opinione
pubblica ci faccia la grazia di cambiare. Non lo farà mai di sua spontanea
volontà, e non avrà nessun motivo di farlo finché non pagherà per i suoi
crimini e sarà punita. Una nuova vetta di arroganza è stata raggiunta:
permettere alla tirannia, all’abuso e all’oppressione di perdurare in nome
della democrazia.
Nel suo articolo Benn ipotizza che il mondo possa
imporre sanzioni contro Israele. In verità spesso anch’io ho accarezzato questa
ipotesi, che non è altro che l’espressione del profondo desiderio di qualcuno
che osserva i peccati ogni giorno e vorrebbe vedere anche la punizione. Quando
gli agenti della polizia di frontiera uccidono una donna incinta e suo fratello
sostenendo che avevano “lanciato un coltello” e la società reagisce con uno
sbadiglio annoiato, cresce il desiderio di punire questa società. Non è un
desiderio di vendetta, ma un desiderio di cambiamento. Benn è convinto che il
boicottaggio radicalizzerebbe ulteriormente Israele. Ma l’esperienza ci insegna
che è vero il contrario. Israele ha sempre fatto delle concessioni dopo aver
pagato un prezzo elevato o davanti a una minaccia. È vero che Cuba e la Corea
del Nord non si sono piegate alle sanzioni, ma è altrettanto vero che non si
tratta di democrazie e che nei due paesi l’opinione pubblica ha un peso
relativo.
Basandoci sulle esperienze passate possiamo ritenere
che gli israeliani siano molto più viziati dei cubani o dei nordcoreani.
Chiudiamo l’aeroporto internazionale di Tel Aviv per due giorni e poi vedremo
quanti sono in favore dell’insediamento di Yitzhar. Imponiamo un visto per
qualsiasi breve vacanza all’esterno e vedremo quanti continueranno a usare il
motto nazionalista “la terra di Israele per il popolo di Israele”. Per non
parlare delle ristrettezze materiali e della crisi economica che spingerebbero
inevitabilmente Israele a chiedersi: vale davvero la pena soddisfare questo
capriccio dell’occupazione? Siamo pronti a pagare di tasca nostra e a
sacrificare il nostro stile di vita per regioni del paese che la maggior parte
degli israeliani non ha mai visto e in cui non ha nessun interesse concreto?
Probabilmente la prima reazione a un boicottaggio
sarebbe quella descritta da Benn: la società farebbe quadrato e prevarrebbe la
linea dura. Ma presto comincerebbero le domande, poi le proteste. Gli
israeliani del 2016 non sono fatti per vivere a Sparta e neanche a Cuba. Non
accetterebbero di guidare auto degli anni cinquanta e fare la fila per la carne
pur di mantenere l’insediamento di Esh Kadosh. Rinuncerebbero all’insediamento
di Elkana pur di continuare ad andare in vacanza in Bulgaria, ed è un bene. E
se questo dovesse significare che Elkana diventerà parte di un unico stato
democratico binazionale, tanto meglio. L’ipotesi che un palestinese come Marwan
Barghouti venga eletto a capo del governo non mi spaventa affatto.
Il movimento Bds non ha ancora cominciato ad avere effetti sulle nostre
vite. Al momento non esiste una vera guerra economica, ma solo iniziative che
stanno cambiando gradualmente il dibattito internazionale su Israele. Ai
margini esistono forse elementi di antisemitismo, ma in sostanza si tratta di
un movimento di protesta animato da persone che hanno una coscienza e vogliono
fare qualcosa. Il declino economico che ne risulterebbe potrebbe arrivare
presto, e non sarebbe necessariamente graduale. Nel Sudafrica dell’apartheid a
un certo punto gli imprenditori sono andati dal governo e hanno detto: “Ora
basta, non si può andare avanti così”. Anche in Israele potrebbe succedere
qualcosa di simile. E questo mi dà speranza, perché non vedo nessuna
alternativa.
(Internazionale 1152, 6/12 maggio 2016)
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