Eccoci qua, noi sardi, il 28 aprile. Come dei trovatelli il giorno
della Festa della Mamma. Non avendola mai conosciuta, ognuno se la immagina
come vuole e come può, guidato dai propri sogni, desideri, frustrazioni. Chi la
vede come una madre eroica, che è stata capace di resistere a ogni genere di
oltraggio e tradimento, chi come una madre ingrata, incapace di nutrire tutti i
suoi figli, chi come una madre amorevole e accogliente che ha saputo comunque
allevarne la maggior parte. C’è poi chi vede nell’atto di immaginarla tutti
assieme, anche se solo una volta l’anno, un momento del processo che un giorno
potrebbe portare i sardi a riconoscersi in un’unica madre.
Un momento molto lontano. E non è affatto certo che un giorno
ci si arrivi.
Di certo, oggi, per i sardi la mamma-Sardegna non è una sola.
Infatti discutiamo animatamente, e a volte litighiamo, ogni 28 aprile, ogni
volta che si celebra Sa die de sa Sardigna.
Le discussioni diventano particolarmente accese quando le istituzioni prendono
l’iniziativa di suggerire ai sardi una certa idea di madre, una certa idea di
Sardegna. Quest’anno la Regione, mettendo al centro di questa giornata i
migranti, ha scelto un modello ibrido di madre che unisce la “madre ingrata” e
la “madre accogliente”. Ingrata verso i sardi che sono stati costretti
(e ancora sono costretti, specie i più giovani e più colti) a emigrare; accogliente verso altri giovani che approdano nel
suo grembo dopo essere fuggiti da guerre, carestie o che, semplicemente, sono
alla ricerca di migliori condizioni di vita.
Scelta nobilissima. Ha
ragione l’assessore alla Cultura Claudia Firino quando dice che non dobbiamo
dimenticare la storia di migrazioni che “abbiamo alle spalle” (e, a dire il
vero, ancora davanti agli occhi) e sottolinea che questa storia “costituisce
una fetta importante della nostra identità”. Ma a noi pare che, nel fare questa
scelta, siano state sottovalutate alcune difficoltà.
La principale sta nel conciliare le “opposte madri”, l’ingrata e l’accogliente. Che poi è esattamente la difficoltà che,
senza andarsela a cercare, incontra tutti i giorni l’Europa e sulla quale i
movimenti xenofobi stanno lucrando crescenti consensi.
È la difficoltà che si traduce in slogan beceri – smentiti
dai dati economici – e però molto efficaci, quali “Ci portano via il
lavoro”. Slogan che trovano un terreno fertilissimo nel crescere della
povertà, nella perdurante insufficienza di opportunità di lavoro, nella
diminuzione dei servizi sociali.
Dedicare una giornata identitaria a chi soffre è una scelta alta e
coraggiosa. Ma rischia di apparire un esercizio irritante di politically correct se
non è stata preceduta, e non viene accompagnata, da atti coerenti e sistematici
volti a combattere la povertà, la corruzione, l’ineguaglianza sociale. E,
magari, anche dai primi effetti visibili di questi atti.
Effetti che ancora non si vedono, né in Sardegna né in
Italia. I segni di ripresa sono ancora ambigui e fragili. E soprattutto non si
vede, nell’agenda politica, la centralità del tema della lotta alla povertà. È
di pochi giorni fa la notizia che le concrete madri sarde, le donne sarde, dal
2014 al 2015 hanno perso tre mesi della loro aspettativa di vita. Dato, d’altra
parte, coerente col trend negativo dell’intero Mezzogiorno d’Italia.
La madre accogliente sarà riconosciuta come la madre di tutti
solo dopo che saremo stati capaci di uccidere la madre ingrata.
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