lunedì 31 dicembre 2018

Servizio sanitario, i suoi primi 40 anni - Lorenzo Paglione



Il 23 dicembre 1978, al termine di un lungo iter di discussione e di un percorso culturale e politico iniziato nel 1958 con la nascita del ministero della sanità, le camere approvavano la Legge 833 che istituiva il Servizio sanitario nazionale. Il nuovo ente pubblico era basato sul modello del National health service della VGran Bretagna, che era stato pensato nel 1948 da William Beveridge come pilastro del nuovo stato sociale e che a sua volta si era affacciato al mondo insieme ai sistemi diversi di Scozia, Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord.
Il nostro Servizio sanitario nazionale arriva in un anno piuttosto tumultuoso fatto anche di enormi avanzamenti sociali. Sono sempre del 1078 sia la 180, la “legge Basaglia, che la Legge 194, che trasformeranno profondamente non solo l’assistenza socio-sanitaria per tutte e tutti, ma la società stessa di un paese diviso, scosso, profondamente in agitazione. Sia la 180 che la 194 risalgono al maggio del 1978, un mese iniziato contemporaneamente a Cinisi, in Provincia di Palermo, e a Via Caetani, a Roma. Queste tre leggi, è utile ricordarlo, non sono solamente il frutto di un meritorio lavoro parlamentare: derivano soprattutto da esperienze di lotta e resistenza, che attorno al diritto alla salute iniziavano a prendere piede in quegli anni.
Il moderno Ssn, di stampo “Beveridge”, basato sulla fiscalità generale, con ambizioni universalistiche e globali, con l’idea cioè di garantire a tutte e tutti ogni prestazione ritenuta necessaria, nasce in quel clima, sostituendo gradualmente le Casse mutue e le Opere pie, retaggi del passato modello Bismarck, corporativo e lavorista che si appoggiava (e appoggia ancora oggi nei paesi in cui viene adottato, Germania e Francia su tutti) ad un modello produttivo fordista, in cui tutta la società ruotava attorno alla figura del maschio, lavoratore, cittadino, che contribuisce direttamente al finanziamento, assieme al padrone, tramite prelievi diretti dal salario.
Il modello corporativo di welfare ha retto in Italia per decenni, garantendo quel minimo di sostegno in caso di bisogno ad una popolazione tendenzialmente giovane, in buona salute, con poche necessità in termini di assistenza, ma soprattutto ad una società operaia e contadina, nella quale il lavoro dipendente e lungo tutto il corso della vita garantiva, specie a partire dal secondo dopoguerra, benessere, tranquillità e relativa pace sociale. Forse fu con lo stesso spirito con cui Bismarck istituì le prime forme di tutela, tra il 1883 ed il 1892, utilizzando il corporativismo come “normalizzatore” dei conflitti di classe che attraversavano la neonata Germania di fine ‘800, che il legislatore, decise, nell’Italia di fine anni Settanta, di introdurre un servizio finalmente universalistico, capace di ricomporre, almeno nelle intenzioni, tensioni e conflitti, dovuti anche alla frammentazione del welfare in decine e decine di enti professionali di categoria, che provocavano disuguaglianze, tra mutuati e non, ma anche tra mutuati appartenenti a casse diverse, e malcontento. Quel modello serviva anche a ricondurre sotto l’egida istituzionale le esperienze autogestite di promozione della salute e lotte, come i consultori e i comitati legati alla medicina del lavoro, che negli anni Settanta erano nate su tutto il territorio italiano.
Con l’istituzione del Ssn, vennero inglobati, quindi, gli enti fino ad allora erogatori, ma soprattutto finanziatori del servizio (in particolare vennero liquidati gli enormi debiti accumulati dalle mutue professionali), procedendo ad una vera e propria “statalizzazione” di risorse, strutture e personale, slegando finalmente il diritto fondamentale alla salute, come stabilito dall’articolo 32 della Costituzione, dai meccanismi di mercato legati al lavoro, garantendo a tutte e tutti, gratuitamente, l’accesso al servizio ed a tutte le sue prestazioni. I principali limiti furono, e sono ancora oggi, le cure odontoiatriche, non garantite se non in caso di emergenza, e la medicina generale, che ereditò la funzione di gatekeeper, nel senso che i medici di medicina generale sono il principale punto di regolazione dell’accesso al servizio senza tuttavia mai entrare con un rapporto di lavoro subordinato all’interno del Ssn. Questa scelta ha comportato nel tempo uno dei punti deboli, nel quale le dinamiche di mercato oggi iniziano a incunearsi.
I primi lustri del Ssn sono segnati da grandi successi e antipatici fallimenti (oltre che tanta accidia dovuta all’incapacità di molte Regioni e Comuni nel gestire un meccanismo così complesso). Un sistema così importante fa gola ai partiti, come è capitato a quelli degli anni Ottanta, alla disperata ricerca di bacini elettorali ed economici per alimentare meccanismi clientelari alla base del proprio potere autoreferenziale. Così, quando la grande ubriacatura collettiva dei partiti di governo si schianta con Tangentopoli, il Servizio sanitario mostra tutta la sua fragilità. I meccanismi di partecipazione democratica, come le assemblee generali legate al territorio e ai comuni, che dovevano garantire prossimità e capacità di interpretazione dei contesti e dei bisogni di salute, sono stati usati a volte come meri strumenti di consenso partitico, mentre le commissioni regolative, come quella sui farmaci, si rivelarono fin troppo permeabili a pressioni esterne, specie quando queste assumevano le sembianze della cartamoneta.
Il “quasi-mercato”
In questo clima di totale sfiducia per le istituzioni iniziano a farsi largo idee nuove. In nome della presunta oggettività della tecnica, alla luce delle introduzioni dell’ideologia del New Public Managementsi procede all’introduzione di pezzi di mercato anche all’interno del Servizio sanitario arrivando a teorizzare quel “quasi-mercato” oggi alla base del funzionamento dei Servizi pubblici in generale. I decreti legislativi 502/92 e 517/93 riorganizzano in senso aziendalistico le Unità sanitarie locali, che divengono appunto Aziende sanitarie locali, enti dotati di “personalità giuridica pubblica, di autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica”. Il “quasi-mercato” costruito da queste riforme, mette le aziende nella condizione di separare l’acquisto delle prestazioni dalla loro erogazione, consegnando la prima funzione alle Asl, e la seconda a soggetti, pubblici o privati, che una volta accreditati dalla Regione (un presidio ospedaliero pubblico deve accreditarsi presso la propria Asl allo stesso modo di una clinica privata), vengono remunerati a prestazione in base ad un tabellario.
Anche con queste riforme, resta irrisolto il nodo della medicina generale assieme a quello dell’assistenza odontoiatrica, che ancora una volta non viene inserita all’interno dei Livelli essenziali di assistenza, ovvero quel pacchetto di prestazioni che ogni Regione è obbligata a erogare, nel tentativo del ministero della salute di rendere la più uniforme possibile l’assistenza, visto che la riforma costituzionale del 2001 che ha frammentato il Ssn in ventuno Servizi sanitari regionali.
La debolezza intrinseca della gestione della medicina di base e delle cure primarie in generale, la problematica legata alle cure odontoiatriche, il federalismo sanitario (che, per inciso, il disegno di legge di riforma costituzionale del 2016 non avrebbe sostanzialmente modificato), l’introduzione di meccanismi di mercato, ed infine la parziale liberalizzazione dell’offerta privata con l’introduzione del “terzo pagante”, ovvero soggetti esterni al Servizio abilitati a raccogliere finanziamenti per erogare quote di prestazioni, hanno contribuito nel tempo ad indebolire i presupposti universalistici della Legge 833/78.
In questo mosaico, caratterizzato oggi da profonde disuguaglianze sociali in salute tra nord e sud del paese, iniziano a muoversi attori nuovi, capaci di fare leva sulle debolezze, facilitati da martellanti campagne pubblicitarie volte a minare la fiducia delle persone nel Servizio, aiutati indirettamente da scelte politiche scellerate, come quelle sulla “compartecipazione alla spesa”, i cosiddetti ticket, e dall’incapacità di personale, in particolare medici, e decisori di far fronte all’enorme problema delle liste di attesa.
Per capire cosa si stia muovendo, nel sottobosco dell’assistenza privata, occorre scomporre i flussi di denaro relativi alla spesa sanitaria: secondo il rapporto Gimbe 2018, nel 2016 la spesa totale è stata di 157,6 miliardi di euro, di cui poco più di 112 hanno carattere di spesa pubblica e quasi 45,5 miliardi di spesa privata. Questi numeri ci permettono di poter parlare, in prima battuta, di quanto poco costi allo stato l’assistenza sanitaria di più di 60 milioni di persone: una cifra che, se rapportata al Pil, ci colloca nella parte bassa della scala dei paesi Ocse. Nessun governo negli ultimi anni, compreso l’attuale, ha provato a invertire la marcia o allentare i meccanismi di revisione di spesa delle regioni. Sette regioni sono in “piano di rientro”, sono cioè commissariate sul loro principale capitolo di bilancio, che assorbe più del 70% dell’intera spesa regionale. Questa condizione pone il ministero dell’economia e delle finanze in una posizione di assoluto predominio rispetto al ministero della salute sulle questioni riguardanti il servizio sanitario, ed in ultima analisi, riguardanti la salute della popolazione.
Dal lato della spesa privata le cose iniziano a muoversi. Se è vero che la quasi totalità di questa voce è ascrivibile all’out-of-pocket, alla spesa cioè letteralmente “di tasca propria”, che riguarda ad esempio visite in “libera professione intramuraria”, o intramoenia, ma anche prestazioni richieste direttamente al privato (spesso a causa di tempi di attesa proibitivi, ad esempio per quanto riguarda le visite di controllo della gravidanza, ma anche dell’assurdità per cui il ticket per alcune prestazioni costa più che effettuare quelle stesse prestazioni privatamente), così come la spesa farmaceutica non rimborsata. Tutto questo costa alla popolazione quasi 40 miliardi di euro l’anno. Ma c’è un’altra voce, in continua crescita, e che riguarda l’out-of-pocket cosiddetto intermediato, ovvero quella quota di spesa che ogni anno privati cittadini affidano a soggetti terzi, che a loro volta utilizzano, almeno in parte, per erogare prestazioni complementari (soprattutto odontoiatriche), ma anche sostitutive dei Lea, configurando una sorta di canale parallelo di servizi. I principali attori di questa intermediazione sono i fondi sanitari, eredi delle mutue ottocentesche, e le assicurazioni private. Tralasciando per un attimo il ruolo che queste ultime ricoprono, ad oggi ancora piuttosto marginale (anche se parliamo di un mercato di circa 600 milioni di euro di polizze private), la vera partita oggi si gioca nel campo dei fondi sanitari, attori non profit, che raccolgono circa 10 milioni di italiani (lavoratori e famiglie a carico, generalmente), muovendo un totale di circa 5 miliardi di euro.
Addio al patto redistributivo?
Le tentazioni corporativiste di un mondo del lavoro sempre più frammentato, in cui ciascuna categoria prova a “salvarsi da sola” (emblematici sono i casi del Fondo Meta Salute dei metalmeccanici e dei piani integrativi offerti dall’Enpam, la cassa previdenziale dei medici), e l’espansione delle polizze assicurative private (oramai offerte dalle principali banche commerciali, ma anche da enti universitari e pubblici tramite broker aziendali), stanno mettendo a dura prova l’universalismo del servizio sanitario pubblico, in preda a forti tensioni interne, in particolare dovute ai rinnovi contrattuali ed alle pressioni finanziarie, ed esterne, dovute a liste di attesa, ticket, e a un generale clima di sfiducia, spesso alimentato ad arte anche da rapporti nutriti da conflitti di interesse.
Diventa abbastanza intuitivo come, da parte di chi continua a condurre una spietata lotta di classe per salvaguardare rendita e posizione, diventino accettabili anche ipotesi come l’opting-out, ovvero l’uscita dal patto sociale redistributivo dato dalle tasse, in nome di una presunta giustizia sociale. «Lo stato regala troppi servizi ai ricchi, ad esempio servizi sanitari gratuiti a tutti senza distinzione di reddito. Ha senso tassare il 50% del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Non sarebbe meglio se quei servizi li pagassero, a fronte di una riduzione dell’imposizione fiscale?», hanno scritto ad esempio qualche tempo fa Alesina e Giavazzi sul Corriere della Sera.
A 40 anni dalla sua istituzione quindi, il Ssn ha più bisogno che mai di una maggiore integrazione in termini di rapporto contesto-servizi offerti, in particolare per quanto riguarda prevenzione e cure primarie, ma soprattutto di un solido consenso che si fondi sui principi cardine di universalismo ed equità nell’accesso, globalità di servizio e finanziamento proporzionale alle possibilità di ciascuno. Per ottenere tutto questo l’unica strada percorribile passa per il restituire l’intero Servizio, dal coordinamento e finanziamento fino all’erogazione delle prestazioni, nelle mani del pubblico, fugando ogni dubbio da possibili derive corporative o peggio privatistiche, sottraendo definitivamente il diritto alla salute dalle logiche di mercato.
*Lorenzo Paglione è medico specializzando in sanità pubblica, fa parte dell’esecutivo nazionale del coordinamento “Chi si cura di te”.

Siate, grazie - Pabuda



fate gentilezze, gente!
fatele anche piccole
o minuscole
ma fatene tante:
fate gentilezze alla gente:
ma gente presa una per una,
individualmente:
persona singolare
tutta diversa da tutte le altre:
appena vi capita a tiro
fategli o fatele
una minuta gentilezza:
quando ne ha bisogno
e se l’aspetta
ma – soprattutto –
quando
non s’aspetta più niente:
per abitudine, vuoto,
paura, solitudine,
fretta o stanchezza.
fate qualcosa
di quasi impercettibile
però gradevole o utile:
una porta, una borsa,
un posto in coda,
un’indicazione,
una moneta, una precedenza,
una traduzione,
un passo, una voce,
un saluto, un ascensore.
siate: fate, maghi, stregoni,
sciamani:
con una gentilezza qua, una là
distribuite incantesimi
di buon umore, sollievo,
gratitudine, tranquillità:
roba microscopica
ma così densa e diffusa
da tramutare
la strana, bizzarra
gentilezza generale
in confortevole normalità.
grazie.

Afghanistan, ritirata con l’inganno, via i soldati, arrivano i mercenari - Ennio Remondino



Afghanistan, ritirata con l’inganno, via i soldati, arrivano i mercenari
«Stiamo arrivando», ‘we are coming’, l’annuncio pubblicato sulla rivista di armi americana ‘Recoil’ e firmato «Blackwater», svela Gian Micalessin, che ha la memoria buona e sa collegare i fatti. L’annuncio della operatività del piano di Erik Prince, «il discusso “principe nero” fondatore di Blackwater, la controversa compagnia di mercenari già protagonista della guerra in Iraq», come viene definito. «Con me spendereste meno di un quarto dei 45 miliardi di dollari sprecati ogni anno senza riuscir a vincere la guerra in Afghanistan. E non vedreste più i soldati americani tornare nei sacchi plastica», aveva proposto all’inizio della presidenza Trump, e ora, affare fatto!

Guerra in subappalto
Conflitto afghano in un subappalto affidato a soli 5500 mercenari appoggiati da 90 aerei privati e squadre di elicotteri. «Un piccolo esercito privato dal prezzo contenuto, capace di evitare sia l’imbarazzo dei caduti, sia i costi sociali di feriti e reduci». Il piano, intitolato “Economia strategica di forza” e riportato anche da Remocontro, e il trilione di dollari spesi nei 17 anni di conflitto afghano, oltre ai 4 mila soldati Usa uccisi (e i nostri 53 italiani). «Quando è in gioco la credibilità della nazione la privatizzazione non è un’idea molto saggia», aveva provato a spiegare il Segretario alla Difesa, generale Mattis, prima di essere costretto a sbattere la porta.

Vecchia Blackwaters
Ora la svolta possibile, anzi, annunciata da una ‘promozione commerciale’. Un ritorno ai mercenari di Blackwaters che, tra il 1997 e il 2010, erano già stati usati da Cia e Dipartimenti di Stato, due miliardi di dollari. Problemi comunque, anche per quella faccia tosta di Trump. Il nome di Prince resta associato alla strage di Nisour Square, la piazza di Baghdad dove, nel settembre 2007, i gli uomini di Blackwaters massacrarono 17 civili innocenti. Da quello scandalo, chiusura e trasformazione, ma col trucco da teatro, ci ricorda Micalessin. Il mercenario americano mette su un esercito privato di 800 veterani sudamericani per il principe ereditario di Abu Dhabi impiegati anche nello Yemen.

Frontier Services Group
Ancora ‘Bio’ dell’orrore (e dei bastardi): «Grazie ai soldi incassati con Blackwaters [Prince NdR], ha anche fondato il “Frontier Services Group” una compagnia partecipata dalle finanziarie del governo cinese con cui assicura logistica, trasporti e sicurezza alle compagnie di Pechino impegnate in Africa e lungo la “Nuova Via della Seta”». Nel frattempo Prince, famoso per aver contribuito con 250mila dollari all’elezione di Donald Trump, non ha mai allentato i legami con Washington. Fratello dell’attuale segretaria all’educazione Betsy De Vos e amico dell’ex-consigliere presidenziale Steve Bannon, altro fior di democratico sostenitore di una nuova “Compagnia delle Indie” da impero britannico.

Neo Compagnia delle Indie
«Dalle Indie all’Afghanistan, con un “viceré” responsabile di tutte le operazioni e sottoposto soltanto all’autorità della Casa Bianca», scrive Macalessin. Tra battuta e conti in tasca, i 15mila soldati americani, i 5mila militari della Nato (900 italiani) e gli oltre 30mila contractor privati che già ci sono, «verrebbero sostituiti da 5500 ex veterani delle forze speciali appoggiati da una forza aerea assai meno costosa di quella dispiegata da Stati Uniti e Nato». 5mila 500 mercenari appoggiati da appena 90 aerei a vincere dove non sono riusciti i 140mila militari di Usa e Nato? Il segreto starebbe nell’addestramento e utilizzo dei 91 battaglioni dell’esercito nazionale afghano. Tutti coglioni prima?

Al peggio non c’è mai fine
Fantasie d’azzardo. Finanziare la guerra ai talebani sfruttando i giacimenti di litio, uranio e fosforo, del valore stimato di un trilione di dollari, presenti nella provincia afghana di Helmand. Ed ecco la “Frontier Services Group” di Prince che «Potrebbe provvedere appoggio logistico alle compagnie impegnate nell’estrazione». Neo Compagnia delle Indie’ ma ora a partecipazione cinese. Chi gli da del matto e chi si fida. Tra questi ultimi (e pochi), il generale Scott Mille, da settembre a guidare il contingente Nato e le forze americane in Afghanistan. Nel frattempo Prince si starebbe ricomprando la vecchia Blackwaters venduta nel 2014 al gruppo americano Constellis e ribattezzata Academi.

SE NON CI CREDETE


domenica 30 dicembre 2018

Chi ha abbracciato Salvini? - Giulio Cavalli



Bisogna raccontarla bene, questa storia, senza cadere nella paura di essere ripetitivi. Bisogna raccontarla anche se ogni mattina mi chiedo quanto valga la pena ogni giorno, quasi tutti i giorni, raccontare le mala-gesta del ministro dell’inferno come se fosse lui l’unico problema del Paese ma poi mi fermo, ci penso, e mi dico che sì, che riesce a essere sempre più grave sempre ogni giorno. E non glielo si può concedere, no.
Questa storia va raccontata perché ancora una volta il trucco del ministro dell’interno ha deciso di buttarla a ridere, di sminuire, confidando nella disattenzione generale: «sono un indagato tra gli indagati!» ha detto Salvini a chi gli faceva notare la sua amichevole vicinanza (con abbraccio annesso) a Luca Lucci, capo ultrà del Milan di cui il vicepremier è assiduo tifoso. E Salvini pensava forse di cavarsela così, con una battuta sprezzante sulla giustizia italiana, per la sua confidenza con quello che viene descritto da molti giornali come semplice “condannato per droga” (come se non fosse già schifoso così) e invece è un uomo che merita di essere descritto per intero.
Luca Lucci è la persona che ha sfasciato la faccia e il bulbo oculare a Virgilio Motta durante una spedizione punitiva contro i tifosi dell’Inter (in un settore frequentato da famiglie e bambini, sempre per quella vecchia storia dei forti contro i deboli), colpevoli di avere tagliato uno striscione dei tifosi rossoneri che impediva la visione della partita. Nel 2009 Lucci viene condannato in primo grado per quel pugno che ha reso cieco da un occhio Virgilio Motta a quattro anni e mezzo di carcere e a un risarcimento di 140.000 euro. Lucci però è un furbo, uno di quelli che le condanne non le sconta perché risulta nullatenente e quindi alla sua vittima non resta che mettersi il cuore in pace. Peccato che Virgilio Motta, dopo avere perso il lavoro per la sua cecità, cade in una profonda crisi depressiva e si suicida tre anni dopo.
Ma il nome di Lucci compare anche in un altro processo, questa volta per ‘ndrangheta: durante il processo per l’omicidio dell’avvocatessa Maria Spinella il killer Luigi Cicalese confessa di avere utilizzato per l’agguato proprio l’auto di Luca Lucci, ottenuta dall’amico comune Daniele Cataldo, rapinatore e spacciatore. Solo negli ultimi anni arriva anche il patteggiamento a un anno e mezzo per questioni di droga, dopo essere stato arrestato.
Ecco chi ha abbracciato Salvini. E rimane da vedere se il ministro dell’interno sia incappato (ma davvero?) in questo funesto abbraccio per ignoranza o per commistione. In entrambi casi, sicuramente, non è all’altezza del ruolo che riveste. In entrambi i casi comunque è un ministro che dovrebbe combattere i malavitosi che scherzosamente si intrattiene con un malavitoso.
«Sono un indagato tra gli indagati!» è una risposta che funziona solo tra i travestiti che trangugiano le ampolle del Po. Ci riprovi, ministro.

Aggrappato alle ruote di un tir - Fulvio Vassallo Paleologo




1. Un giovane che si presume afghano, probabilmente un minore non accompagnato (secondo alcuni media avrebbe poco più di vent’anni, ndr), è morto nel porto di Ancona dopo essere stato travolto, dopo lo sbarco, dalle ruote del tir sotto cui si era aggrappato per entrare in territorio italiano. Come riferisce il Corriere della sera, ”È accaduto nel pomeriggio del 25 dicembre tra via Flaminia e via Conca nella zona di Torrette ad Ancona dove il mezzo pesante è transitato dopo lo sbarco al porto. Il ragazzo, che non aveva documenti addosso, è stato soccorso dai sanitari del 118 e trasportato in ospedale dove però è deceduto”.

Da anni la frontiera adriatica, quella ubicata nelle aree portuali di Venezia, Ancona, Bari e Brindisi fa vittimegiovani e giovanissimi che cercano di entrare in Italia senza alcuna possibilità di un passaggio legale, provenienti in genere dalla Grecia (Patrasso o Igoumenitsa), dove già sono stati esposti ad abusi alle frontiere, e a lunghe permanenze in centri di accoglienza sovraffollati. Si tratta di afghani, curdi, iracheni, pakistani, punjabi, siriani, che hanno superato i blocchi di frontiera, praticati dalla Turchia con l’aiuto finanziario e politico dell’Unione Europea, e riescono ad imbarcarsi sui traghetti che salpano verso l’Italia.
Spesso, all’arrivo nei porti italiani, questi migranti, in molti casi minori stranieri non accompagnati, che si nascondono sotto o all’interno dei grandi Tir imbarcati sui traghetti , provenienti dai porti esteri dell’Adriatico, e in qualche caso dalla Turchia, sono scoperti dalla polizia e riconsegnati al comandante della nave per il respingimento immediato. Che avviene con la stessa nave con la quale sono arrivati, verso il porto di partenza. Succede da anni, con diversi governi, ma sulla base delle stesse prassi di polizia.
Rimane ancora in vigore l’accordo di riammissione tra Italia e Grecia, stipulato nel 1999 ai tempi del governo D’Alema, che prevede formalità semplificate per il riconoscimento, l’attribuzione dell’età ( in violazione della legge n.47 del 2018) e il respingimento immediato “con affido al comandante”.

Di fatto veri e propri respingimenti collettivi per cui l’Italia è stata già condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel 2014, con la sentenza pronunciata nel caso Sharifiun precedente importante che però negli ultimi anni non è servito ad impedire che le autorità di polizia intensificassero gli sforzi per identificare i migranti allo sbarco, subito dopo l’arrivo dei traghetti nei porti adriatici, e preparare il loro respingimento immediato. Per molti di coloro che riescono a proseguire il viaggio, il sogno Europa finisce a Ventimiglia, o in territorio francese. Quando vengono bloccati finiscono in Hotspot come quello di Taranto o nei pochi CPR ( Centri per i rimpatri) ma non sono rimpatriati quasi mai e rimangono consegnati ad una condizione definitiva di irregolarità, anche a fronte dei più recenti orientamenti delle Commissioni territoriali e della abolizione della protezione umanitaria.
2. Malgrado l’aumento dei controlli, anche attraverso sonde termiche, e degli sforzi repressivi delle forze di polizia, le persone in fuga dalla Grecia, dove subiscono condizioni sempre più misere, continuano ad arrivare nei porti dell’Adriatico, anche a rischio di perdere la vita sotto le ruote del Tir al quale hanno affidato la loro speranza di fuga. Chi fallisce una volta e viene riportato indietro, ci riprova alla prima occasione possibile.

Si tratta di poche migliaia di persone che, in base alla situazione nei paesi dai quali provengono, avrebbero nella quasi totalità diritto al riconoscimento di uno status di protezione internazionale (asilo o protezione sussidiaria), non sono certo “migranti economici”, nuova categoria inventata ad arte per escludere una effettiva possibilità di accesso all’esercizio del diritto alla protezione. Eppure questi esseri umani, meglio chiamarli così, piuttosto che migranti, anche minori non accompagnati, vengono sistematicamente respinti e sono costretti a ricorrere a sistemi sempre più pericolosi per entrare in Italia. Molti di loro non vogliono neppure restare nel nostro paese, e per questo non presentano una domanda di asilo, cercando di proseguire con ogni mezzo, dopo lo sbarco, il loro viaggio verso il Nord Europa. Ma quando vengono bloccati sono trattati come “clandestini da espellere”. Oggi in tutta Europa si moltiplicano le “storie di resistenza” alle espulsioni in Afghanistan.
3. La Corte di giustizia dell’Unione Europea, in una decisione risalente a diversi anni fa, fornisce la interpretazione della direttiva 2004/83/CE sulle qualifiche di protezione internazionale, escludendo che ricada sui richiedenti l’onere della prova circa la situazione di violenza generalizzata nella regione di provenienza. La giurisprudenza europea afferma che non servono prove individuali per dimostrare l’esistenza di una minaccia individuale nei confronti del richiedente che chiede protezione ma è sufficiente valutare il grado di violenza indiscriminata nel paese dal quale si fugge (così Corte di giustizia europea sentenza depositata il 17 febbraio 2009). La Corte di giustizia ha specificato che l’art. 15 della direttiva 83/2004 “sugli standard minimi per il riconoscimento della qualifica di rifugiato e di protetto sussidiario”, in merito al concetto di “danno grave”, non presuppone che la minaccia sia individuale ma parla più in generale di violenza indiscriminata. La Grand Chambre della Corte di Lussemburgo, in merito alla questione posta dal giudice olandese, ha stabilito che l’esistenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona non è subordinata alla condizione che quest’ultimo fornisca una prova concreta della minaccia personale. Per provare tale minaccia o tale rischio di incorrere in un danno grave è sufficiente determinare il grado di violenza indiscriminata che caratterizza un conflitto anche interno in corso, avvalendosi delle valutazioni delle autorità nazionali. La Corte di giustizia ribadisce dunque che, per riconoscere la protezione sussidiaria, è sufficiente valutare che il conflitto interno o generalizzato nel Paese di origine del richiedente, raggiunga livelli di violenza tali da  ritenere che il ritorno in patria, per la sola presenza sul territorio, possa comportare un rischio effettivo di subire minaccia. Secondo la Corte di Giustizia, la minaccia può riguardare «danni contro civili, a prescindere dalla loro identità, qualora il grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto in corso […] raggiunga un livello così elevato che sussistono fondati motivi di ritenere che un civile rientrato nel Paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la minaccia grave di cui all’art. 15, lett. c), della Direttiva».
La Corte di cassazione ha fatto più volte applicazione di tali principiribadendo che il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui all’art 14, lettera c), non è subordinato alla prova che il richiedente sia interessato in modo specifico dalla minaccia grave alla vita o alla persona in ragione di elementi peculiari della sua situazione personale. Non è necessario, cioè, che il richiedente asilo «rappresenti una condizione caratterizzata da una personale e diretta esposizione al rischio quando è possibile evincere dalla situazione generale del paese che la violenza è generalizzata e non controllata».
Riguardo al caso dei ricorrenti del procedimento Sharifi contro Italia e Grecia, la Corte europea di Strasburgo aveva chiesto al Governo italiano di provare, sulla scorta di quanto dichiarato dai ricorrenti medesimi, che il respingimento e l’eventuale “espulsione” in Afghanistan non li avrebbe esposti al rischio di subire trattamenti inumani o degradanti. Le argomentazioni della difesa dello stato non avevano evitato la condanna dell’Italia.
Adesso, dopo anni da quella decisione, questo tema ritorna di attualità. Bisogna impedire che una volta formata una lista di “paesi terzi sicuri” come ormai sarà possibile con i prossimi decreti attuativi del decreto legge 133 del 4 ottobre 2018, adesso convertito nella legge (Salvini) n.132 del 1° dicembre 2018, con la probabile individuazione di aree interne sicure, questa pratica dei respingimenti sommari alle frontiere portuali dell’Adriatico possa intensificarsi ulteriormente. Con il rischio di innescare una serie di respingimenti “a catena”. Magari verso l’Afghanistan, paese che qualcuno si accinge a ritenere “sicuro”, almeno a Kabul, dove tuttavia si muore anche per andare a scuola.
Il Governo italiano non può sostenere ancora una volta, come tentò nel caso Sharifi davanti la Corte di Strasburgo, con affermazioni generiche e prive di riscontri obiettivi, che in Afghanistan la situazione sarebbe ritornata, almeno in determinate regioni, sufficientemente “tranquilla”, e tale da rendere “sicuri “i rimpatri e respingimenti, che la Grecia, a sua volta potrebbe riprendere, senza tenere conto della condanna subita nel caso Sharifi. La futura “lista di paesi terzi sicuri” che dovrebbe essere introdotta in Italia entro qualche mese, per decreto ministeriale, risulta in forte contrasto con la portata più ampia dell’art. 10 della Costituzione italiana. Occorre prepararsi per sollevare una valanga di ricorsi non appena venga approvato il relativo decreto, per impedire che possa fare altre vittime, come quelle che si sono registrate in altri paesi europei che ne fanno uso. Qualcuno infatti dopo l’espulsione in Afghanistan si è impiccato. E molti degli espulsi sono stati uccisi.
4. Tutti coloro che sono scoperti a bordo dei traghetti provenienti dalla Grecia o sui Tir subito dopo lo sbarco, e riconsegnati dalle autorità italiane ai comandanti delle navi, vengono rinchiusi all’interno di spazi angusti con possibilità molto limitata di accedere ai servizi igienici. La cabine in cui i migranti vengono detenuti sono estese pochi metri quadrati e sono sovente vicine al vano motori dove si raggiungono temperature assai elevate. Al loro interno sono rinchiuse diverse persone tra le quali ci sono spesso anche minori, donne e bambini. Il viaggio da Venezia alla Grecia ha la durata di 33 ore, quello da Ancona di 22 e quello da Bari di 17. Durante tutto il periodo di trattenimento, che va dal momento del rintraccio dei migranti sulla banchina o nel traghetto, fino al loro arrivo in Grecia, alla totalità dei migranti è negato l’accesso alla assistenza legale, la possibilità di comunicare con un interprete, la benché minima informazione sui propri diritti, e pertanto anche la possibilità di avanzare una richiesta di asilo politico. Non è consegnata loro alcuna informativa in merito alle procedure cui vengono sottoposti, tanto meno viene notificato loro un provvedimento di respingimento formale, scritto, motivato e tradotto avverso il quale poter proporre ricorso. Spesso dei respingimenti non rimane neppure traccia nei registri della polizia, come prescriverebbero invece la normativa italiana e il diritto internazionale.
Per coloro che non hanno voce, anche quando sopravvivono al viaggio e al respingimento sui traghetti, chiediamo che l’Unione Europea modifichi i suoi accordi con la Turchia in modo di garantire canali legali di ingresso. Chiediamo che si dia completa attuazione agli impegni di rilocazione in diversi paesi europei assunti con l’Agenda europea sulle migrazioni del 13 maggio 2015, e poi disattesi. Occorre concedere poi la possibilità di identificazione e di accesso alla procedura di protezione internazionale, sia nei porti greci che in quelli italiani, ponendo fine alla pratica dei respingimenti collettivi sulla base degli accordi bilaterali vigenti tra Italia e Grecia, che vanno immediatamente modificati, in modo da impedire i respingimenti collettivi vietati dal Quarto protocollo allegato alla CEDU) e i respingimenti di minori, vietati dall’art. 19 del vigente Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998.
Di fronte alla gravità e al ripetersi delle procedure di riammissione dai porti italiani verso la Grecia è evidente che le vittime di queste prassi “informali” ben difficilmente possono fare valere con ricorsi individuali i loro diritti fondamentali, dal diritto alla vita e alla salute, ai diritti di comprensione linguistica e di protezione internazionale. La rapidità delle procedure di allontanamento forzato dalle aree portuali di Ancona e di altri porti dell’Adriatico, riesce a impedire persino l’intervento delle organizzazioni umanitarie” convenzionate” con le prefetture locali.
Dopo il respingimento a Patrasso le persone allontanate dalle frontiere marittime dell’Adriatico, comprese donne e minori, vengono “sistemati” in container ubicati all’interno della zona portuale, o sono trasferite in centri di detenzione, e le possibilità di fare richiesta di asilo o di presentare un ricorso individuale sono nulle.
5. Va ricordato che, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, sono espulsioni collettive tutte quelle misure che obbligano gli stranieri “in quanto gruppo” a lasciare un Paese. Se il divieto vale per le espulsioni disposte con formale provvedimento amministrativo, non può non valere parimenti quando l’effetto sia raggiunto attraverso un mero comportamento di fatto, attuato dalle autorità statali.
Occorre invece promuovere i canali umanitari ed evacuare urgentemente verso tutti i paesi europei che si dichiarino disponibili decine di migliaia di persone intrappolate in Grecia, oltre che per effetto degli accordi, ammesso che si possano definire tali,tra Unione Europea e Turchia, da gravi lacune nel sistema nazionale greco dell’asilo.
Queste richieste si inquadrano nell’ambito di una revisione sostanziale del vigente Regolamento Dublino, anche oltre le modeste aperture apportate dalla Proposta di modifica approvata quest’anno dal Parlamento europeo. Non si può prevedere quando questa revisione del Regolamento Dublino potrà realizzarsi, probabilmente mai più, considerando le posizioni dei paesi europei “sovranisti” (seppure in forte contrasto tra loro proprio su questo punto) e le incombenti elezioni europee, in occasione delle quali ciascun partito populista e nazionalista darà sfogo alle pulsioni più basse del corpo elettorale. Rimane anche in questo caso da sostenere l’impegno collettivo per organizzare sistemi di accoglienza transitoria autogestita, possibilità concrete di mobilità verso altri paesi europei, e strumenti di difesa legale che possano essere adottati nell’immediatezza della scoperta di migranti irregolari a bordo dei Tir che sbarcano dai traghetti provenienti dalla Grecia o a bordo degli stessi traghetti, prima dello sbarco.

sabato 29 dicembre 2018

In Ungheria il populismo non ha più il popolo - Giulio Cavalli


Ne parlano poco perché si sa, Viktor Orban dovrebbe essere il modello di autorevolezza a cui qualcuno dalle nostre parti aspira, l’uomo che respinge i migranti senza se e senza ma, colui che secondo alcuni assicura l’ordine nonostante “l’ordine” sia solo il sinonimo marcio della perdita della libertà.
Bene: in Ungheria da giorni protestano lavoratori e sindacati per una legge che alza a 400 ore il tetto di straordinari e che spalmano il pagamento delle ore in più in tre comodi anni per il datore di lavoro. Una legge “del più forte” che è un favore a chi, da imprenditore, può tenere sotto scacco i lavoratori con un ritorno agli anni 60 in tema di diritti. Stupisce? No, per niente.
Tra le riforme contestate tra l’altro c’è anche quella che riguarda la giustizia (ma va?) e che affida al governo il controllo su materie come le gare d’appalto pubbliche e i contenziosi elettorali. Sì, avete letto bene, i contenziosi elettorali.
Sotto l’occhio della protesta sono finiti anche i media pubblici, accusati di essere supini alla volontà di Orban e del suo governo. Anche in questo caso stupisce che ci si stupisca: la libertà di stampa da quelle parti è considerata come libertà di scegliere come assoggettarsi al potere. Nient’altro.
Nei giorni scorsi due deputati del partito d’opposizione LMP, Ákos Hadházy e Bernadett Szél, hanno provato ad entrare nella sede della televisione pubblica per leggere un appello e sono stati buttati fuori dall’edificio con la minaccia di una condanna “a 10 anni”.
Il governo che si vanta di avere chiuso le frontiere ha perso dal 2010 (anno di insediamento di Orban) qualcosa come seicento mila ungheresi espatriati all’estero, in particolare i più istruiti. Le aziende ungheresi intanto (tra cui anche quelle italiane che hanno delocalizzato in nome di un sovranismo che non vale evidentemente dal punto di vista fiscale) hanno seri problemi di manodopera: così il populista Orban ha deciso bene di spremere i lavoratori rimasti. Alla grande, direi.
La vicenda però racconta perfettamente un concetto essenziale: Orban è riuscito a erodere i diritti e le libertà finché i suoi ungheresi potevano avere la tranquillità di un reddito e di un lavoro, tranquilli nella propria quotidianità e addirittura soddisfatta del respingimento dei diritti degli altri, ma alla fine la lenta erosione della libertà arriva inevitabilmente per tutti, sempre. E quando ci si accorge che sta accadendo è quasi sempre già troppo tardi.
Historia magistra vitae, dicevano i latini. Già.

Il capitalismo spiegato bene (grazie ai biscotti gratis di un Freccia club) - Leonardo Filippi



Sempre più spesso mi capita di interrogarmi sulla trasformazione degli spazi aperti al pubblico, e in particolare sulla metamorfosi dei posti a sedere di cui dispongono. Panchine, pensiline, sgabelli. Beni in teoria elementari per qualsiasi luogo frequentato da esseri umani, ma sempre più spesso mercificati e venduti a caro prezzo.
Ecco, alle 19.20 della vigilia del Sol invictus, la mia ricerca da antropologo dilettante compie un traguardo storico. Grazie alla Cartafreccia argento, “generosa” ricompensa di Trenitalia per le migliaia di euro che le ho elargito negli ultimi anni, sono potuto entrare in un esclusivo Freccia Club a Roma Tiburtina.
Una sala riservata per utenti qualificati. È vuota (come tutte le location luxury), ci sono tavoli, divani, maxischermo, quotidiani, bibite e caffetteria a cui accedere gratis (non male il caffé marocchino erogato da una specie di astronave coi bottoni collegata al wifi, accompagnato da croccanti biscotti al cioccolato da pucciarci dentro), e wc a disposizione. Quest’ultimo non è un dettaglio banale, perché nei terminal gestiti da Grandi stazioni si sborsa anche per andare al bagno. E anche per sedersi, visto che ogni giorno di più in questi luoghi viene scientificamente rimosso qualsiasi tipo di arredo dotato di una forma che renda anche solo vagamente ipotizzabile l’eventualità di appoggiarvi sopra le natiche, ovviamente a meno che questo gesto non implichi l’obbligo tassativo di consumare beni o servizi.
Qui dentro invece è tutto free. Ben due impiegati educatissimi si occupano della customer care (cioè di me, perché ci sono solo io), e mi ricordano che se voglio posso prendermi anche una cochina fresca, se mi venisse sete poi in treno.
Ecco, da dentro, questo salotto ha tutte le parvenze di un’oasi. E non tanto per il comfort che c’è dentro, che alla fine ‘sticazzi, ma per il deserto che c’è fuori. Le principali stazioni italiane (e non), da sempre laboratorio privilegiato dove sperimentare gli ultimi ritrovati della cosiddetta “architettura ostile” (panchine con braccioli anti dormita, muretti con spunzoni anti clochard, ecc.), sono diventate vetrine chic in cui il potere economico affina la sua capacità di espellere i poveri, di allontanarli da uno spazio un tempo crocevia accogliente per tutti. Anche (e soprattutto) per chi non aveva un posto fisso in cui abitare.
Gli oggetti su cui ci si può sedere liberamente nelle più importanti stazioni italiane infatti sono sempre meno, pattuglie di guardie private sorvegliano h24 affinché nessun soggetto “indecoroso” osi sdraiarsi (l’unica postura ammessa gratuitamente, oltre allo stare in piedi, dall’arredo a disposizione) e la mattina presto fanno sloggiare i senzatetto che affrontano la notte all’esterno degli edifici blindati, tra i cartoni. Per loro anche bere gratis è un’impresa. Perché i bagni di frequente hanno i tornelli, mentre i binari sono spesso murati da gate oltrepassabili solo se si esibisce il titolo di viaggio (vedi Termini, Milano centrale, Santa Maria Novella, ecc.).
Se tutto ciò accade, è anche perché dal 2016 i più grandi centri ferroviari italiani non sono più luoghi gestiti direttamente da Ferrovie dello Stato italiane (Fsi), dopo lo scorporo di Grandi stazioni in Gs Rail, Gs Immobiliare e Gs Retail, e la concessione di questa ultima società – che gestisce spazi commerciali, servizi igienici e co. – ad una cordata di privati. Uno scorporo avviato dall’Amministratore delegato di Fsi Michele Mario Elia, nominato sotto il governo Letta (Pd), e ultimato dal suo successore Renato Mazzoncini, voluto dal premier Renzi (Pd).
Nelle pertinenze di quelli che assomigliano sempre più a grandi centri commerciali, ai mendicanti è concesso chiedere l’elemosina, sempre che non esistano ordinanze che lo proibiscano, ma facendo bene attenzione a non «porre in essere condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione» degli spazi. Una circostanza punibile col Daspo urbano inventato da Minniti e Orlando (Pd) in determinate aree della città – come le stazioni – da poco estese da Salvini (che vi ha inserito anche gli ospedali. Si, avete letto bene).
Un sadico percorso ad ostacoli per gli esseri umani più vulnerabili messo in scena quotidianamente, nei maggiori poli ferroviari.
Si, ma qui a Tiburtina è diverso. Qui c’è di più. Fuori, a pochi passi da questo lounge, c’è il Baobab. O meglio, ciò che resta dello storico presidio di volontari che tenta di dare servizi minimi ai migranti transitanti che dormono nel cemento e sull’asfalto, a piazzale Maslax, dopo i ventidue sgomberi degli ultimi tre anni (VENTIDUE). L’ultimo il mese scorso, il 13 novembre. Uno scempio ormai divenuto quasi routine, normalizzato, per cui a scandalizzarsi non sono rimasti in molti, nella Roma dove si continua a buttare gente in mezzo alla strada (vedi l’operazione all’ex fabbrica della Penicillina del 10 dicembre).
Ecco, tutto ciò per dire che se durante ‘ste feste mi trovassi a dover spiegare ad un bimbo cos’è il capitalismo e quanto faccia schifo, credo che gli parlerei dei Freccia club. Dei divanetti in similpelle rossa tirati a lucido e completamente vuoti la vigilia del Sol invictus (festa che, come noto, rende tutti più stronzi) e dei cappuccini gratis riservati a chi può permettersi treni Freccia sempre più costosi (mentre regionali e Intercity, ossia i cosiddetti servizi pubblici, sono ormai quasi un lontano ricordo). E poi del gelo umido che entra nelle ossa di chi non ha nulla e dorme lì fuori, dei 22 sgomberi del Baobab, dei Daspo inventati dal Partito democratico, dell’accanimento sempre più feroce contro gli ultimi.
Ma poi gli spiegherei anche che il Baobab experience, nonostante tutto, resiste. Come tante altre realtà solidali, sparse nello Stivale. E che prima o poi verranno smontate, le porte di quei Freccia club. Perché, se lo può capire anche un bambino che il capitalismo fa schifo, lo possono capire tutte e tutti.


Il panettone amaro – Giulio Cavalli



Mi si perdoni se interrompo il coito festivo con una notizia che arriva da Marnate, provincia di Varese, e che fotografa il Paese reale, quel feticcio che tutti sventolano per rinchiudere gli avversari nel recinto della casta e che invece andrebbe analizzato con serietà, costanza e coscienza.
A Marnate la Hammond Power Solutions produce trasformatori ad alta tensione. Fino a sei anni fa si chiamava più prosaicamente Marnate Trasformatori e, come tante aziende del territorio, aveva trovato ossigeno con la nuova proprietà canadese. Prima della chiusura natalizia i rappresentanti dei dipendenti avrebbero dovuto incontrare la proprietà per firmare il miglioramento del proprio contratto, dal “Confimi” al Federmeccanica CCN Nazionale. Avrebbe dovuto essere un buon Natale, insomma, per quelle quaranta famiglie.
Alle 14 di qualche giorno fa i dipendenti hanno ricevuto l’abituale cesto natalizio. In fondo, che si creda o meno, a Natale non si spera tanto che vada bene l’anno che verrà, si confida almeno che vada meglio. Basta quello. Due ore dopo i dipendenti hanno ricevuto invece l’annuncio di “cessazione attività”, alle quattro del pomeriggio. Cessazione attività è il modo elegante con cui ti scrivono che non servi più, che c’è qualcun altro in giro per il mondo che costa meno di te, in uno Stato che offre di più. I trasformatori sono solo un particolare irrilevante, quando il lavoro è solo una riga tirata dritta sotto ai costi e ai benefici.
Il gruppo è quotato alla Borsa di Toronto, è leader di mercato nel Nord America e ha stabilimenti nel mondo anche negli Usa, Messico e India. Se la produttività è l’unico comandamento diventa difficile immaginare la filiale di Marnate, probabilmente.
In questa storia c’è anche tutto il tempismo irrispettoso con cui le aziende ormai vomitano i propri licenziamenti: «un fulmine a ciel sereno», ha detto il sindaco. Succede sempre così. Licenziamenti inaspettati, come se fossero un accidente della vita che ci meritiamo. A posto così.
È una storia minima ma è fatto di piccole storie così il Paese che se ne fotte della retorica, del cattivismo, dei benpensanti e dei profeti della finanza interplanetaria. Sono questi a cui mancano le risposte, il futuro e la rappresentanza. L’augurio a loro, e a noi, è che l’anno che viene porti una rappresentanza a loro. A noi.