Sono tra le 25 e le 33 le prigioni “ufficiali” dove
vengono rinchiusi i migranti per periodi indefiniti di detenzione, subendo ogni
tipo di abuso e maltrattamento. Global detention project ha creato una mappa,
ma sono ancora tanti i centri di detenzione che mancano all’appello per ragioni
di sicurezza o perché in mano alle milizie. Ad esserne complici i governi
dell’Ue che negli anni hanno stretto accordi con varie entità presenti in Libia
Torturati, violentati,
smistati nei centri di detenzione e costretti nuovamente a pagare. I migranti “soccorsi” e
“intercettati” dalla così soprannominata guardia costiera libica vivono
l’inferno dei centri di detenzione all’andata e al ritorno del loro viaggio,
subendo ogni tipo di abuso e maltrattamento e costretti a pagare una forma di
riscatto che non fa altro che alimentare il traffico di esseri umani. Una volta
“soccorsi” e riportati in Libia i migranti vengono prima trasferiti nelle 16
zone di smistamento che si affacciano sulla costa e successivamente nelle
carceri sparse per il paese.
É uno degli aspetti più
inquietanti che emerge dal report di Global
Detention Project, associazione con sede a Ginevra che promuove
i diritti umani delle persone prive di cittadinanza. Incrociando i dati delle maggiori
organizzazioni internazionali e non governative presenti sul territorio, come
Unhcr, Oim, Amnesty International, ma soprattutto grazie al contributo di
ricercatori e giornalisti presenti sul luogo, Global Detention Project già
dal 2009 lavora per creare un database che mira a individuare i centri di
detenzione in Libia, come già fatto in altri paesi del mondo.
Catalogarli tutti è impossibile e anche una
classificazione tra centri di detenzione “criminali” e “amministrativi” è più
che mai difficile. Questo perché i governi europei non possiedono dati
sufficienti e perché un numero indefinito di centri di detenzione sono nelle
mani di milizie e trafficanti, impedendo così l’accesso alle organizzazioni
presenti sul territorio che svolgono un importante lavoro di assistenza ed
evacuazione.
La Libia, da Sud a Nord, da Est
a Ovest, è costellata di centri di detenzione, definiti anche
“holding centres”: alcuni hanno la forma di prigioni, altri sorgono
improvvisamente in vecchie scuole o fabbriche abbandonate. Qui migranti e richiedenti asilo
subiscono ogni forma possibile di abuso, in assenza di leggi, con periodi di
detenzione indefiniti, senza cibo, acqua, cure mediche e costretti ai lavori
forzati. Donne e bambini non sono considerati soggetti vulnerabili.
I centri ufficiali, quelli controllati dal
Dipartimento governativo contro l’immigrazione clandestina sono tra i 25 e i 33
(ad aprile 2018 l’Unhcr ne ha contati 33), ma in realtà i centri di detenzione
sono molto di più. A gestirli sono milizie, gang criminali, trafficanti di
esseri umani che, come è già stato dimostrato, godono dei finanziamenti del
governo, in un paese, la Libia, che occupa il 171esimo posto su 180 nella
classifica dei governi con il più alto grado di corruzione al mondo, stando
all’indice di Transparency International’s 2017.
Torture e violenze nei centri di detenzione in Libia
sono solo in parte documentate. Nel
2013 Amnesty International ha verificato casi di violenze sessuali dove di
notte uomini armati portavano via ragazzine di 13 anni per poi farle rientrare
il giorno successivo. In quel lasso di tempo venivano violentate e se una di
loro provava ad opporsi veniva minacciata con le armi o uccisa. Nei
centri di detenzione libici – sottolinea Gdp – bambini e donne
non sono separati e l’assenza di guardie di sesso femminile, che è una
violazione delle norme per il trattamento dei prigionieri, espone ancora di più
le donne ad abusi sessuali.
Tra i centri dell’orrore si
annovera quello di Az- Zawiyah, nella costa ovest della Libia sul quale
comunque vi è mancanza di informazioni a causa degli sviluppi militari in
questa parte del paese. Qui le
Nazioni Unite hanno indagato su una sparatoria da parte delle guardie nei
confronti dei migranti. La prigione di Az- Zawiya è nata in una vecchia
fattoria durante l’era di Gheddafi per ospitare più di mille persone. Come
documentato da Amnesty International è questa una delle prigioni dove vengono
trasferiti i migranti “intercettati” dalla guardia costiera libica. Az-Zawiya
appartiene ufficialmente al Dipartimento governativo contro l’immigrazione
clandestina, ma di fatto è controllato dalle milizie di Al-Nasr,
tanto da essere chiamato dai migranti “Ossama centre”. La brigata di Al
Nasrè stata fondata da Mouhammad e Walid al-Koshlaf che vendevano petrolio
rubato ai trafficanti locali dalla vicina raffineria di Zawiya. I Koshlafs erano
connessi con l’ex comandante della guardia costiera locale Abdulrahman Al
Milad, detto “Bija”, conosciuto per la sua stretta collaborazione con la rete
di trafficanti e da qualche mese nella lista nera delle Nazioni Unite. Da
comandante della guardia costiera locale “Bija” ha ricevuto fondi italiani e
europei.
Sempre sulla costa ovest
della Libia i centri di Al- Hamra e Aburshada – interconnessi tra loro – sono
tra i peggiori. Qui ad
ottobre 2016 sono state documentate una serie di morti da parte dell’Oim. Altri
centri di detenzione sono a Zuwarah dove agli inizi del 2018 si contavano 800
migranti nigeriani, ivoriani, maliani e senegalesi; a Sabratah dove un centro
di detenzione è stato improvvisato in una vecchia scuola; a Khoms (una vecchia
fabbrica cinese) dove a luglio 2018 si registravano 283 migranti, mentre altri
centri si trovano a Zliten e Kararim, il nuovo centro di detenzione di Misurata
che ha sostituito la vecchia base militare di Al Kharouba.
Nella costa est, nonostante anche qui vi sia mancanza
di informazioni, si trovano i centri inaccessibili di Alabyar, Albayda, Almarj,
Assahel, Alqubba, Jaghbub, Jalu e Tamimi, e quelli governativi di Ajdabiya,
Ganfuda (fino al 2014 in mano delle milizie), Tocra, Shahhat e Tobruk,
quest’ultimo annoverato dall’Unchr come il 19 su 33 centri regolarmente
visitato.
Nel Sud del paese, dove
transitano i migranti provenienti dal Niger, ci sono altri centri di detenzione
dell’orrore, come a Kufra dove diversi osservatori hanno riportato le
condizioni inumane dove i migranti sono costretti a vivere. Senza luce, ventilazione, bagni,
letti e con i pasti serviti una volta al giorno. Nel 2016 un uomo etiope,
detenuto a Kufra, ha raccontato di essere picchiato regolarmente, chiuso in un
container e torturato con l’acqua calda, mentre la moglie e altre donne sono
state violentate. Altri centri di detenzione si trovano a Jufra (Al–Jufra),
quest’ultimo giudicato uno dei quattro centri al Sud del paese dichiarati
inaccessibili dall’Unhcr, insieme a quelli di Shati e Ghat. Ad Al Qatrun non è
stato invece possibile verificare le condizioni dei migranti per motivi di
sicurezza, il centro collocato ai confini con il Niger e il Ciad ha una
capacità per ospitare 1500 persone.
I centri di detenzione
attorno a Tripoli ad essere visitati da organizzazioni internazionali sono
sostanzialmente cinque: Triq
al-Seka, Hamza (Tariq al-Matar) dove a luglio 2018 si trovavano 1770 migranti,
680 eritrei, 240 sudanesi e 200 somali, Quasr (bin Gashir), con 472 migranti
detenuti a Febbraio 2018, Ain Zara con 700 migranti detenuti a luglio 2018 e
Tajura, quest’ultimo monitorato dall’Unhcr. Già nel 2017, Medici senza
frontiere che aveva avuto accesso a 7 centri di detenzione nell’area di
Tripoli, tramite il suo direttore generale Arjan Hehenkamp aveva descritto le
condizioni inumane e degradanti del luogo, senza luce né ventilazione e
pericolosamente stracolmo di persone.
Le condizioni inumane nei centri di detenzione in
Libia non sono una novità e già nel 2005 i servizi segreti italiani riportavano
come i poliziotti dovessero indossare delle maschere per via degli odori
nauseanti. Nonostante la caduta
del regime di Gheddafi nel 2011, l’Europa – sottolinea Gdp –
ha continuato a negoziare con varie entità presenti in Libia per controllare il
flusso di migranti. Centinaia e centinaia di milioni di euro destinati
proprio alle infrastrutture di detenzione e per equipaggiare le forze
marittime, come nel caso della creazione della guardia costiera libica in base
al Memorandum di intenti siglato dall’Italia nel 2017 (memorandum che segue il
trattato d’amicizia tra l’Italia e la Libia del 2008) per cui dopo gli
incidenti avvenuti il 6 novembre 2017 tra l’Ong Sea-Watch e i
guardacoste libici è stato presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti
umani da parte del Global legal action network e da altri
soggetti inclusi l’Arci e la Yale Law School’s Lowenstein
International Human Rights Clinic. Come se non bastasse da giugno 2018 la
Libia possiede una zona di ricerca e soccorso in mare (Sar zone).
É chiaro quindi –
conclude Gdp – che affidando per via di accordi economici la
politica sull’immigrazione alla Libia, l’Europa ha creato le condizioni per uno
dei più pericolosi sistemi di detenzione al mondo.
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