Rojava, Kurdistan siriano
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Siria e Afghanistan con meno Usa. Siria: curdi, arabi, armeni, turkmeni,
quasi in 100 mila giunti da tutte le aeree dei combattimenti, tutti a Kobane,
città curda in terra siriana base della coalizione anti-Isis a guida
statunitense. Da Manbij, Raqqa, Ayn Isa, tutte le aree dei combattimenti ancora
in corso contro lo Stato Islamico, le vere truppe di terra che l’ex Isis hanno
vinto ma non ancora sconfitto, ad avvertire, «Nessun mercato sulla nostra
pelle, no all’invasione turca». Ritirata Usa a produrre guai peggiori?
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Valutazioni locali, decisamente più serie degli annunci via twitter di
Trump, avvertono che l’attesa operazione turca nel Rojava, a cui ha di fatto
dato via libera il presidente Usa, rischia di creare il caos. L’elenco da Chiara
Cruciati: le Forze democratiche siriane che si spostano verso l’Eufrate per
fermare i turchi lasciando così scoperto il fianco a est, al confine con
l’Iraq, dove migliaia di islamisti sono operativi. Sconfitta Isis sostenuta da
Usa e Russia, ma esistono le bugie a interesse variabile.
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Tradimento americano atteso tra i curdi: «Sapevamo che non erano qui per
proteggerci. I nostri interessi coincidevano e abbiamo agito insieme, ma non
abbiamo mai contato su di loro». Ma assieme, le unità di difesa curde, Ypg e
Ypj, e le Sdf avvertono, sarà impossibile combattere il «califfo» se dall’altro
lato, da fatto a coprire l’ex Isis, c’è il secondo esercito della Nato mosso da
Erdogan. Poi, guerriglieri veri, ‘l’impossibile gestione’, ora, dei 3mila
prigionieri dell’Isis, catturati in questi anni.
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Splendida cattiveria che noi occidentali ci meritiamo tutta. L’Isis che
nasce e cresce con molti aiuti Nato (Turchia) e alleati (saiditi e emirati del
petrolio). Foreign fighters, figli dei vostri disagi sociali interni che vengono
qui ad ammazzare, ‘e noi soli’, curdi, a combattere sul campo. Ora un fardello
di foreign fighters enorme su cui Rojava ha spesso richiamato l’Occidente:
riprendeteveli. «Ma in un contesto di guerra le prigioni sono le prime a
collassare, con la conseguente fuga di 3200 islamisti», l’avvertimento.
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Ora la regione autonoma cerca impegno dell’Onu e dalla Francia, presente
con qualche centinaio di truppe per una no-fly zone per prevenire l’assalto
turco. Con Mosca e Damasco, dialogo in corso sul futuro dell’autonomia di
Rojava, a cui il governo centrale sempre disponibile. Obiettivo condiviso con
Damasco, evitare la pulizia etnica di Afrin dopo l’invasione turca a marzo, con
300mila sfollati sostituiti da miliziani sunniti. Gioco sporco, corridoio di
approvigionamento al bubbone jihadista di Idlib.
Altra ritirata in un
mare di guai
e la dottrina ‘Asia’ traballa
e la dottrina ‘Asia’ traballa
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Afghanistan, seconda retromarcia dopo la Siria: Trump vorrebbe ritirare
7mila dei 14mila soldati nel Paese asiatico. Eppure, secondo l’ultimo rapporto
semestrale Enhancing Security and Stability in Afghanistan del Dipartimento
della Difesa degli Stati uniti, reso pubblico in questi giorni, le condizioni
sul terreno sono peggiorate rispetto al 2017, e dal punto di vista finanziario,
«l’autosufficienza nel 2024 non appare realistica». Nei palazzi di Kabul la
notizia è stata accolta con ovvia preoccupazione.
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Come osserva Giuliano Battiston, «Il governo di unità nazionale afghano
dipende dal portafogli e dal sostegno militare e politico degli Stati uniti. In
termini operativi le forze di sicurezza locali sono ancora dipendenti dagli
stranieri, in particolare dagli Usa (e dalla loro flotta aerea)». A Kabul,
inoltre, si teme un effetto «liberi tutti» nelle cancellerie occidentali, sia
rispetto alla presenza militare (salvo qurllas italiana che ora vedremo), ma
sopratutto nel campo degli investimenti per risollvare il Paese.
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Problema, capire a cosa sia legata la decisione di Trump. Due le ipotesi,
secondo Battiston: «Ritiro faccia parte della strategia negoziale. Trump
potrebbe aver accontentato almeno in parte i barbuti, forse per ottenere
proprio quel cessate il fuoco di cui si è discusso negli Emirati arabi».
Seconda ipotesi, la solita intempranza di Trump che ‘spara’ una decisione non
concordata. «I Talebani porterebbero a casa un bel regalo, senza contropartite.
Rafforzati nei confronti sia degli americani sia del governo di Kabul».
Afghanistan tutti a
casa,
ma le promesse italiane
ma le promesse italiane
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Alla fine in Afghanistan rimarremo soltanto noi italiani. Ritiro di 200
soldati promesso già dal governo Renzi. Meno centro, la promesse ultime
dell’attuale governo. «O almeno così era stato detto a ottobre -denuncia il
sempre attento Emmanuele Giordana- Al momento, sul sito della Difesa restano i
dati al 30 settembre 2018, con “un impiego massimo di 900 militari, 148 mezzi
terrestri e 8 mezzi aerei” suddivisi tra Herat e Kabul, escluso quindi il
nostro personale della logistica negli Emirati arabi.
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«Mentre Trump vuole ritirare parte dei suoi soldati, mentre i francesi
hanno fatto le valige da tempo seguiti da altri più o meno alla chetichella,
l’Italia resta impegnata con il terzo contingente per numero di uomini, solo da
poco superato dalla Gran Bretagna». Ritiro tanto ‘graduale’ che persino gli
americani ci battono sulla velocità dopo averci chiesto, un anno fa di restare.
E sembra emergere un problema tutto governativo italiano del ‘chi comanda’: la
gestione del ‘lodo afghano’ è della Difesa o del ministero degli Esteri?
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