Solitamente
si affronta il tema del debito pubblico solo dalla parte delle uscite. Lo si fa
quando si analizza come si è formato e
lo si fa quando si tenta di capire come uscirne. Apparentemente si
tratta di un approccio spontaneo senza secondi fini, ma per i risultati
ideologici che produce è legittimo pensare che faccia parte di una
strategia studiata a tavolino. Perché, non dimentichiamolo mai, il debito non è una questione
ragionieristica, ma uno strumento politico che a seconda di come è gestito può
favorire l’occupazione, l’equità, lo sviluppo sociale o al contrario
la disoccupazione, le disuguaglianze, la disgregazione. In
Italia, pur con molte sfaccettature, si sono avuti ambedue i corsi politici: il
primo dal 1950 al 1980, il secondo dal 1981 ad oggi.
Il decennio
più nefasto è stato quello degli anni ottanta, quando si pretese di continuare a fare debito per
finalità politico-sociali senza tenere conto che nel frattempo si era messo lo
stato alla totale mercé delle banche perché lo si era privato di autonomia
monetaria. Il risultato fu un sovraccarico di spesa per interessi
che ci ha infilato nella trappola mortale di chi continua ad indebitarsi non
per garantire migliori condizioni di vita ai cittadini, ma per pagare gli
interessi stessi. La sintesi è che su un totale di 2575 miliardi di interessi
pagati dal 1980 al 2017, ben 1920, il 74%, sono stati pagati a debito. Alla
faccia di chi dice che ci siamo indebitati perché abbiamo vissuto al di sopra
delle nostre possibilità.
E’ ormai
certo che il nostro debito è dovuto
all’incapacità di tenere il passo con gli interessi e se da una parte servirebbe un’analisi per capire
quanto hanno pesato i tassi esorbitanti che hanno dominato fino a inizio
millennio, dall’altra bisogna chiedersi se lo stato ha fatto tutto il possibile
per incassare tutto ciò che gli competeva
per servire almeno gli interessi sul debito. In altre parole
bisogna smettere di occuparci solo di uscite e cominciare a mettere gli occhi
anche sulle entrate. Cosa che ha fatto il CADTM, un organismo di recente
costituzione nato con lo scopo di analizzare il debito e individuare eventuali
partite illegittime. Dal rapporto
intitolato “Fisco & debito”, si apprende che negli
ultimi decenni lo stato ha aumentato costantemente la pressione fiscale,facendola
passare dal 31,4 del Pil nel 1981 al 42,9 nel 2016. Ma si è trattato di una
crescita distorta che ha avvantaggiato le fasce ricche a scapito di quelle
medio-basse. Lo dimostrano in particolar modo due aspetti: l’espandersi
delle imposte indirette e la perdita di progressività delle imposte dirette.
Le imposte indirette sono passate dall’8,4% del Pil
nel 1981 al 14,4% nel 2016, per effetto soprattutto dell’aumento dell’IVA ordinaria che è passata
da 18 al 22%. La conclusione è che oggi i due tipi di imposte,
quelle dirette e quelle indirette, hanno pressoché lo stesso peso, ma la
parte di popolazione che ne porta il maggior carico è quella più povera perché
i poveri consumano tutto a differenza dei ricchi che una parte la accantonano
sotto forma di risparmio. Oggi
le famiglie italiane che consumano tutto, e quindi pagano le imposte indirette
su ogni singolo euro incamerato, sono 41 su 100. Una
situazione di disparità che potrebbe essere compensata con una seria imposta
patrimoniale applicata a depositi bancari, investimenti finanziari,
immobili. Oggi, invece, le imposte sul patrimonio arrivano appena a 36
miliardi, il 2% del Pil. Considerato che il patrimonio privato italiano ammonta
a 10.000 miliardi di euro, si può dire che il livello di tassazione del
patrimonio è dello 0,36%.
Altrettanto grave è stata la perdita di
progressività delle imposte dirette attraverso tre strategie: la riduzione
degli scaglioni, la rimodulazione delle aliquote e l’aumento dei redditi non
soggetti a cumulo. Tant’è
che se nel 1974 l’imposta sulle persone fisiche prevedeva 32 scaglioni, con
l’ultima al 72% su redditi oltre 3 milioni di euro rivalutati al 2018,
oggi abbiamo solo 5 scaglioni con l’ultima al 43% oltre 75.000 euro. Nel
contempo si è fissata l’aliquota più bassa al 23% sotto i 15.000 euro, mentre
nel 1974 sullo stesso ammontare rivalutato l’aliquota era del 10%. L’effetto di
questa manovra a tenaglia è stato un inasprimento della pressione fiscale sui
redditi fino a 500.000 euro e una riduzione su quelli che vanno oltre. Situazione resa ancora più iniqua
dall’esclusione dall’obbligo di cumulo ai fini IRPEF dei redditi derivanti da
investimenti produttivi e finanziari, depositi bancari, affitti.
La conclusione
del rapporto è che sommando il mancato
gettito dovuto alla ridotta progressività e al mancato cumulo, per il solo 2016
otteniamo una perdita per lo stato di 8,3 miliardi di euro, pari
al 4,5% del gettito IRPEF. Applicando lo stesso tipo di calcolo agli ultimi 34
anni, il mancato gettito complessivo dal 1983 al 2017 può essere stimato
in 146 miliardi di euro. Un ammanco che lo stato ha colmato con altro debito,
che in virtù degli interessi composti equivale a 295 miliardi di euro, pari al
13% di tutto il debito accumulato.
E sullo
sfondo di tutto questo l’evasione fiscale che secondo gli ultimi dati
disponibili ammonta a 110 miliardi di euro, il 7% del Pil. Se applichiamo
questa percentuale al Pil di ogni anno, dal 1980 al 2017, otteniamo
l’astronomica cifra di 3.070 miliardi di euro pari al 135% del debito
accumulato al dicembre 2017. Nonostante
tutto questo, il governo giallo verde ci propone come soluzione la flat tax, un
altro regalo per i ricchi che non farà altro che aggravare ulteriormente le
disuguaglianze e accrescere il debito. E’ davvero questo
l’interesse del popolo?
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