mercoledì 5 dicembre 2018

Le iniquità fiscali che ci indebitano - Francesco Gesualdi


Solitamente si affronta il tema del debito pubblico solo dalla parte delle uscite. Lo si fa quando si analizza come si è formato e lo si fa quando si tenta di capire come uscirne. Apparentemente si tratta di un approccio spontaneo senza secondi fini, ma per i risultati ideologici che produce è legittimo pensare che  faccia parte di una strategia studiata a tavolino. Perché, non dimentichiamolo mai, il debito non è una questione ragionieristica, ma uno strumento politico che a seconda di come è gestito può favorire l’occupazione, l’equità, lo sviluppo sociale o al contrario  la disoccupazione, le disuguaglianze, la disgregazione. In Italia, pur con molte sfaccettature, si sono avuti ambedue i corsi politici: il primo dal 1950 al 1980, il secondo dal 1981 ad oggi.
Il decennio più nefasto è stato quello degli anni ottanta, quando si pretese di continuare a fare debito per finalità politico-sociali senza tenere conto che nel frattempo si era messo lo stato alla totale mercé delle banche perché lo si era privato di autonomia monetaria. Il risultato fu un sovraccarico di spesa per interessi che ci ha infilato nella trappola mortale di chi continua ad indebitarsi non per garantire migliori condizioni di vita ai cittadini, ma per pagare gli interessi stessi. La sintesi è che su un totale di 2575 miliardi di interessi pagati dal 1980 al 2017, ben 1920, il 74%, sono stati pagati a debito. Alla faccia di chi dice che ci siamo indebitati perché abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità.
E’ ormai certo che il nostro debito è dovuto all’incapacità di tenere il passo con gli interessi e se da una parte servirebbe un’analisi per capire quanto hanno pesato i tassi esorbitanti che hanno dominato fino a inizio millennio, dall’altra bisogna chiedersi se lo stato ha fatto tutto il possibile per incassare tutto ciò che gli competeva per servire almeno gli interessi sul debito. In altre parole bisogna smettere di occuparci solo di uscite e cominciare a mettere gli occhi anche sulle entrate. Cosa che ha fatto il CADTM, un organismo di recente costituzione nato con lo scopo di analizzare il debito e individuare eventuali partite illegittime. Dal rapporto intitolato “Fisco & debito”, si apprende che negli ultimi decenni lo stato ha aumentato costantemente la pressione fiscale,facendola passare dal 31,4 del Pil nel 1981 al 42,9 nel 2016. Ma si è trattato di una crescita distorta che ha avvantaggiato le fasce ricche a scapito di quelle medio-basse. Lo dimostrano in particolar modo  due aspetti: l’espandersi delle imposte indirette e la perdita di progressività delle imposte dirette.

Le imposte indirette sono passate dall’8,4% del Pil nel 1981 al 14,4% nel 2016, per effetto soprattutto dell’aumento dell’IVA ordinaria che è passata da 18 al 22%.  La conclusione è che oggi i due tipi di  imposte, quelle  dirette e quelle indirette, hanno pressoché lo stesso peso, ma la parte di popolazione che ne porta il maggior carico è quella più povera perché i poveri consumano tutto a differenza dei ricchi che una parte la accantonano sotto forma di risparmio. Oggi le famiglie italiane che consumano tutto, e quindi pagano le imposte indirette su ogni singolo euro incamerato, sono 41 su 100. Una situazione di disparità che potrebbe essere compensata con una seria imposta patrimoniale applicata a depositi bancari,  investimenti  finanziari, immobili. Oggi, invece, le imposte sul patrimonio arrivano appena a 36 miliardi, il 2% del Pil. Considerato che il patrimonio privato italiano ammonta a 10.000 miliardi di euro, si può dire che il livello di tassazione del patrimonio è dello 0,36%.
Altrettanto grave è stata la perdita di progressività delle imposte dirette attraverso tre strategie: la riduzione degli scaglioni, la rimodulazione delle aliquote e l’aumento dei redditi non soggetti a cumulo. Tant’è che se nel 1974 l’imposta sulle persone fisiche prevedeva 32 scaglioni, con l’ultima al 72% su redditi  oltre 3 milioni di euro rivalutati al 2018, oggi abbiamo solo 5 scaglioni con l’ultima al 43% oltre 75.000 euro. Nel contempo si è fissata l’aliquota più bassa al 23% sotto i 15.000 euro, mentre nel 1974 sullo stesso ammontare rivalutato l’aliquota era del 10%. L’effetto di questa manovra a tenaglia è stato un inasprimento della pressione fiscale sui redditi fino a 500.000 euro e una riduzione su quelli che vanno oltre. Situazione resa ancora più iniqua dall’esclusione dall’obbligo di cumulo ai fini IRPEF dei redditi derivanti da investimenti produttivi e finanziari, depositi bancari, affitti. 
La conclusione del rapporto è che sommando il mancato gettito dovuto alla ridotta progressività e al mancato cumulo, per il solo 2016 otteniamo una  perdita per lo stato di 8,3 miliardi di euro, pari al 4,5% del gettito IRPEF. Applicando lo stesso tipo di calcolo agli ultimi 34 anni,  il mancato gettito complessivo dal 1983 al 2017 può essere stimato in 146 miliardi di euro. Un ammanco che lo stato ha colmato con altro debito, che in virtù degli interessi composti equivale a 295 miliardi di euro, pari al 13% di tutto il debito accumulato.
E sullo sfondo di tutto questo l’evasione fiscale che secondo gli ultimi dati disponibili ammonta a 110 miliardi di euro, il 7% del Pil. Se applichiamo questa percentuale al Pil di ogni anno, dal 1980 al 2017, otteniamo l’astronomica cifra di 3.070 miliardi di euro pari al 135% del debito accumulato al dicembre 2017. Nonostante tutto questo, il governo giallo verde ci propone come soluzione la flat tax, un altro regalo per i ricchi che non farà altro che aggravare ulteriormente le disuguaglianze e accrescere il debito. E’ davvero questo l’interesse del popolo?

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