1. Un giovane che si presume afghano, probabilmente
un minore non accompagnato (secondo alcuni media avrebbe poco più di vent’anni,
ndr), è morto nel porto di Ancona dopo
essere stato travolto, dopo lo sbarco, dalle ruote del tir sotto cui si era
aggrappato per entrare in territorio italiano. Come riferisce il Corriere della sera, ”È
accaduto nel pomeriggio del 25 dicembre tra via Flaminia e via Conca nella zona
di Torrette ad Ancona dove il mezzo pesante è transitato dopo lo sbarco al porto.
Il ragazzo, che non aveva documenti addosso, è stato soccorso dai sanitari del
118 e trasportato in ospedale dove però è deceduto”.
Da anni la frontiera adriatica, quella ubicata nelle
aree portuali di Venezia, Ancona, Bari e Brindisi fa vittime, giovani
e giovanissimi che cercano di entrare in Italia senza alcuna possibilità di un
passaggio legale, provenienti in genere dalla Grecia (Patrasso o
Igoumenitsa), dove già sono stati esposti ad abusi alle frontiere, e a lunghe
permanenze in centri di accoglienza sovraffollati. Si tratta di afghani, curdi, iracheni, pakistani,
punjabi, siriani, che hanno superato i blocchi di frontiera, praticati dalla
Turchia con l’aiuto finanziario e politico dell’Unione Europea, e
riescono ad imbarcarsi sui traghetti che salpano verso l’Italia.
Spesso,
all’arrivo nei porti italiani, questi migranti, in
molti casi minori stranieri non accompagnati, che si nascondono sotto o
all’interno dei grandi Tir imbarcati sui traghetti , provenienti dai porti
esteri dell’Adriatico, e in qualche caso dalla Turchia, sono scoperti dalla polizia e riconsegnati al
comandante della nave per il respingimento immediato. Che
avviene con la stessa nave con la quale sono arrivati, verso il porto di
partenza. Succede da anni, con diversi governi, ma sulla base delle stesse
prassi di polizia.
Rimane
ancora in vigore l’accordo di riammissione tra Italia e Grecia,
stipulato nel 1999 ai tempi del governo D’Alema, che prevede
formalità semplificate per il riconoscimento, l’attribuzione dell’età ( in
violazione della legge n.47 del 2018) e il respingimento immediato “con affido
al comandante”.
Di fatto veri e propri respingimenti collettivi per
cui l’Italia è stata già condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo
nel 2014, con la sentenza pronunciata nel caso Sharifi, un precedente importante che però negli ultimi anni
non è servito ad impedire che le autorità di polizia intensificassero gli
sforzi per identificare i migranti allo sbarco, subito dopo l’arrivo dei
traghetti nei porti adriatici, e preparare il loro respingimento
immediato. Per molti di coloro che riescono a
proseguire il viaggio, il sogno Europa finisce a Ventimiglia, o in territorio
francese. Quando vengono bloccati finiscono in Hotspot come quello di Taranto o nei
pochi CPR ( Centri per i rimpatri) ma non sono rimpatriati quasi mai e
rimangono consegnati ad una condizione definitiva di irregolarità, anche a
fronte dei più recenti orientamenti delle Commissioni territoriali e della
abolizione della protezione umanitaria.
2. Malgrado
l’aumento dei controlli, anche attraverso sonde termiche, e degli sforzi
repressivi delle forze di polizia, le persone in fuga dalla Grecia, dove
subiscono condizioni sempre più misere, continuano ad arrivare nei porti dell’Adriatico,
anche a rischio di perdere la vita sotto le ruote del Tir al quale hanno
affidato la loro speranza di fuga. Chi fallisce una volta e viene riportato
indietro, ci
riprova alla prima occasione possibile.
Si tratta di poche migliaia di persone che, in base
alla situazione nei paesi dai quali provengono, avrebbero nella quasi totalità
diritto al riconoscimento di uno status di protezione internazionale (asilo o protezione
sussidiaria), non sono certo “migranti economici”, nuova categoria inventata ad
arte per escludere una effettiva possibilità di accesso all’esercizio del
diritto alla protezione. Eppure questi
esseri umani, meglio chiamarli così, piuttosto che migranti, anche minori non accompagnati, vengono sistematicamente respinti
e sono costretti a ricorrere a sistemi sempre più pericolosi per entrare in
Italia. Molti di loro non vogliono neppure restare nel nostro paese, e
per questo non presentano una domanda di asilo, cercando di proseguire con ogni
mezzo, dopo lo sbarco, il loro viaggio verso il Nord Europa. Ma quando vengono
bloccati sono trattati come “clandestini da espellere”. Oggi in tutta Europa si moltiplicano le “storie di
resistenza” alle espulsioni in Afghanistan.
3. La Corte di giustizia dell’Unione Europea,
in una decisione risalente a diversi anni fa, fornisce la interpretazione della
direttiva 2004/83/CE sulle qualifiche di protezione internazionale, escludendo
che ricada sui richiedenti l’onere della prova circa la situazione di violenza
generalizzata nella regione di provenienza. La giurisprudenza europea afferma
che non servono prove individuali per dimostrare l’esistenza di una minaccia
individuale nei confronti del richiedente che chiede protezione ma è
sufficiente valutare il grado di violenza indiscriminata nel paese dal quale si
fugge (così Corte di giustizia europea sentenza depositata il 17
febbraio 2009). La Corte di giustizia ha specificato che
l’art. 15 della direttiva 83/2004 “sugli standard minimi
per il riconoscimento della qualifica di rifugiato e di protetto sussidiario”,
in merito al concetto di “danno grave”, non presuppone che la minaccia sia
individuale ma parla più in generale di violenza indiscriminata. La Grand Chambre della Corte di Lussemburgo, in
merito alla questione posta dal giudice olandese, ha stabilito che l’esistenza
di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona non è subordinata
alla condizione che quest’ultimo fornisca una prova concreta della minaccia
personale. Per provare tale minaccia o tale rischio di incorrere in un danno
grave è sufficiente determinare il grado di violenza indiscriminata che
caratterizza un conflitto anche interno in corso, avvalendosi
delle valutazioni delle autorità nazionali. La Corte di giustizia
ribadisce dunque che, per riconoscere la protezione sussidiaria, è sufficiente
valutare che il conflitto interno o generalizzato nel Paese di origine del
richiedente, raggiunga livelli di violenza tali da ritenere che il
ritorno in patria, per la sola presenza sul territorio, possa comportare un
rischio effettivo di subire minaccia. Secondo la Corte di Giustizia, la
minaccia può riguardare «danni contro civili, a prescindere dalla loro
identità, qualora il grado di violenza indiscriminata che caratterizza il
conflitto in corso […] raggiunga un livello così elevato che sussistono fondati
motivi di ritenere che un civile rientrato nel Paese in questione o, se del
caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul
territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la minaccia grave
di cui all’art. 15, lett. c), della Direttiva».
La Corte di cassazione ha fatto più volte applicazione
di tali principiribadendo che il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui all’art
14, lettera c), non è subordinato alla prova che il richiedente sia interessato
in modo specifico dalla minaccia grave alla vita o alla persona in ragione di
elementi peculiari della sua situazione personale. Non è necessario, cioè, che
il richiedente asilo «rappresenti una condizione caratterizzata da una
personale e diretta esposizione al rischio quando è possibile evincere dalla
situazione generale del paese che la violenza è generalizzata e non
controllata».
Riguardo al
caso dei ricorrenti del procedimento Sharifi contro Italia e Grecia, la Corte europea di
Strasburgo aveva chiesto al Governo italiano di provare, sulla scorta di quanto
dichiarato dai ricorrenti medesimi, che il respingimento e l’eventuale
“espulsione” in Afghanistan non li avrebbe esposti al rischio di subire
trattamenti inumani o degradanti. Le argomentazioni della difesa dello stato
non avevano evitato la condanna dell’Italia.
Adesso, dopo
anni da quella decisione, questo tema ritorna di attualità. Bisogna impedire
che una volta formata una lista di “paesi terzi sicuri” come ormai sarà
possibile con i prossimi decreti attuativi del decreto legge 133 del 4 ottobre 2018, adesso
convertito nella legge (Salvini) n.132 del 1° dicembre 2018, con
la probabile individuazione di aree interne sicure, questa pratica dei respingimenti sommari alle
frontiere portuali dell’Adriatico possa intensificarsi ulteriormente. Con il
rischio di innescare una serie di respingimenti “a catena”. Magari verso
l’Afghanistan, paese che qualcuno si accinge a ritenere “sicuro”, almeno a
Kabul, dove tuttavia si muore anche per andare a scuola.
Il Governo
italiano non può sostenere ancora una volta, come tentò nel caso Sharifi
davanti la Corte di Strasburgo, con affermazioni generiche e prive di riscontri
obiettivi, che in Afghanistan la situazione sarebbe ritornata, almeno in
determinate regioni, sufficientemente “tranquilla”, e tale da rendere “sicuri
“i rimpatri e respingimenti, che la Grecia, a sua volta potrebbe
riprendere, senza tenere conto della condanna subita nel caso
Sharifi. La futura “lista di paesi terzi sicuri” che
dovrebbe essere introdotta in Italia entro qualche mese, per decreto
ministeriale, risulta in forte contrasto con la portata più ampia dell’art. 10
della Costituzione italiana. Occorre prepararsi per sollevare una valanga di
ricorsi non appena venga approvato il relativo decreto, per impedire che possa
fare altre vittime, come quelle che si sono
registrate in altri paesi europei che ne fanno uso. Qualcuno infatti dopo
l’espulsione in Afghanistan si è impiccato. E molti degli espulsi sono stati
uccisi.
4. Tutti
coloro che sono scoperti a bordo dei traghetti provenienti dalla Grecia o sui
Tir subito dopo lo sbarco, e riconsegnati dalle autorità italiane ai comandanti
delle navi, vengono rinchiusi all’interno di spazi angusti con possibilità
molto limitata di accedere ai servizi igienici. La cabine in cui i migranti
vengono detenuti sono estese pochi metri quadrati e sono sovente vicine al vano
motori dove si raggiungono temperature assai elevate. Al loro interno sono
rinchiuse diverse persone tra le quali ci sono spesso anche minori, donne e
bambini. Il viaggio da Venezia alla Grecia ha la durata di 33 ore, quello da
Ancona di 22 e quello da Bari di 17. Durante tutto il periodo di trattenimento,
che va dal momento del rintraccio dei migranti sulla banchina o nel traghetto,
fino al loro arrivo in Grecia, alla totalità dei migranti è negato l’accesso
alla assistenza legale, la possibilità di comunicare con un interprete, la
benché minima informazione sui propri diritti, e pertanto anche la possibilità
di avanzare una richiesta di asilo politico. Non è consegnata loro alcuna
informativa in merito alle procedure cui vengono sottoposti, tanto meno viene
notificato loro un provvedimento di respingimento formale, scritto, motivato e
tradotto avverso il quale poter proporre ricorso. Spesso dei respingimenti non rimane neppure traccia
nei registri della polizia, come prescriverebbero invece la normativa
italiana e il diritto internazionale.
Per coloro
che non hanno voce, anche quando sopravvivono al viaggio e al respingimento sui
traghetti, chiediamo che l’Unione Europea modifichi i suoi accordi con la
Turchia in modo di garantire canali legali di ingresso. Chiediamo che si dia
completa attuazione agli impegni di rilocazione in diversi paesi europei
assunti con l’Agenda europea sulle migrazioni del 13 maggio
2015, e poi disattesi. Occorre concedere poi la
possibilità di identificazione e di accesso alla procedura di protezione
internazionale, sia nei porti greci che in quelli italiani, ponendo fine alla
pratica dei respingimenti collettivi sulla base degli accordi bilaterali vigenti tra Italia e Grecia, che vanno
immediatamente modificati, in modo da impedire i respingimenti collettivi
vietati dal Quarto protocollo allegato alla CEDU) e i respingimenti di minori,
vietati dall’art. 19 del vigente Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998.
Di fronte
alla gravità e al ripetersi delle procedure di riammissione dai porti italiani
verso la Grecia è evidente che le vittime di queste prassi “informali” ben
difficilmente possono fare valere con ricorsi individuali i loro diritti
fondamentali, dal diritto alla vita e alla salute, ai diritti di comprensione
linguistica e di protezione internazionale. La rapidità delle procedure di
allontanamento forzato dalle aree portuali di Ancona e di altri porti
dell’Adriatico, riesce a impedire persino l’intervento delle organizzazioni
umanitarie” convenzionate” con le prefetture locali.
Dopo il respingimento a Patrasso le persone allontanate dalle
frontiere marittime dell’Adriatico, comprese donne e minori, vengono “sistemati” in container ubicati all’interno della zona portuale, o sono
trasferite in centri di detenzione, e le possibilità di fare
richiesta di asilo o di presentare un ricorso individuale sono nulle.
5. Va
ricordato che, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani,
sono espulsioni collettive tutte quelle misure che obbligano gli stranieri “in
quanto gruppo” a lasciare un Paese. Se il divieto vale per le espulsioni
disposte con formale provvedimento amministrativo, non può non valere parimenti
quando l’effetto sia raggiunto attraverso un mero comportamento di fatto,
attuato dalle autorità statali.
Occorre
invece promuovere i canali umanitari ed
evacuare urgentemente verso tutti i paesi europei che si dichiarino disponibili
decine di migliaia di persone intrappolate in Grecia, oltre che per effetto degli accordi, ammesso che si possano definire tali,tra
Unione Europea e Turchia, da gravi lacune nel sistema nazionale greco
dell’asilo.
Queste
richieste si inquadrano nell’ambito di una revisione sostanziale del vigente
Regolamento Dublino, anche oltre le modeste aperture apportate dalla Proposta di modifica approvata quest’anno dal
Parlamento europeo. Non si può prevedere quando questa
revisione del Regolamento Dublino potrà realizzarsi, probabilmente mai più,
considerando le posizioni dei paesi europei “sovranisti” (seppure in forte
contrasto tra loro proprio su questo punto) e le incombenti elezioni europee, in occasione
delle quali ciascun partito populista e nazionalista darà sfogo alle pulsioni
più basse del corpo elettorale. Rimane anche in questo caso da sostenere
l’impegno collettivo per organizzare
sistemi di accoglienza transitoria autogestita, possibilità concrete di
mobilità verso altri paesi europei, e strumenti di difesa legale che possano
essere adottati nell’immediatezza della scoperta di migranti irregolari a bordo
dei Tir che sbarcano dai traghetti provenienti dalla Grecia o a bordo degli
stessi traghetti, prima dello sbarco.
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