Finalmente si può tornare a respirare a Torino. Come il föhn che ha
soffiato dalle montagne per tutto il giorno, l’immenso corteo che ha
attraversato il centro ha spazzato via l’aria stantia che ristagnava
sulla città da quasi un mese, dal 10 novembre delle “madamine”.
Ristabilendo, con la forza dei fatti, pesi e misure. E insieme ragioni e Ragione.
Lo sapevamo che avremmo dovuto essere davvero in tanti, tantissimi, più di
quanti mai erano scesi in piazza dietro le bandiere No TAV, perché i maestri
della post-verità – quelli che non stanno nemmeno a contare perché i numeri
buoni li stabiliscono loro – avrebbero fatto di tutto per dire che
eravamo di meno. Magari numerosi, perché no?, migliaia, certo,
ma meno di quelli che loro stessi un mese fa avevano convocato
in Piazza Castello, con un gigantesco dispiegamento di mezzi mediatici. Era la
condizione per non lasciar svanire la spinta propulsiva di quell’evento che
avevano continuato a gonfiare e usare per settimane al servizio della lobby
degli affari con i soldi degli altri (per dirla con Luciano
Gallino). Avevano già in testa le cifre “giuste”: 20.000 per Repubblica, 15.000
per La Stampa, quelle che infatti a metà pomeriggio avevano anticipato sui
rispettivi siti. Esattamente la metà di quelle che con simmetrica manipolazione
– moltiplicando allora, oggi dividendo – avevano proclamato per la piazza
“buona” del 10 novembre. Poi però la forza dei fatti si è imposta, per una
volta almeno, sulle tecniche dello storytelling, per la
perentorietà delle immagini, per la fisica dei solidi che permetteva a
chiunque, col solo sguardo, grazie alla unità del contesto spaziale, di
prendere le misure e comparare: la Piazza Castello che si andava riempiendo
quando ancora Piazza Statuto stava finendo di svuotarsi diceva che si doveva
essere almeno il doppio degli “altri”. E se di quelli si era detto 30-40.000
mila, di questi non si sarebbe dovuto andare sotto i 70.000 a voler essere
onesti (magari 50.000 per restare, come sempre, avari: e così concluderà, con
rammarico, Repubblica).
Ma non è solo questione di numeri (questa riguarda solo la propaganda “di
sistema”). E’ soprattutto questione di contenuti. E di Qualità. La distanza
abissale tra le due piazze Castello – quella delle “madamine” impreparate, per
loro ammissione, e quella delle “muntagnine informate”, come recitava uno
striscione – era rivelata dalla loro stessa composizione biografica, dai visi,
gli abbigliamenti, il colore dei capelli, i reciproci lessici, gli sguardi e le
parole con cui comunicavano le rispettive motivazioni (o l’assenza di esse), il
rapporto con la “cosa” che stavano facendo, il sedimento di storie individuali
e collettive… Si trattava davvero di due “mondi”. Di “due città”, per
riprendere un tema ricorrente in letteratura.
Ora, a un mese dall’evento, posato il polverone mediatico e reso agibile il
confronto tra le due manifestazioni, possiamo ben dirlo (dare sistematicità a
un’intuizione già di allora): quella, tanto celebrata, del 10 di novembre era
una “piazza vecchia”. Vecchia anagraficamente (età media sessant’anni), ma
anche e soprattutto socialmente, e culturalmente. Una piazza d’Ançien régime,
aggregato di “ceti” obsoleti nato sull’asse tra il Notaio Ganelli e il
banchiere Giubergia, triangolando con i vecchi amministratori politici
licenziati nell’ultima tornata elettorale e con una costellazione di
Confindustrie piemontesi orfane del precedente sovrano alla cui ombra erano
vissute e dopo il cui esodo americano non sanno che pesci pigliare. Ceti nel
senso storico del termine – il tedesco Stände: Ordini, Ranghi,
Corporazioni –, identificanti l’interesse generale con la propria sopravvivenza
un po’ parassitaria, incapaci di immaginare un cosmo diverso da quello che ne
garantisce i privilegi di status e di censo. Quelli che si erano
auto-attribuiti il ruolo di “rappresentare il futuro” (il “futuro di Torino”
era lo slogan dominante) ne rappresentavano ahimé – tanto drammaticamente
quanto plasticamente – il passato: era il “sistema Torino”, il conglomerato
d’interessi finanziari, immobiliari e politici che aveva dominato la città per
lo meno dagli anni ’90 in poi, e ne aveva gestito il declino, quello che si era
presentato in quella piazza sabauda. I falliti della transizione della città
oltre il proprio precedente profilo di metropoli di produzione fordista: notai
e liberi professionisti arricchitisi grazie ai flussi di risorse dei grandi
eventi, si chiamassero Olimpiadi invernali o 150esimo dell’Unità d’Italia,
passante ferroviario o ristrutturazione di Parco Dora; commercianti ed
esercenti boccheggianti per il calo dei consumi in una città impoverita e
attaccati al respiratore automatico di flussi turistici rispetto ai quali non
fanno nulla per offrire servizi adeguati; galoppini di partito o ex funzionari
piazzati dalla vecchia amministrazione in centinaia e centinaia di Consigli
d’amministrazione di partecipate pubbliche a percepirne i gettoni di presenza;
imprenditori smarriti per l’assenza di prospettive nei loro settori, dopo aver
lesinato oltre il lecito sugli investimenti in Ricerca & Sviluppo e appesi
alla speranza di qualche refolo di risorse pubbliche connesse all’indotto di
un’Opera inutile; ex burocrati pubblici e privati timorosi del taglio alle
proprie pensioni più o meno d’oro; insieme alla folla atomizzata dei lettori
affezionati (sempre meno, ma ancora ci sono) dei giornaloni nazionali e delle
loro appendici cittadine, convinti davvero dal loro storytelling, dagli slogan
semplificanti, dalle mezze o finte verità.
Dall’altra la piazza mobile dell’8 dicembre. Una piazza insieme “storica” e
“nuova”. Storica perché aggregata intorno alla spina dorsale valsusina, con i
suoi oltre vent’anni di lotta tenace, partecipata, intelligente. Ma insieme
“nuova” perché non poteva non colpire la presenza imponente, impressionante, di
giovani, di ragazze e ragazzi ventenni, fino a ieri invisibili sulla scena
pubblica, e ora emersi alla superficie con una carica di energia pulita,
festosi e determinati a prendersi – loro sì – il proprio futuro, senza rancore,
senza aggressività (l’atteggiamento non solo pacifico ma sereno di quel
serpentone era uno dei dati che più colpivano), senza semplificazioni. E se la
Val Susa rappresentava il serbatoio di esperienza e di saperi (nei loro
vent’anni di resistenza quei “muntagnini” avevano imparato quasi tutto di
quello che occorre sapere sul trasporto ferroviario, i volumi di traffico, le
rottura di carico, i sistemi idrogeologici, la produzione di CO2, ecc.), Torino
portava la massa, anch’essa enorme, emergente da una società riflessiva, che
non si ferma agli slogans, che ragiona e fa di conto, e si preoccupa dello
spreco del denaro pubblico come della devastazione dei territori. Portava anche
la memoria dei propri tempi migliori, nelle biografie di tanti militanti di base
della vecchia sinistra rimasti orfani elettorali, operai ed ex operai con
ancora dentro l’orgoglio di produttori, indignati dallo spirito da questuanti
dell’imprenditoria cittadina, artigiani, commercianti della periferia,
lavoratori precari non coperti dall’assicurazione sociale delle fedeltà
politiche, insegnanti imprigionati tra le sbarre della “Buona scuola”,
intellettuali non ridotti a intrattenitori di corte, gente abituata a farsi
un’opinione propria e a fare a sua volta il fake checking ai fake
checking di Paolo Griseri.
Quel “patto generazionale” – quella linea longitudinale di continuità tra
passato, presente e futuro – era d’altra parte annunciato nello stesso
striscione di apertura del corteo, che diceva appunto: «C’eravamo, ci siamo, ci
saremo! Ora e sempre No TAV». Così come l’intreccio tra popolo e istituzioni
che rappresenta uno dei tratti più importanti e positivi dell’esperienza in
Valle era reso visibile dalla folta delegazione di sindaci in fascia tricolore
che lo seguivano. E poi le “partigiane della terra e del futuro”, con in testa
un cappello di carta azzurro e su scritto “meglio montagnina che madamin”; i
ragazzi che sfilavano dietro la scritta “Il vostro progresso è nato
vecchio, il futuro è nostro”; il cartello con i sei SI (SI a chi non è
indifferente; SI a chi è solidale; SI a chi ha il coraggio di lottare; SI a chi
non si fa calpestare; SI a chi non si rassegna ai soprusi; SI al movimento NO
TAV).
Erano, letti tutti insieme, i termini di una grammatica e di una sintassi
che parla di qualcosa sicuramente diverso, rispetto al panorama degradato del
nostro presente pubblico (quello appunto della piazza del 10 novembre, fatto di
tanti “è così perché è così”, “si deve fare perché si deve fare”, “i miei
studenti [assenti] vogliono andare in vacanza a Barcellona”, “il TAV serve a
scambiarsi le idee”, ecc.). Un “ordine del discorso” che parla, finalmente, di
autonomia di pensiero, attenzione alla complessità, visione lunga nel tempo e
ampia nello spazio, non ripiegata sugli slogan di un esistente senza
prospettiva ma testardamente impegnata nella ricerca di una via di fuga da
esso: di un’uscita in avanti.
Sbaglia, sbaglia di grosso, Ezio Mauro quando comparando, e mettendo sulla
stessa bilancia, la piazza romana di Salvini e quella torinese dei No TAV ne
deduce il segno di una contraddizione interna al governo, come se quelle entità
collettive umane contenute nelle rispettive piazze fossero senza residui
riducibili a due soggetti politici e addirittura a due componenti di
governo. È un errore – che può rivelarsi fatale per chi intende offrire ai
propri lettori un qualche senso di ciò che accade – perché se la piazza romana
può, a tutti gli effetti, essere assimilata a una “piazza di partito”, quella
torinese no. Sta agli antipodi. È una piazza senza padroni né sponsor
politici, e l’ha detto in tutti i modi, in tutti i linguaggi comprensibili
purché ci siano orecchie disposte ad ascoltare. Non era e non sarà mai, quella,
la piazza di qualcuno. Men che meno di una qualche forza “di governo” (che non
ci siano governi amici l’hanno ripetuto da sempre, e anche ieri!). Non certo
dei 5Stelle bersagliati, nel corteo da molti slogans e stigmatizzati dagli
interventi dal palco. Pensare di ridurre a questione di schieramenti politici
una resistenza sociale di territorio di lunga durata e una secessione culturale
di grandi dimensioni è un segno di cecità inquietante, comprensibile in un
politico quasi fuori-corso come Sergio Chiamparino, inatteso in un
intellettuale come Ezio Mauro.
D’ora in poi, qui, come si suol dire, nulla rimarrà come prima. Perché alla
fine i profili opposti delle “due Torino” sono usciti allo scoperto, si sono
rivelati e contrapposti. Dalla tematica delle “due città” è attraversata nel
profondo la storia culturale torinese. Ne parlò negli anni Venti Carlo Levi,
sottolineando la perenne tensione tra le “due Torino” separate tra loro dal
confine circolare delle “barriere”: la Torino burocratica-amministrativa che
abitava il Centro, saldamente occupato da una borghesia medio-alto cresciuta
all’ombra della Corte e, intorno, la Torino della grande periferia operaia,
carsicamente ribelle, che periodicamente tentava l’assalto alla prima premendo
sui confini. Ne ha parlato anche Norberto Bobbio, contrapponendo una “Torino di
Gozzano” alla “Torino di Gobetti” («Di vecchia e agiata borghesia il primo, che
vive in città ma ha la villa avita in campagna – scriveva Bobbio –; il secondo
di piccola borghesia da poco inurbata, e i genitori che lavorano diciotto ore
al giorno per condurre un modesto negozio»). «La Torino di Gozzano – scriveva
allora Bobbio – è quella gianduiesca [che non amo, dice Bobbio] e quella ancora
più detestabile delle ‘golose’*». È la città «che io rammento come un
vizio da cui anch’io, ragazzo di famiglia bennata, ho dovuto redimermi» –
proprio così dice Bobbio: redimermi –, ma ci sono voluti gli anni terribili
della Resistenza. All’opposto «la Torino di Gobetti è la città dell’occupazione
delle fabbriche, dei primi gruppi di opposizione al fascismo, aperto a una
cultura militante, tanto sicura di sé da apparire spavalda, che guarda
all’avvenire tempestoso, sfidando il tiranno che sta per domare con la frusta
del domatore un paese di servi». Augusto Monti – a sua volta Maestro tanto di
Bobbio quanto di Gobetti – parlò di una Torino (anzi di un Piemonte) «delle
Vette» e di una «della Piana»: una rigorosa e giansenista, creativa e
intransigente come è chi sceglie la strada difficile della scalata e della
responsabilità di fronte ai problemi complessi, l’altra transigente e facilona,
molle e disponibile, facile all’ipocrisia e al mercimonio… Lui aveva scelto «le
Vette» – e l’aveva pagato –, ma conosceva benissimo il detto, molto torinese
«Loda le Vette, ma tente la Piana». Tenersi la Piana, come mostra
appunto di praticare con autocompiacimento l’establishment
economico-finanziario e la sua protesi politico-amministrativa, oggi.
Oggi, quando neppure le tracce delle fabbriche e delle loro occupazioni, né
quelle delle antiche barriere operaie resistono all’ingiuria del tempo; quando
delle Vette scelte dai vecchi combattenti del Partito d’Azione Torinese non
rimane più traccia neppure degli atteggiamenti dei loro storici, tuttavia
quella vecchia frattura che attraversa la città – e dall’esito del cui
conflitto dinamico è dipesa la depressione o la creatività del suo tessuto
sociale e culturale – continua a lavorare sotto traccia. E l’8 dicembre ha
fatto segnare un buon punto a favore della Torino delle Vette (o, quantomeno,
della Montagna).
* Precisazione letteraria:
Ecco alcuni versi della poesia Le Golose di Guido Gozzano, a cui si riferisce Bobbio.
Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.
Signore e signorine-
le dita senza guanto-
scelgon la pasta. Quanto
ritornano bambine!
Perché niun le veda,
volgon le spalle, in fretta,
sollevan la veletta
divorano la preda. […]
Ecco alcuni versi della poesia Le Golose di Guido Gozzano, a cui si riferisce Bobbio.
Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.
Signore e signorine-
le dita senza guanto-
scelgon la pasta. Quanto
ritornano bambine!
Perché niun le veda,
volgon le spalle, in fretta,
sollevan la veletta
divorano la preda. […]
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