Quando le cassandre lanciano l’allarme – sta tornando
il fascismo! – con solerzia i benpensanti rispondono che no, è impossibile: il
mondo è cambiato, la storia non si ripete. E’ vero. Ma a questi ultimi mi piace
ricordare un pensiero di Schopenhauer, il vecchio filosofo che col suo cosmico
pessimismo, nel XIX secolo aveva capito molte cose del XX e del XXI: Eadem,
sed ealiter, lo stesso ma diverso.
Niente stivali, fez né pance nascoste da divise
tronfie ma giacca e cravatta, felpe con l’indicazione geografica scritta sul
petto; sfoggio di bandiere nazionali ma senza fasci, svastiche o altri segni
del sovranismo più brutale; prevaricazione verbale attraverso slogan di facile
consenso, niente manganelli né olio di ricino. Un fascismo felpato che tuttavia
punta a cambiare le regole liberali.
Viktor Orbàn lo ha chiamato “democrazia illiberale”.
Ancora più curioso e senza senso è stato il modo col quale Alessandro Di
Battista, il leader di riserva dei Cinque Stelle, ha definito suo padre: un
“fascista liberale”, cioè un reazionario dalle larghe vedute, almeno secondo il
figlio.
Il riferimento più ovvio oggi sono l’Ungheria e la
Polonia. Ma i segni più evidenti d’illiberalità stanno venendo dagli Stati
Uniti. Da Donald Trump, è scontato; ma soprattutto dal partito repubblicano nel
quale i comportamenti antidemocratici si moltiplicano. Un presidente si può
cambiare ma se il partito conservatore, architrave dell’equilibrio e
dell’alternanza democratica, si trasforma in forza politica reazionaria, il
problema si fa serio.
Da tempo i democratici vincono il voto popolare (più
8,6% alle ultime midterm) ma spesso non hanno la maggioranza nelle assemblee
legislative. Nel Winsconsin, per esempio, il mese scorso i democratici hanno
preso il 54% dei voti ma ottenuto solo il 37% dei seggi nell’assemblea dello
stato. E’ il sistema elettorale americano. Si, ma non sempre. Il manganello che
mette a posto gli avversari politici, laggiù si chiama gerrimandering: cambiare
surrettiziamente i confini dei distretti elettorali per escludere aree a
maggioranza democratica e inserirle in altri dove la superiorità repubblicana
non è in pericolo.
Nel Winsconsin sta accadendo di peggio. La camera
uscente ha votato una serie di provvedimenti per limitare i poteri del
governatore: a gennaio, quando entrerà in carica, non potrà svolgere il suo
lavoro. Tony Evers, il governatore eletto il mese scorso con un programma di
spese per l’educazione, tagli fiscali alla classe media e trattamento umano per
i migranti, naturalmente è democratico. “Avremo un governatore molto liberal”,
è la spiegazione di Robin Vos, presidente repubblicano della camera del
Winsconsin, “che realizzerà politiche molto liberal in contrasto con quello cui
crede la maggioranza di noi”. Alla faccia del voto degli elettori. Il New York
Times ha incominciato a chiamare lo stato nel Nord del Midwest “Ungheria sui
Grandi Laghi”.
In Michigan sta accadendo la stessa cosa ma nei
confronti della procuratrice generale Dana Nessel, democratica. E come
dimenticare l’elezione per il governatore della Georgia? Brian Kemp, il
repubblicano che a novembre ha vinto di stretto margine, era il segretario di
stato della Georgia. Negli stati dell’Unione la carica di segretario equivale a
quella di ministro degli interni. Dell’elezione dunque, Kemp era il candidato e
il controllore, giocatore e arbitro. Cose alla Bashar Assad, alla al-Sisi.
Kemp come gli altri illiberali repubblicani, non si
era limitato al gerrymandering: aveva fatto pressione sulla stampa, reso
difficile l’accesso al voto delle minoranze tradizionalmente democratiche,
preso d’assalto l’indipendenza dei giudici. E’ un comportamento sempre più
diffuso nel mondo occidentale. Anche in Israele i partiti di governo a destra
del Likud, stanno minando lo stato di diritto di quel paese. Ayelet Shaked, la
ministra della Giustizia che ha incontrato Matteo Salvini a Gerusalemme, ha
ripetutamente cercato di condizionare i poteri dell’alta corte e di definire
nemici dello stato gli israeliani che criticano il governo e sostengono i
diritti palestinesi.
I 42 padri fondatori che nel 1787 si ritrovarono a Filadelfia
per firmare la Costituzione degli Stati Uniti d’America (in tre si rifiutarono
di farlo), nonostante il loro intrinseco ottimismo non credevano nella bontà
dell’uomo. “Se fossero angeli, non sarebbe necessario alcun governo”, aveva
scritto James Madison nel capitolo 51 dei Federalist Papers. Nemmeno loro
potevano immaginare che anche chi è chiamato a governare la democrazia
americana un giorno sarebbe stato come i vecchi fascisti. Uguale ma diverso,
per rubare ancora le riflessioni del vecchio Schopenhauer.
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