sabato 30 aprile 2022

Lo Scrittore (come fosse Dio?)

Riflessioni di Mauro Antonio Miglieruolo


 

a

Lo scrittore è l’onnisciente per antonomasia, non Deus (cioè narrazione), ma Dio (cioè creazione).

Creatore in quanto onnisciente, che crea nei limiti dei suoi propri limiti. Creatore dunque che, come tutti i creatori, crea quel che può creare e non altro. Cioè crea quel che sa ed ha sperimentato. Crea per accrescere sé stesso, aggiungendo a sé stesso sempre nuove determinazioni.

Crea dunque nei limiti di quel che conosce, limiti che però non conosce, limiti mobili che amplia ogni volta che crea. Lo scrittore ignora quasi tutto di sé stesso, a partire dalla propria sapienza. Per scoprire e poi estendere questi limiti (più li conosce, più li spinge innanzi). Crea per conoscere, avviando un processo attraverso il quale può essere conosciuto.

L’alienazione dalla quale pochi sanno difendersi si impadronisce totalmente di lui. La sua materialità regredisce in forza dell’aleatorio della sua propria opera. Che gli si sostituisce. La contempla e argomenta: questo sono io. Tutti stabiliscono, questo è lui. Proprio lui. Sempre meno uomo e sempre più immagine. Ma solido e lungo più di qualsiasi altro uomo. In quell’opera è il mondo ed è lui, la parte di mondo entrata in lui che è diventata lui.

Povero scrittore. Morirà un giorno ed è possibile che non sappia di essere mai vissuto!

 

b

Un ignorante dunque con la presunzione dell’onnisciente, che pratica l’onniscienza. Un onnisciente speciale che sa e può sapere dell’opera sua solo dopo che questa è diventata tale, che si è scritta per mezzo di lui. Solo dopo che è diventata narrazione, opera, fatica, ripensamento continuo e revisione. Continua revisione. L’opera, povera vittima, è destinata al sacrificio di continue chiamate in correo che lo chiamano in correo (lui e la sua opera), complice del doppio costituito dal Deus e dal Dio (bisognerà pure se ne parli, un giorno, di tale doppio. Che poi in effetti è un triplo. Include l’unione di tutti coloro che dietro l’opera si affannano, con i diversi intenti, di delimitarla, oltraggiarla, discuterla, neutralizzarla, asservirla oppure, raramente, valorizzarla).

Ma se l’onnisciente sa della narrazione a posteriori, sa almeno questo: che sta per essere, che si stanno rompendo le acque della creazione. Lo sa dall’emozione che gli sorge nel petto; lo sa dall’urgenza che lo trascina, ovunque egli sia, verso la penna o la tastiera. Lo sa dalle singole parole che lo ossessionano, pazzo oltre che Dio; parole che è costretto a ripetere interminabilmente, che gli creano disagio finché non le include in una delle pagine che aspettano. Che lo aspettano. Che gli forniscono sollievo.

Povero scrittore. Respira nella libertà, aspira alla libertà, ma è una libertà costretta, ancestrale, una servitù senza rimedio. Della quale egli è felice. Spesso gli unici momenti di felicità di uno molto infelice.

 

c

Sa in quanto l’opera, sempre che sia letta, per essere deve continuare a essere letta. Sa esclusivamente in ragione di questa lettura.

Sa dunque perché gli viene spiegata. Da questa spiegazione, a una spiegazione propria, il passo è breve. A volte precede la spiegazione altrui sapendo che gli sarà chiesto di rispondere. E allora si fornisce di una spiegazione qualunque. Una spiegazione che non spiega nulla. L’opera non può essere spiegata, deve essere goduta. L’autore stesso non è in grado di spiegare. Saranno le moltitudini, se verranno, a farlo.

L’autore che non ha scritto e non si è scritto in quello che scrive, allora è meglio che taccia. Che apprenda che è un Dio muto quello con cui abbiamo a che fare; con il quale lui stesso ha a che fare.

Ma noi sappiamo che risponde non perché abbia molto da dire, ma perché è in obbligo di rispondere. Le domande incombono. Può scegliere di tacere e spesso lo fa (il suo destino è il paradiso). Altri parleranno (per loro il purgatorio, la contesa, le risse con i critici). Altri ancora, i molti, parleranno. Diranno senza che sussista il bisogno effettivo di dire, salvo la costrizione della vanità e dell’insicurezza (per loro l’inferno del successo e dell’insuccesso, e soprattutto la vergogna di aver tradito).

Diffidate di coloro che parlano troppo. Non c’è nulla da dire sul creato, se non appunto che non c’era e poi c’è stato. È stato creato, appunto.

Lo scrittore non parla, scrive. È l’attore che parla, che dice quel che altri ha scritto, anche quando è lui a scrivere. Dice sapendo quel che c’è da dire e come dirlo, cosa che non sa quando scrive.

Quando scrive occorre lasci il campo a qualcun altro che ugualmente non sa, ma sa almeno dove vuole andare. Lo scrittore quasi mai sa quel che dice. Nell’uguale di quando scrive. E del dove vuole andare.

Povero scrittore. Alla mercé di tutto e tutti. Alla mercé persino di sé stesso.

 

d

La lotta tra chi sa e chi non sa, tra colui che è infitto nelle tenebre entro le quali tenta di far luce; e colui che alla luce del sole commette ogni sorta di abusi sulle opere, sul corpo medesimo dello scrittore è quel che noi chiamiamo letteratura. Vergogna delle genti. Il luogo della menzogna per elezione. Il luogo dell’invenzione di quello che non c’è. Un non c’è che preso nel suo insieme diventa verità, un falso dato per avere il vero. Ma dato a danno dell’integrità di qualcuno, chiamato in giudizio come persona e come scrittore.

Perché, osservate: la guerra, la pace, gli armistizi amorosi ed affaristici innumerevoli; gli spiriti umani evocati e ansiosi d’essere partecipi, modellando, incitando, ammonendo ed imponendo persino, suggeriscono una unica considerazione. La seguente (chiamiamola ambizione): tutti vogliono affiancare l’autore, sostituirsi a lui, fare della sua opera una propria opera. Alla quale si chiede di cambiare aspetto; o quantomeno di aggiungere aspetto ad aspetto. Fino a stabilire un punto di non ritorno da renderla un irriconoscibile, ma tale che tutti possono conoscerla e confrontarla positivamente rispetto l’originale.

La tragedia dell’autore di successo è esattamente questa. Che si ritiene possibile avere rispetto dell’opera senza rispettarla, lasciandola alla mercé del primo venuto.

Inutilmente l’autore spera e dispera. Dopo la morte i suoi sodali eleveranno inutilmente barriere, protesteranno e lavoreranno per recuperarla al (non più esistente) originale. Si tratta dei nemici peggiori. Che o irrigidiscono momentaneamente l’opera, oppure aggiungono a loro volta. Illudendosi di rispettarla fanno lo stesso che tutti gli altri. La contravvengono.

Qui però è detto ripetutamente opera. Più opportuno sarebbe stato dire autore. Meglio ancora autore ed opera. L’autore scompare in essa. Sopravvive nel mondo come nome, privo di sembianze. Pur avendo scritto proprio per mantenerle (le sembianze).

Povero autore. Privato di sé stesso e dell’opera proprio mentre lo si valorizza e gliela si attribuisce con merito.

 

e

Ma esistono differenze narrabili tra i diversi percorsi che popolano questo breve scritto? Tra attore e scrittore? Opera e autore? Lettore e creatore? Tra nobiltà critica e bracciante della penna?

Lo scrittore subisce, ma è nel suo campo; l’autore rivendica, ma è nell’umano; il creatore sgomenta, a volte pentito di quel che ha fatto. Il bracciante solo tace, troppo impegnato nelle fatiche del dissodare, aprire terreni nuovi, offrire possibilità a una diversa vita di prosperare. Funzione di vita allargata è stata definita l’arte (quando invece, lo sa bene chi vi si dedica, quanto la vita risultante, quella che avanza al tempo della penna, possa essere ristretta. Quanti amori non sono stati suoi per poter dire delle possibilità aleatorie che l’amore offre!). Se ne deduce indebitamente che l’autore sia all’origine di questo più largo attribuito all’arte. Come tale viene presentato. Come colui che sgomita per allargarsi e perciò stesso allargare il mondo.

Ahinoi! Il gran padre Dante… il lontanissimo trascolorante Omero…

Ma possiamo contentarci di questa bugia? Passar sopra al ristretto d’ognuno? Per quanto grande; per quanto un essere valga tutti gli esseri e sia il senso medesimo dell’essere del mondo, è in una limitazione che si manifesta (il piccolo ometto sbraitante che presume e riassume tutte le presunzioni). Mai dimenticare che la grandezza di Napoleone è inclusa in un uomo molto piccolo; e Dante in un uomo con il naso molto grande.

In ogni caso resta quel che è stato enunciato all’inizio: ch’egli è Dio, un Dio affiancato da un Deus, da una logica narrativa pervasiva ineludibile e potente quanto la medesima gravità.

Che è dentro il corpo suo di spirito e di pensiero, d’azione e immobilità, che avviene l’atto compiuto della perpetua invasione di campo (letteratura), nonché della sommersione: l’uomo che pretende di continuare come tale, quando già non lo è più.

Che è lo scrittore a stabilire limiti e natura della contesa. Non per nulla è Dio, cioè Deus (bisognerebbe approfondire: i termini appaiono intercambiabili, ma all’atto pratico non è possibile inter-cambiarli. Possono, questo sì, essere individuati nell’atto di sostituirsi l’uno all’altro, ma non definirli con le medesime parole. Non portano in sé i medesimi concetti. Se non che il Deus inventa, Dio crea: non altro che questo). Non per nulla si dice Figlio di Dio. Ma il Deus di chi è figlio se non dell’atto medesimo della scrittura (nasce con la prima parola apposta sulla pagina: anzi, un secondo prima dell’apposizione)?

Non sappiamo, non vogliamo, non comprendiamo.

Constatiamo, abbiamo occhi per vedere e orecchie per ascoltare. Vediamo: la lotta è eterna, indefettibile, che non ammette patteggiamenti, negoziati e pacificazioni. O Dio o Deus, non c’è scampo. Se vince il Deus, se il Deus rifiuta di servire, si ribella e trionfa, Dio diventa impotente. Abbandona il terreno della scrittura ed entra in quello dell’arbitrio, della parola che non è parola, non significato, non indagine. Nel non senso, nella noia. Se Dio vince non si sa in quale origine, punto o totalità, trovi il lasciapassare; se non che molte sono le possibili e varie soglie, di varia consistenza, che gli è concesso varcare: senza che le possa trovare. Il Dio trionfante è anche il Dio perdente. Nel rigoglio della creatività si smarrisce, è il Caos. Poi il nulla.

Povero scrittore. Canna al vento esposto ai mille pericoli. A critici, Deus, Attori, altri scrittori, sé stesso come scrittore. Sia lodo a lui, perché resiste, continua, non smette di donare porzioni di vita alla propria creatività, paginette all’avidità dei lettori. Faccia tosta iperbolica che pretende d’averne creatività; e spesso finisce pure con l’avere.


da qui

Bibliografia ragionata degli attacchi all’antifascismo - Luca Casarotti

 

In questo tempo di guerra l'Anpi è divenuto il bersaglio grosso delle critiche allo schieramento pacifista. La posta in gioco è anche la memoria della Resistenza e l'attualità politica della lotta al fascismo

 

Il 25 aprile 2022 giunge con un sovraccarico di tensione. Nell’opinione pubblica italiana, tra le altre cose, la guerra di aggressione all’Ucraina scatenata da Putin ha riorientato la contesa attorno alla memoria della Resistenza. L’Anpi, si sa, è il bersaglio grosso delle critiche allo schieramento pacifista. La polemica poggia su una lettura sbagliata della sua posizione. In una polemica corretta, sarebbe onere degli accusatori provare che l’Anpi abbia messo in questione la legittimità dell’autodifesa ucraina, o giustificato l’invasione di Putin. Sennonché la prova sarebbe impossibile, dato che l’Anpi dice esattamente l’opposto. Così, da ultimo, il presidente Gianfranco Pagliarulo, parlando a Bari lo scorso 23 aprile: «Tutto è nato dall’invasione russa, moralmente e giuridicamente da condannare e condannata, senza se e senza ma, a cui hanno fatto e stanno facendo seguito uno scempio di umanità e di vita del popolo ucraino e una legittima resistenza armata». Questa invece è la risposta del congresso nazionale dell’associazione al saluto inviato dal Presidente della repubblica. Era il 25 marzo, il messaggio esordiva così: «Gentile Signor Presidente della Repubblica, condividiamo profondamente il suo giudizio sull’ingiustificabile aggressione al popolo ucraino da parte della Federazione russa, che abbiamo condannato poche ore dopo l’invasione». 

Quel che di solito non viene colto (oppure viene colto benissimo, et pour causeè che la critica dell’Anpi concerne il fronte interno della politica italiana, e cioè si appunta sul tema dell’aumento delle spese militari. La questione si può riassumere così: dato che la spesa militare occidentale è già ora molto superiore a quella pur ingentissima della Russia (si vedano i dati commentati da Francesco Vignarca sul Manifesto), qual è l’utilità reale di una rinnovata corsa agli armamenti? E quali soluzioni sono precluse all’orizzonte della praticabilità politica, quando il discorso è per intero occupato dalla prospettiva delle armi? I riferimenti al ruolo della Nato sono da collocare all’interno di quest’argomentazione. 

Nel 2006 la Nato indica ai paesi membri di destinare alle spese militari almeno il 2% del prodotto interno lordo (rimando ancora all’articolo di Vignarca per una discussione più dettagliata), ma in Italia l’indicazione si affaccia all’ordine del giorno solo sedici anni più tardi, nel marzo 2022. Inoltre, in un’ottica cronologicamente più lunga, l’Anpi ha sentito la necessità di ribadire che Nato e Federazione russa sono state entrambe attrici dell’instabilità nell’est dell’Europa dopo la caduta del muro di Berlino. Come questa constatazione possa essere interpretata in chiave anti-Ucraina è incomprensibile, dato che un’analisi non diversa (anzi, ancora più critica del ruolo di Stati uniti e Nato in Europa) ha fatto anche Noam Chonsky, di cui è indubbio lo schieramento senza riserve in favore  della resistenza ucraina. 

Il nucleo duro degli attacchi all’Anpi è però più profondo, e ha come posta in gioco anche la storia e la memoria della Resistenza. La polemica fa leva sul tentativo, non nuovo nello schema, di istituire una contrapposizione tra l’antifascismo odierno e il vero partigianato. «Come può l’Anpi essere pacifista», si dice, «senza rinnegare la lotta armata che dell’Anpi è l’evento costitutivo?» Una dicotomia, dunque: antifascismo inautentico vs autentica resistenza. «Basti guardare alla presidenza dell’associazione», insinuano i critici. Pagliarulo è nato nel ’49, non ha fatto il partigiano, quindi non può rappresentare il sentire dei veri partigiani. In più, questo presidente non partigiano (per la cronaca, è il secondo, dopo Carla Nespolo) ha pure una tara biografica: è stato un dirigente comunista, quindi è un nostalgico della potenza di Mosca, e su questa posizione ha trascinato con sé l’Anpi. 

Anche a prenderli sul serio, cioè a sfrondarli dalle diffamazioni, gli argomenti della polemica sono del tutto inconsistenti. Gli ingredienti sono sempre gli stessi, ma il cocktail si può preparare diversamente a seconda della stagione. In tempo di pace, si può dire che l’antifascismo non ha senso d’essere, perché il fascismo è stato sconfitto dalla storia: anzi, il ricordo della violenza partigiana rischia d’immettere il seme del fratricidio nella nazione finalmente pacificata. Meglio allora ricordare la resistenza disarmata. In tempo di guerra, si può dire che l’antifascismo  deve rifarsi alla tradizione della resistenza armata, e che non sa riconoscere i veri nuovi fascisti. Relegata all’astrattezza, la disputa sui principi è circolare. Saltando da una parte all’altra della circonferenza, un modo di confinare l’antifascismo nell’inattualità politica si trova sempre. 

Peccato che quella agitata in faccia all’Anpi per criticarne lo schieramento pacifista sia una resistenza irreale, ridotta a un comune denominatore, ora individuato nel lottarmatismo. Un’altra rappresentazione oleografica della guerra di Liberazione, pendant di quella esistenziale e molto meno guerreggiata che ha dominato la penultima stagione. A differenza della Resistenza mitica edificata a usi contingenti, ieri criminale e oggi d’improvviso eroica, nella Resistenza reale le partigiane e i partigiani in armi avevano idee diverse sul che fare, com’era del tutto naturale in un fronte composito. Che fare, ad esempio, quando nell’autunno del ’44 gli alleati danno appuntamento alla primavera successiva? Ai vertici del partigianato si fronteggiano in sostanza due orientamenti. Le destre sono più inclini a ridurre la lotta armata, perché temono che il peso militare delle formazioni organizzate dal Partito d’azione e soprattutto dal Partito comunista possa tradursi in peso politico, o peggio ancora in forza rivoluzionaria, dopo la Liberazione dal nazifascismo. La posizione delle sinistre, che prevarrà, è nel senso di rigettare la strategia dell’attesa, perché dare continuità politica e militare alla Resistenza avrebbe significato anche rivendicare una maggiore autonomia dall’egida angloamericana. Claudio Pavone ha proposto lo schema delle tre guerre, e altri autori vi si sono rifatti suggerendo ulteriori integrazioni, esattamente per dare conto dell’irriducibile molteplicità di cause che hanno convissuto nella guerra partigiana: la causa della liberazione nazionale, quella della liberazione dal fascismo saloino, quella della lotta di classe e dell’internazionalismo, quella dell’emancipazione femminile, quella decoloniale… 

Non ogni formazione, non ogni partigiano combatteva tutte queste guerre. Non tutti i partigiani combattevano la stessa guerra. Se si tiene presente quest’interpretazione della Resistenza, ormai acquisita alla storiografia, si capisce perché chi ha partecipato alla guerra di Liberazione può avere idee diverse anche sul modo di opporsi all’invasione di Putin; perché il partigiano Carlo Smuraglia può pronunciarsi in modo (in parte) diverso dalla partigiana Mirella Alloisio; e perché l’una e l’altro si riconoscono nell’Anpi, con dispiacere dei detrattori. «Abbiamo impugnato una volta le armi, per non doverle impugnare mai più», hanno detto molte e molti combattenti: è ancora Pavone a parlarne, e non per caso nel capitolo sulla violenza partigiana del Saggio sulla moralità nella Resistenza. Come ogni massima, è chiaro che anche questa non enuncia una verità astorica, valida da sempre e per sempre. Ma nemmeno si può far finta, come invece si sta facendo, che il pacifismo e l’antimilitarismo non siano state idee radicate nel partigianato. Né ci si può inventare che l’Anpi si sia svegliata pacifista il 24 febbraio 2022: Matteo Pucciarelli ha fatto un’istruttiva rassegna di tessere dell’Anpi a tema pacifista, dal 1952 al 1995. Anni in cui, putacaso, a dirigere l’associazione erano tutti e solo partigiani, quelli che i nuovi dirigenti non partigiani starebbero tradendo nello spirito. Ancora, il tentativo di opporre il nuovo antifascismo dell’Anpi al vecchio partigianato va a vuoto. E la ragione è banale. L’ha ricordata Davide Conti, in un intervento come sempre eccellente: è stata la dirigenza partigiana dell’Anpi, nel congresso di Chianciano del 2006, a decidere di aprire i ruoli dirigenziali ai non partigiani, perché l’associazione potesse sopravvivere ai suoi fondatori.

Se c’è un atteggiamento che offende la storia della Resistenza, è quello di chi si arroga il diritto di parlare per i morti in una disputa tra vivi: «Pertini vi avrebbe preso a randellate!», mi ha scritto qualcuno. A dirci cos’avrebbe fatto Pertini non sarà questo spontaneo fiorire di esegeti della domenica, di storici della Resistenza finora in altre faccende affaccendati: è un peccato, perché la professione sembra essere in gran voga. Con nonchalance, il comandante in capo del Battaglione Azov a Mariupol esegue sul Corriere uno dei pezzi più famosi del repertorio neonazi, quello che fa: «la svastica è un antico simbolo che non ha nulla a che fare con il nazismo». E magari «white power!» urlato a braccio teso è un’apprezzamento alle indubbie qualità del vino bianco. C’è da sperare solo di non dover ascoltare, un domani, Dmitry Utkin spiegarci che Wagner è stato un compositore armonicamente innovativo, e per questo il suo gruppo si chiama così. Nessuna dicotomia amico nemico autorizza una deroga tanto smaccata al dovere di verità dell’informazione, quanto quella che ci ha accompagnato al settantasettesimo anniversario della Liberazione. Su queste premesse, nessun dibattito serio sull’uso della forza è possibile.

«I popoli felici non hanno storia», scriveva Queneau. Se la storia è il  suo avvilente uso a scopo di propaganda, allora Queneau ha ragione. Intendiamoci: sarebbe sciocco pretendere che della storia non si faccia uso pubblico alcuno. Né sarebbe auspicabile. Al contrario, vale sempre il monito di Bloch: è quando la storiografia si ritira (o quando si fa di tutto perché si ritiri) dal dibattito generalista, che le propagande hanno briglia sciolta. L’abuso politico della storia è una tattica che si fa più evidente nei momenti di crisi. Il meccanismo è semplice: siccome l’adagio vuole che l’historia sia magistra, l’evocazione di questo o quell’evento trascorso, quasi sempre per proporre un’analogia con l’attualità, diviene il fondo legittimante dell’una o dell’altra posizione. Ma se l’evocazione è disinvolta, cioè se difetta la validazione metodologica della storiografia, la profondità prospettica di questo tipo di discorsi è solo illusoria, e il danno è duplice: a esserne compromessa è sia la comprensione del passato, setacciato all’esclusiva ricerca dell’evento mobilitante, sia la comprensione del presente, schiacciato sotto il peso dell’analogia con quell’evento. Obliterate le differenze, oppure premesso che bisogna tenerne conto (ma la premessa è sovente di facciata), passato e presente si rincorrono nel disegno di una ripetizione continua. In questa storia mandata allo sbaraglio per dilettantismo o per dolo, i fatti sono oggettivi e non ammettono interpretazioni: il che è come dire che esiste una e una sola interpretazione possibile, dunque è essa stessa il fatto. «I popoli felici non hanno storia». Facciamo in modo che Queneau abbia torto.

*Luca Casarotti è un giurista. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki. Scrive di uso politico del diritto penale e di antifascismo. Ha una seconda identità di pianista e critico musicale

https://jacobinitalia.it/bibliografia-ragionata-degli-attacchi-allantifascismo/

venerdì 29 aprile 2022

Continua la guerra tra l’invasore russo e gli esportatori della democrazia



articoli, immagini, video e musica di Gianni Lixi, Manlio Dinucci, Angelo D’Orsi, Enrico Euli, Francesco Masala, Marco Travaglio, Roberto Massari, associazione Laudato si’, Bruna Bianchi, Giorgio Gaber, Sara Reginella, Andrea Pubusa, Antonio Mazzeo, Vauro, Carlo Bellisai, Maramotti, Claudia Vago, Pepe Escobar, Miguel Martinez



Ognuno ha la Resistenza che si merita – Francesco Masala

 

Io non so con quali armi sarà combattuta la Terza Guerra Mondiale ma la Quarta Guerra Mondiale sarà combattuta con pietre e bastoni – Albert Einstein

 

La Resistenza italiana fu un movimento contro il fascismo (e il nazismo) per ottenere un sistema politico-economico libero e democratico, per quella libertà che mai prima era esistita.

La Resistenza ucraina vuole tornare a un sistema precedente all’invasione russa, e la Nato  e la civile Europa lo vogliono a tutti i costi, whatever il takes, per tornare a una guerra (in)civile in una parte del paese, con milizie paramilitari di chiara impronta nazifascista, con una polizia segreta che punisce il dissenso, anche con l’omicidio politico (leggi qui), con laboratori per la guerra biologica, poco raccomandabili (tranne che per la famiglia Biden), disseminati in tutta l’Ucraina.

 

A proposito di quei laboratori, la Comunità Europea non ha neanche fatto finta di indignarsi, quello che fa il padrone è sempre ben fatto, lui sa il perché (leggi qui), e baciamo le mani.

 

Uno può scegliere contro chi resistere e sopratutto verso quali obiettivi e quali ideali, anche la repubblica di Salò era una forma di resistenza contro i partigiani e gli eserciti alleati, anche in Val di Susa c’è una resistenza popolare contro l’occupazione e la distruzione del territorio, tutte le resistenze sono uguali e tutto fa brodo?

 

Sapevate che la coalizione dei buoni, alla quale appartiene l’Italia manda le mine antiuomo, gli Usa le mandano in allegria, e quelle mine ammazzeranno anche i bambini nei prossimi anni? L’Italia farà la sua parte, manderà gambe di legno e sminatori.

 

Vi siete accorti che di quel razzo cattivo che ha ammazzato 50 persone alla stazione di Kramatorsk (con quella scritta in russo che ha fatto tanto scandalo e ribrezzo fra tutte le persone del mondo) non se ne è più parlato, dopo che si è saputo che è stato lanciato dall’esercito ucraino?

 

Scrivono i compagni dei Cobas:

“Manifestiamo la nostra solidarietà al popolo ucraino aggredito e siamo al fianco di quella parte del popolo russo che, nonostante migliaia di arresti, si oppone all’invasione dell’Ucraina.” (da qui).

si sono dimenticati di essere al fianco anche degli ucraini messi in galera o ammazzati dalla polizia segreta ucraina perché non raccontano le verità non negoziabili di Zelensky e dell’occidente, o non gli interessano gli ucraini sbagliati (vedi qui)?

 

Un pacifista deve essere contento quando saltano in aria le armi che arrivano dall’Europa e dagli Usa prima di essere usate, o deve essere dispiaciuto che quelle armi esplose prima di essere usate non ammazzeranno i cattivi russi e i bambini ucraini?

 

L’Impero dispone, l’ordine è colpire il nemico in una guerra infinita, la Russia deve essere distrutta, gli stati satelliti sull’attenti obbediscono.

Dopo la bruciante umiliazione della disfatta in Afghanistan questa volta non si può perdere, dicono a Washington, dove non hanno digerito che i russi vogliano essere pagati in rubli, dove andremo a finire.

 

Qualche mese fa abbiamo visto, al cinema o in casa, un film, Don’t look up, nel quale i padroni del mondo, sempre siano maledetti, fuggono dai disastri epocali che hanno contribuito fortemente a creare, ma poi a loro non va troppo bene.

La gentaglia che (s)governa il mondo vivrà qualche anno in un rifugio atomico, magari a più piani, ma poi tutti creperanno, noi per primi, che grande passo per l’umanità.

 

E se un missile italiano gentilmente offerto da Draghi e Guerini, magari di produzione leonardesca autarchica, colpisse, naturalmente per sbaglio, una stazione ferroviaria in Russia ammazzando 50 persone e in Italia arrivasse una bombetta atomica di riscaldamento, naturalmente per sbaglio, magari a Venezia? sfiga o causa-effetto?

 

Ma l’hanno spiegato che il prezzo di tutte queste armi di pace mandate in Ucraina sarà pagato nei prossimi anni da milioni di italiani che non potendo permettersi di pagare cure e operazioni mediche creperanno non potendo aspettare le liste d’attesa di 750 giorni, sfiga o causa-effetto?

continua qui

mercoledì 27 aprile 2022

MISTERI DELLA CARTOGRAFIA ANTICA – Antonio Mattera

 

 

Articolo postato su www.acam.it

 

Sinossi

 

1492: siamo su una caravella veleggiante nell’Atlantico; nella cabina del comandante un uomo, dai tratti austeri e decisi, studia per l’ennesima volta le carte in suo possesso.Quest’uomo è Cristoforo Colombo e tra pochi giorni passerà alla storia come lo scopritore del continente americano. Sa che i suoi uomini incominciano ad essere esasperati per questa continua navigazione in un oceano che sembra senza fine, ma dalle carte in suo possesso, in parte ereditate dal suocero, sembra che la fine di quel viaggio sia al termine. Egli è fin troppo sicuro che quelle carte, così anacronistiche per l’epoca, indicanti luoghi e terre mai visti prima di allora (o almeno così si supponeva), non siano menzognere e per infondersi coraggio rilegge la lettera del suo amico Toscanelli, cartografo del tempo, (il quale aveva sottoposto, prima di Colombo, lo stesso progetto al Re di Portogallo) il quale lo consigliava, nel suo viaggio, di far sosta nelle grandi isole che egli chiamava Antilia, dimostrando così di crederci fermamente.

 

1513: un famoso ammiraglio turco, Pirì Reis, è chino sul suo tavolo, nella sua casa di Costantinopoli, intento a ricopiare, su una pelle di gazzella, alcune antiche mappe di cui per molti versi alcuni tratti sono a lui sconosciuti, benché come ammiraglio della flotta turca, avesse avuto ben occasione di navigare nei mari sin allora conosciuti. La curiosità, e forse la capacità di concepire prima di altri che quelle coste e terre disegnate non siano semplici frutti di fantasia, ma piuttosto il retaggio di antiche conoscenze, fanno in modo che egli persegua un fine che alla vista di molti, allora, sembrava da visionario, ma che ai nostri occhi, oggi, diventa uno dei più grandi quesiti, ancorché spesso ignorato dalla scienza dogmatica.

 

1737: quasi due secoli dopo Pirì Reìs, troviamo, questa volta in Francia, un eminente geografo francese, Philiph Buache, intento a ricopiare alcune antiche mappe, che tracciano il profilo di un continente fino allora ( e sino al 1818) ancora sconosciuto: l’Antartide. Quello che non può sapere Buache è che il continente di cui sta tracciando il profilo esiste ma che tali tratti territoriali sono stati i suoi confini all’incirca 13000 anni prima, allorché tale terra era libera dai ghiacci che ora la ricoprono.

 

1959: un anziano professore di Storia delle Scienze, Charles Hapgood, sta studiando, davanti al fuoco del camino del suo studio, nella sua casa nel New Hampshire, alcune antiche mappe; tra le sue mani si trovano infatti le carte di Pirì Reìs, Buache, Mercatore, Oronzo Fineo, ed altre ancora. Ai suoi occhi balza subito la medesima discrepanza presente in tutte questi documenti: esse sono foriere di conoscenze geografiche e cartografiche apertamente in contrasto ai periodi a cui fanno riferimento: le nozioni che rappresentano precorrono di molto il normale progresso geografico e cartografico, così come noi lo conosciamo!

 

Ho voluto lavorare un po’ di fantasia per rappresentare quelli che potrebbero essere alcuni passi importanti nella conoscenza di alcuni dei più straordinari reperti “fuori posto” che spesso sbucano all’improvviso, quasi a voler sconvolgere l’ordine naturale delle cose e della storia così come noi la conosciamo. Ma tengo a precisare che i personaggi da me menzionati e le date sono veritiere ( ho lavorato di fantasia sulle ambientazioni) così come sono assolutamente veritiere, ancorché ignorate dalla scienza, le mappe e i documenti da me citati, e che saranno l’argomento di questo trattato, ovvero le mappe ” impossibili”.

Perché impossibili? La motivazione di questa terminologia credo di averla già chiarita nelle righe precedenti, quindi credo che sia molto più semplice affrontare questo argomento scendendo nei particolari di alcune di queste carte. Sembra ormai accertato che le Americhe siano state raggiunte, prima di Colombo, dai Vichinghi, le cui tracce risulterebbero in un insediamento sull’isola di Terranova, e lo stesso Heydal, un avventuroso esploratore dei giorni nostri, ha dimostrato che le antiche navi potevano benissimo intraprendere un viaggio oceanico.

 

Sembra anche che, molto probabilmente, Fenici e Cartaginesi (e persino i Greci) conoscessero tali rotte e intraprendessero rapporti commerciali con i popoli di tali terre (potrebbero essere così spiegate le tracce di cocaina, prodotto originario del America meridionale,. su alcune mummie egizie (altro cover-up)) e che per difendere tali conoscenze procedessero all’affondamento di tutte le navi straniere che osavano attraversare l’allora confine del mondo conosciuto, le famose Colonne di Ercole (lo stretto di Gibilterra), o addirittura, allor quanto si accorgevano di essere seguiti, arrivassero all’autoaffondamento. In più, numerose leggende di mari impraticabili e mostri orrendi scoraggiavano vieppiù gli altri ardimentosi.

 

L’ammiraglio cartaginese Imilcone parla di un ”mare impraticabile, pieno di alghe et immoto…dove vento non soffia e le navi diventano putride ( forse un allusione al Mar dei Sargassi, noto per le alghe che coprono la sua superficie e da cui prende il nome, e per le sue bonacce interminabili?)…mentre mostri marini nuotano intorno alle nostre navi…”. Questo potrebbe spiegare come mai il continente americano ed alcuni gruppi di isole (le Antilie, identificabili con Cuba, Haiti, Bermuda etc) fossero di dominio pubblico su alcuni portolani antecedenti la scoperta di Colombo.

Ci sono tuttavia altri elementi che sembrerebbero provare la possibilità che queste rotte fossero conosciute e battute da una razza di navigatori assai più antica e noi completamente sconosciuta Uno dei punti in discussione è la capacità, da parte dei compilatori di tali mappe, di rappresentare un continente, l’Antartide, sconosciuto sino al 1818, ed in condizioni di disgelo, effettuatisi per l’ultima volta non meno del 4000 a.C., agli albori della storia a noi conosciuta.

La capacità rappresentativa di tali terre e il loro posizionamento preciso, dovuta ad un’effettiva conoscenza dei concetti di latitudine e longitudine, qual cosa che implica una conoscenza scientifica e strumentaria cui noi siamo arrivati negli ultimi tre secoli, implica un’altra domanda: se l’Antartide è stata rilevata e cartografata tra il 13000 e il 4000 a.C., quale popolo è stato capace di codesta impresa, allorché i popoli più evoluti da noi conosciuti ( Egizi, Sumeri, Babilonesi, Greci e Romani) erano allora in uno stadio che definire primitivo è molto riduttivo? Ma andiamo ora all’esame di queste carte.

 

La carta di Pirì Reis.

Il 2 novembre 1929, durante il lavoro di catalogazione degli oggetti appartenenti al Museo Topkapi di Istanbul, venne ritrovata una carta geografica, in due pezzi, che lasciò esterrefatti gli studiosi. Quella carta è oggi nota come “carta di Pirì Reis”, dal nome del suo autore, Pirì Reis Ibn Haja Mehemet. Pirì era un uomo di incredibile cultura (conosceva il greco, l’italiano, lo spagnolo ed il portoghese) ed uno stimato cartografo.

Disegnò la mappa in questione nel 1513, collezionando numerose carte antiche, tra cui una venuta in possesso tramite un marinaio di Colombo, catturato da Kemal Rais, zio di Pirì. Ma che cosa ha di tanto speciale questa mappa? La carta di Pirì ha suscitato l’attenzione di molti ricercatori, poiché è forse la più strana ed incredibile delle cosiddette “mappe misteriose”, cioè carte geografiche che raffigurano territori inesplorati ai tempi in cui vennero disegnate.

La carta di Pirì raffigura gran parte della penisola iberica, una piccola porzione della Francia, una vasta parte dell’Africa nordoccidentale, le coste dell’america centromeridionale ed un tratto del litorale antartico. Ebbene, nel 1513, molte di queste regioni erano completamente sconosciute, come mostra un esame della cartografia coeva. Dell’Antartide, la carta di Pirì rappresenta la Penisola di Palmer, la Terra della Regina Maud e parecchi picchi subglaciali, al largo delle coste, riconosciuti come tali solo nel 1949 da una spedizione organizzata da Norvegia, Svezia e Gran Bretagna. Lo stesso continente antartico fù scoperto solo durante il XIX secolo (1820).

La carta raffigura inoltre, con relativa precisione, altre regioni dell’Antartide che non potevano essere in alcun modo note nel ‘500, poiché ricoperte da ghiacci, e che fu possibile cartografare solo nel 1958 nel programma di ricerche organizzato dall’Anno Geofisico Internazionale:. Tra le diverse miniature che corredano la mappa,è possibile distinguere, accanto alla Cordigliera delle Ande, un lama ed un puma. Questi animali e la stessa Cordigliera dovevano essere, all’epoca di Pirì, completamente sconosciuti, poiché l’esplorazione del sistema andino iniziò soltanto dopo il 1531, quando Pizzarro mosse alla conquista dell’impero Inca.

Tutto questo sarebbe spiegabile solo ammettendo che l’America e le coste dell’Antartide fossero già state esplorate in tempi remoti e che antichi cartografi ne avessero realizzato mappe dettagliate. Ma ciò non fa che infittire il mistero: l’ultima volta che l’Antartide sarebbe stata possibile rilevarla e cartografarla priva di ghiacci, risalirebbe a circa 15000 anni fa: Quale civiltà poteva esistere a quell’epoca, in cui storicamente si colloca l’uomo di cro-Magnon? In un suo memoriale, intitolato Bahriye, Pirì afferma che Colombo conosceva l’esistenza dell’America ancora prima di esserci stato, poiché in possesso di antiche mappe che la mostravano, e che avesse usato queste stesse mappe per convincere la regina di Spagna a finanziare la sua impresa. Pirì aggiunge che Colombo vi giunse portando perline di vetro poiché sapeva che gli indiani erano attratti da questo genere di ninnoli.

 

Sempre secondo Pirì, non solo Colombo aveva raggiunto l’America, ma anche i Vichinghi, S. Brindano, Nicolas Giuvan, Antonio il Genovese, ed altri ancora. La carta fù oggetto di studio, nel XX secolo, da parte dello studioso Charles Hapgood, la quale per confermare le proprie impressioni, la sottopose allo studio dell?USAF, l’ente aeronautico militare degli USA. La loro risposta fù strabiliante in quanto essi stessi asserivano, in una nota inviata ad Hapgood, che era inspiegabile l’esistenza di tale mappa, in quanto riportante elementi non conosciuti all’epoca di Pirì Reis o di qualunque altra civiltà, a noi conosciuta, di epoca antecedente. Ciò costrinse Hapgood a rigettare l’idea che la mappa derivasse da sunti Vichinghi, in quanto, seppur essi fossero mai giunti, prima di Colombo, nelle Americhe, non avrebbero potuto rilevare il continente Antartico, in un’ eventuale altra spedizione, così come era stato disegnato, cioè senza ghiacci.

Non è nemmeno possibile che sia stato il marinaio di Colombo, catturato dallo zio di Pirì Reis, ad informare lo stesso Pirì in maniera tanto dettagliata, poiché, al ritorno della sua quarta spedizione (1504) Colombo aveva esplorato soltanto le coste dell’Honduras, Costarica, Nicaragua e Panama. Hapgood conclude che doveva esserci stata un’antica civiltà di re dei mari, con conoscenze marittime, geografiche et astronomiche, estremamente sviluppate e poi andate perdute.

 

La carta di Charles Hapgood

Charles Hapgood nella sua ricerca di portolani antichi,oltre alla carta di Pirì Reìs, si imbattè in una raffigurazione del 1531, opera di Oronzio Fineo chiamata, appunto, “Mappamondo di Oronzio Fineo”.

Tale mappa è il risultato di copiature di numerose carte “sorgenti” e rappresenta la parte costiera del continente antartico priva di ghiacci. In essa il continente antartico è fedelmente riprodotto e posizionato, geograficamente, perfettamente. Su di esso vengono annotate catene montuose e fiumi, quali effettivamente abbiamo scoperto siano esistiti, ora coperti dalla coltre di ghiacci. La parte interna invece e priva di raffigurazioni fluviali e montuose, il che ci indica che tale parte, a differenza di quella costiera, era già ricoperta di ghiacci.

Il mappamondo di Fineo sembra essere un’altra prova convincente riguardo alla possibilità di una remota colonizzazione del continente australe e lo ritrae in un’epoca corrispondente alla fine dell’ultimo periodo glaciale. La carta mostra anche numerosi estuari, insenature e fiumi, a sostegno delle moderne teorie che ipotizzano antichi fiumi in Antartide in punti in cui sono oggi presenti ghiacciai come il Beardmore e lo Scott.

I vari carotaggi effettuati negli ultimi tempi sono a sostegno della tesi che l’Antartide era un tempo abitabile: i campioni sono ricchi di sedimenti che rivelano condizioni differenti di clima, ma soprattutto si nota una rilevante presenza di grana fine, come quella che viene trasportata dai fiumi. Inoltre, i carotaggi rivelano che solo intorno al 4000 a.C. l’Antartide venne completamente ricoperto dai ghiacci.

 

La mappe di Mercatore e Buache

Chi erano Gerardo Mercatore e Philiphe Buache? Mercatore, conosciuto ancora oggi per la proiezione cartografica che porta il suo nome, fu un insigne studioso della sua epoca, tanto che la sua voglia di sapere lo portò, nel 1560, ad avventurarsi in Egitto per visitare la Grande piramide e ad accumulare testi antichi per la sua biblioteca personale.Nel suo “Atlante” rappresentò il continente australe, (questo nell’anno 1569, e ricordiamo che il continente antartico fu scoperto solo nel 1818): alcune parti identificabili di tale continente sonoCapo Dart, il Mare di Amundsen, l’isola Thurston, le isole Fletcher, l’isola di Alexander I, la penisola Antartica di Palmer, il Mare di Weddel, la Catena Regula, la Catena Mühlig-Hoffman, la costa Principe Harald, e la Costa principe Olaf.

Buache era un geografo francese del XVIII secolo.La sua carta ha una peculiarità unica: rappresenta, perfettamente, il continente antartico completamente privo di ghiaccio.

Ricordiamo che la topografia subglaciale di tale terra fù possibile solo nel 1958. Il canale navigabile che sembra dividere in due il continente esisterebbe realmente se non fosse ricoperto dai ghiacci eterni, quindi dovremmo dedurre che le carte originali, cui dovette fare riferimento Buache per la compilazione della sua mappa, erano antecedenti di millenni rispetto alle fonti a cui avevano attinto Mercatore, Fineo, Pirì Reìs.

 

Conclusioni

Cosa aggiungere di più a quanto già detto? Le vicissitudini che hanno passato i documenti antichi nel corso dei secoli (basti ricordare che uno sceicco usò i testi della biblioteca di Alessandria, forse la più importante e fornita, nell’antichità, per fornire di combustibile i bagni pubblici della città, sostenendo che se quei testi contenevano insegnamenti contrari a quelli del Corano, erano da condannare per empietà, mentre se tali testi si confacevano al Corano, inutili in quanto bastava lo stesso Corano. Oppure ricordiamo le distruzioni di testi maya, perpetrati, in nome della fede cattolica, dal vescovo Landa in Messico.), bastano a spiegare la mancanza di documenti risalenti ad un’antica civiltà, precursore di tutte le altre. Inverosimilmente vi sono testi che citano tali documenti. Ecco, queste strane mappe, ricavate da documenti originali molto più antichi, potrebbero essere l’unica prova, tangibile, di un passato, di una storia, di una gloria, che fù, e a cui la scienza dogmatica, intransigente, nega l’opportunità di rivelarsi appieno, celandosi dietro un imperioso no-comment o addirittura ignorando impassibilmente questi frammenti di storia antica che ogni tanto si riaffacciano, quasi a voler sfidare la stessa scienza, beffardamente, ponendoci nuovi quesiti e attendendo nuove risposte.

 

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Dove siete stati di notte? - Clarice Lispector

Raramente si legge qualcosa del genere, piccoli racconti composti da pensieri e parole liberi e misurati, profondi e rivelatori, nascosti e liberatori, sognanti e concreti, speciali e misteriosi.

Qualche racconto lo leggi più di una volta, comunque alla fine vuoi rileggerlo subito, c’è così tanta bellezza e verità che non ti sazi mai.

Certo qualche racconto è solo bellissimo, gli altri sono immensii, e quando non si capisce bene sai che è chi legge che deve sforzarsi di più, se ci riesce.

Questo piccolo enorme libro è un miracolo, sia lodato il dio della letteratura e dei racconti.

Vogliatevi bene, cercatelo e leggetelo tutti.

 

 

 

Niente misura, limiti, autocensure, in questi diciassette racconti Clarice Lispector rischia tutto, si spinge sempre più in profondità fino al nervo vivo e pulsante dell'inconscio. Incapace di accontentarsi dell'opaca banalità del mondo, l'autrice si abbandona come mai prima al bisogno, incomprimibile in lei, di scardinare le apparenze per giungere al cuore delle cose. Solitudine, silenzio, visioni bibliche, la presenza ossessiva della vecchiaia e della morte animano questi testi insolitamente brevi. La scrittura ha una forza prorompente, sempre più asciutta, precisa, nervosa, in alcuni casi sfiora l'astrazione, il poema in prosa. Scritto negli ultimi anni della sua vita, "Dove siete stati di notte?" è un libro a cui Clarice Lispector teneva moltissimo ed è decisivo per una reale comprensione della sua opera.

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martedì 26 aprile 2022

Entre Vues 1998 - Gianmaria Testa

 

Il presidente di Baobab Experience a processo. Un assurdo processo politico

 

 

Fino a oggi non abbiamo raccontato nulla della vicenda giudiziaria che ha colpito il Presidente di Baobab Experience e con lui tutta la nostra comunità: siamo rimasti in silenzio per non darla vinta a chi ci ha voluti coinvolgere in un processo che è senza alcun dubbio politico e continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto – offrire soccorso a donne, uomini e bambini migranti – con la convinzione di essere nel giusto.

Tutto in una forzata parvenza di normalità, perché accuse come questa pesano come macigni, nell’assurdo paradosso che pongono – chi quotidianamente combatte il traffico di esseri umani viene accusato di favorire quel traffico – e nella pressione emotiva che questo processo penale comporta, anche considerando che la contestazione attuale prevede da 6 anni e mezzo a 18 anni di reclusione.

Quando le dinamiche dell’intera vicenda giudiziaria sono così contorte, non conforta la consapevolezza della propria innocenza, laddove il potere dà la parvenza di sottomettersi a ciò che ha precedentemente creato ad arte e dove le regole sono volutamente equivoche.

Ma tornati, a pochi giorni dal verdetto, da una missione umanitaria al confine tra Ucraina e Moldavia, abbiamo sentito il bisogno e, assieme, il dovere di denunciare il paradosso in cui, oggi forse più che mai, ci troviamo a svolgere la nostra azione di volontariato.

Nel momento in cui giungiamo in Italia con persone evacuate dall’Ucraina e quando attraversiamo 5 frontiere – tra le quali due extra-comunitarie e dunque l’invalicabile Fortezza Europa – siamo chiamati, da Politica e Opinione pubblica, “eroi”, ma siamo seduti sul banco degli imputati per aver aiutato persone di origine sudanese e ciadiana – opportunamente identificate e con il pieno diritto di muoversi sul territorio italiano – a raggiungere il Campo della Croce Rossa di Ventimiglia.

Noi non siamo mai eroi, esattamente come non siamo mai criminali. Siamo volontarie e volontari; siamo solidali.

E i profughi sono sempre profughi, sia se fuggono da un orrore vicino come l’occupazione russa dell’Ucraina sia se si mettono in salvo da una tragedia lontana, come la sanguinosa guerra civile sudanese o dalla dittatura ciadiana.

Tutto il resto è razzismo istituzionale, di cui la criminalizzazione e la persecuzione giudiziaria della migrazione e della solidarietà sono e continuano a essere il più potente strumento operativo.

Il comunicato stampa

Hanno provato ad accusare Baobab Experience di associazione per delinquere.

Hanno attribuito il caso alla Direzione Distrettuale Antimafia. Hanno ascoltato le nostre conversazioni per mesi, violando il nostro privato, la nostra intimità, a spese dei contribuenti italiani, perché intercettare costa e molto.

Dopo mesi di indagini non hanno trovato nulla e quell’accusa implode su se stessa.

Continuando ad ascoltare, gli inquirenti intercettano una conversazione telefonica in cui Andrea Costa parla di 9 giovani migranti che, all’indomani dello sgombero del presidio umanitario di Baobab Experience, desiderano raggiungere il Campo della Croce Rossa di Ventimiglia.

Corre l’anno 2016.

Il 30 settembre, 5 giorni prima di quella intercettazione, il campo informale dove i volontari e le volontarie di Baobab portavano assistenza viene smantellato dalla Prefettura e circa 300 migranti, rifugiati e richiedenti asilo, restano privi anche dei giacigli di fortuna e degli aiuti umanitari portati dai solidali a Via Cupa.

L’accanimento di quei giorni è forte. Chi porta sostegno è allontanato e la parola d’ordine è “disperdersi” e disperdere la Comunità.

Impossibile anche montare un telo di plastica per mettere al riparo una donna incinta: la polizia interviene con 3 camionette e 5 automobili per togliere la precaria protezione dalla pioggia di quei giorni.

Corre l’anno 2016: è il periodo in cui le ONG che salvano i migranti nel Mediterraneo vengono definite “amici dei trafficanti” e “taxi del mare” e delle dichiarazioni del Procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, in merito a indagini in corso sulle organizzazioni di ricerca e soccorso in mare, poi rivelatesi inconsistenti nel quasi silenzio della stampa.

Corre l’anno 2016 e in Sudan imperversa il momento più atroce di un conflitto interno perdurante e lacerante, caratterizzato da ripetute e seriali violazioni del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani: le forze governative, guidate dal dittatore Al-Bashir, si macchiano di gravi attacchi contro i civili, incluse esecuzioni di massa, stupri, ricorso ad armi chimiche e devastazioni delle proprietà private.

Nel 2016, il Sudan è il quinto Paese di origine per numero di rifugiati al mondo, di cui oltre il 90% si vede riconoscere la protezione internazionale.

Corre l’anno 2016 e il Ciad è uno Stato autoritario dove alla recrudescenza dell’estremismo violento ad opera del gruppo terroristico nigeriano Boko Haram si aggiunge la “risposta” delle forze di sicurezza: sequestri di persona giustificati sulla base di ragioni politiche, arresti e detenzione arbitrari in condizioni di privazione spesso inumana, grave restrizione delle libertà di parola, riunione ed espressione.

8 ragazzi sudanesi e un ragazzo ciadiano, in fuga dalle violenze dei rispettivi paesi, sgomberati, umiliati e abbandonati a Roma da un’amministrazione ostile, dopo aver saputo che il campo della Croce Rossa della Capitale è in condizioni di sovraffollamento, cercano tutela altrove.

In quella circostanza, come in altre migliaia di circostanze simili, i volontari e le volontarie di Baobab Experience hanno offerto il loro supporto per identificare il biglietto del treno o del bus più economico, per contribuire all’acquisto dei titoli di viaggio per coloro che non possiedono le risorse economiche per sostenere il costo di un biglietto, per preparare kit con l’essenziale per affrontare lo spostamento, contenente un pranzo al sacco e prodotti per l’igiene.

Per questa condotta, Andrea Costa è equiparato dall’accusa ai tanti trafficanti che agiscono impunemente nelle Stazioni italiane e che quel biglietto se lo fanno pagare caro, anche con la vita, che vendono documentazione falsa al prezzo di una illusione e speculano sulla fragilità di persone abbandonate a loro stesse.

Se la vocazione e l’agire umanitari del Presidente di Baobab Experience, Andrea Costa, rappresentano un reato, ognuno di noi è un criminale.

Se Andrea è colpevole, lo siamo tutte e tutti.

Se Andrea è colpevole significa che l’assistenza alle persone migranti che per sette anni, donne e uomini, avvocati e studenti, medici e insegnanti, pensionati e ricercatori di Baobab Experience hanno offerto senza alcun tornaconto economico è visto alla stregua dell’agire di chi sulla pelle dei migranti si arricchisce indebitamente.

In anni di accanimento contro le ONG, nessun trafficante di esseri umani è stato assicurato alla giustizia. Piuttosto si è scoperto che i capi dell’operazione militare europea fossero a conoscenza che la Guardia costiera libica, addestrata e istruita con il loro contributo, fosse coinvolta nella tratta dei migranti: situazione spregevole, di dominio pubblico ormai.

Mentre l’Italia e l’Unione Europea sono accusate di respingimenti per procura alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel Bel Paese ci si continua ad accanire contro i nemici sbagliati.

La direttiva 2002/90/CE del Consiglio – nota come “Facilitation Directive”, fornisce una definizione comune del concetto di favoreggiamento dell’immigrazione illegale e stabilisce che gli Stati membri possono introdurre una clausola umanitaria, che mette gli operatori e i volontari che prestano assistenza umanitaria al riparo dal rischio di finire sotto processo.

Ovviamente l’Italia si è ben guardata dal farlo.

Ancora oggi, nel nostro ordinamento, non è stata introdotta alcuna differenza tra trafficanti di esseri umani e solidali: viene il dubbio che il fine non sia quello di combattere la criminalità organizzata, l’abuso, il raggiro e la tratta di esseri umani. E’ invece sempre più evidente che il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, così come disciplinato in Italia, voglia demonizzare – gettando fango sulle associazioni di volontariato e mortificando e scoraggiando l’aiuto umanitario – la migrazione stessa e precludere la possibilità di uomini, donne e bambini di mettersi in salvo da conflitti, violenze e fame.

 

qui il video della conferenza stampa

 

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