La “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini”

Da oggi l’Italia democratica celebra ufficialmente, e lo fa un giro d’orologio prima del Giorno della Memoria, un episodio specifico della seconda guerra mondiale. Con 189 voti favorevoli, nessuno contrario (come già accadde nel 2019 alla Camera) e un solo astenuto, il 5 aprile 2022 il Senato ha approvato in via definitiva, il disegno di legge n. 1371, sull’istituzione della “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini”.

L’articolo 1 recita: “La Repubblica riconosce il giorno 26 gennaio di ciascun anno quale Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini, al fine di conservare la memoria dell’eroismo dimostrato dal Corpo d’armata alpino nella battaglia di Nikolajewka durante la seconda guerra mondiale, nonché di promuovere i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale nonché dell’etica della partecipazione civile, della solidarietà e del volontariato, che gli alpini incarnano”.


Visto anche il risalto che d’ora in poi, per legge, ricoprirà questa data nel calendario civile del Paese, è cruciale collocare storicamente l’episodio di Nikolajewka. In quella località, all’epoca parte dell’Unione sovietica, nel gennaio 1943 gli alpini combattono per forzare il blocco dell’Armata rossa e permettere ai resti del Corpo d’armata alpino e alle residue unità tedesche di superare l’accerchiamento sovietico e ritirarsi.

È l’unica significativa vittoria sul campo nell’ambito di un’epocale sconfitta: la tragica epopea della “ritirata di Russia in cui migliaia di alpini abbandonati e persi nel freddo, equipaggiati malamente, si battono tenacemente, con l’obiettivo di evitare la prigionia e tornare a casa. La prima domanda da porsi dovrebbe essere, in realtà, la più semplice: cosa ci facevano gli alpini insieme ai tedeschi nei pressi del confine russo-ucraino, a tremila chilometri da casa, nel freddo inverno del 1942-’43?

Il contingente alpino faceva parte di un corpo di spedizione fortemente voluto da Mussolini nonostante i dubbi degli alti comandi tedeschi sull’adeguatezza logistica e tecnica del Regio esercito. L’Italia fascista non voleva perdere l’occasione di partecipare alla “crociata antibolscevica” scatenata da Hitler il 22 giugno del 1941 violando il patto con Stalin del 23 agosto 1939. L’“Armata italiana in Russia” (Armir) sul fronte russo sarebbe arrivata a contare, in totale, ben 230.000 uomini.

Una guerra d’aggressione

Quella dell’Armir non è dunque una storia che comincia a Nikolajewka il 26 gennaio 1943, ma oltre un anno e mezzo prima, quando decine di migliaia di giovani italiani vengono mandati a invadere il territorio sovietico. La ritirata è preceduta da lunghi mesi di occupazione al fianco dei nazisti in territori nei quali prendeva corpo l’operazione di “ripulitura” da ebrei e slavi delle terre destinate al Lebensraum nazista. A differenza di quella sul fronte occidentale, questa è una guerra di sterminio, comparata esplicitamente da Hitler alla “conquista” dell’America che portò all’annientamento delle popolazioni precolombiane: il Generalplan Ost (il “piano generale per l’Oriente”) nazista, elaborato nella prima fase della guerra, era un progetto di colonizzazione dell’Europa orientale, che prevedeva l’annientamento di decine di milioni di “slavi”. Alla fine della guerra si sarebbero contati venti milioni di morti sovietici, oltre tre milioni dei quali prigionieri di guerra uccisi, morti di fame o durante i trasferimenti. Ed è in questo contesto, peraltro, che ha inizio l’industrializzazione dello sterminio e l’applicazione della “soluzione finale” a milioni di ebrei in Europa centro-orientale: la Shoah.


I combattenti italiani, alpini compresi, prendono parte a questa guerra, distinguendosi in azioni di repressione, inclusi saccheggi e fucilazioni, anche in maniera autonoma dall’alleato tedesco. Il 15 gennaio del 1943 – undici giorni prima della battaglia di Nikolajewka –, ad esempio, a Rossoš il Comando del Corpo d’armata alpino in Russia (non i tedeschi) ordina il massacro di una trentina di prigionieri. Erano “invasori, non vittime”, per riprendere il titolo del un saggio che racconta questo episodio; un libro uscito ormai da oltre un decennio e dedicato interamente alla campagna di Russia, in cui si parla di come “l’epos del sacrificio andò a coprire come un velo il non trascurabile dato di fatto che le nostre Divisioni facevano parte, in realtà, di un esercito d’invasione”. Ogni giorno in cui i soldati italiani hanno combattuto sul fronte russo, prima avanzando e poi ritirandosi, è stato un giorno in più in cui i cancelli di Auschwitz restano sprangati sull’orrore. E in cui si permette alla guerra d’aggressione dell’Asse di mietere milioni di vittime.

Alla luce di questa consapevolezza, l’episodio di Nikolaewka non può essere decontestualizzato. La scelta del 26 gennaio, che potrebbe a prima vista sembrare semplicemente impropria, risulta in definitiva insultante, prima di tutto per gli alpini stessi. Qualunque corpo militare di un Paese democratico dovrebbe inorridire all’idea di passare alla storia, celebrato dalla memoria pubblica, attraverso uno degli episodi più vergognosi della già spaventosa storia dei fascismi europei. Un corpo militare che, peraltro, ha dato poi alla Resistenza al nazifascismo alcune tra le figure più significative.

Nella terribile ritirata, infatti, non pochi soldati dell’Armir maturano una profondissima avversione per i nazisti e per i fascisti italiani che li hanno mandati al macello, e che avrebbe portato alcuni di loro, pochi mesi più tardi, a scegliere di combatterli armi in pugno. Tra loro Mario Odasso, tenente colonnello e capo dell’Ufficio operazioni del Corpo d’armata alpino in Russia, poi membro della Resistenza piemontese, e il più noto Nuto Revelli, futuro comandante partigiano nella stessa regione. In un ciclo di lezioni organizzate nel 1961 a Torino, rivolto a un pubblico di studenti, Revelli avrebbe rievocato il crollo psicologico quando, proprio a gennaio del 1943, il caos aveva colto lui e i suoi commilitoni a Podgornoje, mentre ripiegavano dal Don:

“Ricordo che per ore ed ore andammo avanti quasi correndo, con il vuoto alle spalle, con una speranza nel cuore: di ricongiungerci presto con il nostro reparto. Verso sera, quando apparve Podgornoje, le nostre illusioni crollarono. Podgornoje, avvolta in una pesante coltre di fumo, era in fiamme. Gente che impazziva, che urlava, che piangeva. Colonne che entravano, che uscivano, che si frammischiavano, che si maledivano. Tedeschi, ungheresi, italiani. Colonne di uomini, di slitte, di cariaggi, di autocarri. Una confusione impressionante. Nella notte [del 18 gennaio 1943, ndr] arrivò l’ordine di abbandonare le armi di postazione, di distruggere gli archivi, di buttare il superfluo, di salvare l’uomo. Era l’inizio della fine”.

Alpini e Resistenza

“Maledivamo il fascismo, e come lo maledivamo”, avrebbe aggiunto Revelli rivolto al pubblico di studenti: “nell’estate del 1942, duecento lunghe tradotte avevano portato il corpo d’armata alpino sul fronte russo. Nella primavera del 1943 bastarono diciassette brevi tradotte per riportare in Italia i superstiti, i fortunati”; così ricorda quella ritirata che agli italiani causa la perdita di circa 100.000 uomini tra morti, dispersi e commilitoni abbandonati in mano al nemico. “Per fedeltà ai miei compagni caduti in Russia, dopo l’8 settembre salii in montagna a fare il partigiano”, concludeva. Come afferma la stessa Associazione nazionale alpini (Ana), la scelta resistenziale è fondamentale nella storia del Corpo:

“Nella lotta partigiana il contributo degli alpini si confonde (…) con quello delle migliaia di italiani che dopo l’8 settembre scelsero la via della montagna, dando origine a formazioni sparse un po’ ovunque lungo le Alpi e l’Appennino tosco- emiliano: in questo senso la storia della Resistenza è anche storia degli alpini e non è certo casuale che nel Piemonte sconvolto del settembre 1943, tra i mille sbandati della IV Armata che si erano concentrati a Boves conservando armi e materiali, si favoleggiasse di una divisione alpina, la ‘Pusteria’, ancora intatta e attestata sui monti: si trattava di una illusione destinata a crollare di fronte all’urto della realtà, ma era anche il sintomo di una convinzione diffusa, la certezza della scelta di campo che gli alpini avrebbero fatto e che le Divisioni testimoniarono con i tentativi di resistenza ai tedeschi all’indomani dell’armistizio (così la ‘Taurinense’ nel Montenegro, la ‘Cuneense’ e la ‘Tridentina’ in Alto Adige, la ‘Julia’ in Friuli, la ‘Pusteria’ nelle Alpi Marittime, gli altri reparti in Corsica, nell’Alto Isonzo, nell’entroterra spezzino e nei diversi depositi)”.

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Il contributo degli alpini alla lotta di Liberazione ha percorso  in lungo e in largo l’Italia centrosettentrionale occupata: è un fatto noto agli storici. Eppure, per la Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini, non si sono scelti episodi legati alla Resistenza. Oltre all’epica – questa sì – stagione resistenziale, si sarebbero potute comunque trovare altre date (a volerlo fare!), che avrebbero dato il giusto risalto all’impegno e all’altruismo dei tantissimi italiani che col cappello alpino in testa in quei mesi si prodigano per aiutare la comunità nazionale: il 6 maggio, giorno del terribile terremoto in Friuli del 1976, sarebbe stata una data più nobile da legare alla memoria delle migliaia di alpini che “invasero” quella terra martoriata aiutandola a risollevarsi dalle proprie macerie, sacrificando tempo, energie e in alcuni casi anche la vita per una causa nobile.

E invece, tra le molte date possibili, proprio quella della battaglia di Nikolajewka. Perché? A nostro giudizio per un malinteso senso di difesa dei valori nazionali che sconfina, anche nella Repubblica nata dalla Resistenza e che costituzionalmente ripudia la guerra, di quell’“orgoglio nazionale” che per alcuni deve ancora passare attraverso la celebrazione implicita della violenza armata e aggressiva, attraverso imprese belliche che possono essere esaltate solo dimenticandone le motivazioni e le conseguenze. La legge promuove “i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale”, e si fa francamente fatica a comprendere come una battaglia persa, a tremila chilometri dal “suolo patrio”, combattuta nel corso di una sanguinosissima invasione, possa essere l’esempio migliore per esaltare di fronte al Paese questi valori. O forse è proprio questo il messaggio di fondo che il legislatore – di fatto all’unanimità – ha voluto inserire in questa operazione di memoria: la costituzione di un baluardo di ricordo che possa dare legittimità perfino alle guerre d’aggressione portate avanti da un regime brutale come quello mussoliniano, nell’imbarazzante interpretazione già vista in altre operazioni memoriali attraverso cui, adottando uno sguardo vittimista e il paradigma vittimario, si veste di “italianità” il fascismo e se ne “dimenticano” i crimini.

Di più, la scelta di una data che si trova a ridosso della prima giornata memoriale di questo Paese, il 27 gennaio, che è quel Giorno della Memoria “in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”, rischia di creare un ingorgo di pubbliche celebrazioni. Un grande minestrone di memoria in cui il ricordo della deportazione e dello sterminio si intreccia con quello di chi difese armi in pugno proprio il sistema totalitario che produsse lo sterminio. Un cortocircuito clamoroso, che probabilmente porterà allo svilimento della memoria pubblica nel suo complesso. L’istituzione di questa nuova e confusa data memoriale avrà come probabile risultato la riproposizione di memorie belliche violente, presentate come positive perché “nazionali” ed esaltate come quel racconto “di tutti” che non sono mai state.

La scelta giusta


La memoria degli alpini merita decisamente di più. Fra i tanti episodi virtuosi, ad esempio, ce n’è uno che varrebbe davvero la pena commemorare. Il 9 maggio del 1942 un maggiore degli alpini fotografa in Montenegro la fucilazione di un partigiano, eseguita da collaborazionisti locali davanti a una folla di suoi commilitoni. L’immagine è diventata famosa in Montenegro: è uno dei simboli della lotta per la liberazione. Perché la vittima, Ljubo Čupić, ride in faccia ai carnefici nell’ultimo istante della sua vita. Anche il fotografo, Carlo Ravnich, è diventato famoso: dopo aver assistito e preso parte a numerosi crimini di guerra, la mattina del 9 settembre 1943 dà ordine alla sua batteria di sparare contro una colonna tedesca. È il primo atto di guerra contro l’ex alleato nazista. Dopo quel primo scontro, il maggiore degli alpini Ravnich guida i suoi uomini in diverse battaglie contro i nazisti, fino alla scelta di costituire, con altre migliaia di ex soldati, una vera e propria unità partigiana italiana all’interno dell’esercito di liberazione jugoslavo, la divisione Garibaldi, di cui nel 1944 Ravnich diventa comandante.


Falcidiata dalle malattie, dal freddo, dalla fame e dagli scontri coi tedeschi, questa formazione conta alla fine della guerra circa 8.000 caduti. Nel dopoguerra l’Italia, che ha contribuito a scatenare il conflitto, deve rinunciare ad alcuni territori annessi nel 1918, fra questi l’Istria, terra d’origine dello stesso Ravnich. Pur essendo perfettamente bilingue, Ravnich sceglie la sua “identità” italiana: nelle dinamiche complesse dell’esodo istriano-fiumano-dalmata del dopoguerra si trasferisce in Liguria dove morirà, dimenticato, nel 1996. Non ha mai rinnegato i valori per i quali ha vissuto e combattuto: la patria, sì, ma una patria giusta e libera; come nel caso degli alpini – di Nikolajewka e di altre battaglie – che hanno poi imboccato la strada della Resistenza. L’amara delusione verso il fascismo che li aveva mandati a morire (e uccidere) “con le scarpe di cartone”, l’odio verso i nazisti e il loro disprezzo verso la vita umana di popoli considerati inferiori, hanno contribuito a questa scelta. A quali alpini dunque vogliamo dedicare una giornata commemorativa: a chi combatteva a fianco del nazismo o a chi ha scelto di lottare in nome di un’Italia e un’Europa libera, plurale, democratica?

Francesco Filippi, Eric Gobetti, Carlo Greppi

 

 

Gli autori di questo articolo – Francesco Filippi, Eric Gobetti, Carlo Greppi – desiderano ringraziare Raffaello Pannacci per i suoi preziosi consigli.

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