sabato 30 aprile 2022

Lo Scrittore (come fosse Dio?)

Riflessioni di Mauro Antonio Miglieruolo


 

a

Lo scrittore è l’onnisciente per antonomasia, non Deus (cioè narrazione), ma Dio (cioè creazione).

Creatore in quanto onnisciente, che crea nei limiti dei suoi propri limiti. Creatore dunque che, come tutti i creatori, crea quel che può creare e non altro. Cioè crea quel che sa ed ha sperimentato. Crea per accrescere sé stesso, aggiungendo a sé stesso sempre nuove determinazioni.

Crea dunque nei limiti di quel che conosce, limiti che però non conosce, limiti mobili che amplia ogni volta che crea. Lo scrittore ignora quasi tutto di sé stesso, a partire dalla propria sapienza. Per scoprire e poi estendere questi limiti (più li conosce, più li spinge innanzi). Crea per conoscere, avviando un processo attraverso il quale può essere conosciuto.

L’alienazione dalla quale pochi sanno difendersi si impadronisce totalmente di lui. La sua materialità regredisce in forza dell’aleatorio della sua propria opera. Che gli si sostituisce. La contempla e argomenta: questo sono io. Tutti stabiliscono, questo è lui. Proprio lui. Sempre meno uomo e sempre più immagine. Ma solido e lungo più di qualsiasi altro uomo. In quell’opera è il mondo ed è lui, la parte di mondo entrata in lui che è diventata lui.

Povero scrittore. Morirà un giorno ed è possibile che non sappia di essere mai vissuto!

 

b

Un ignorante dunque con la presunzione dell’onnisciente, che pratica l’onniscienza. Un onnisciente speciale che sa e può sapere dell’opera sua solo dopo che questa è diventata tale, che si è scritta per mezzo di lui. Solo dopo che è diventata narrazione, opera, fatica, ripensamento continuo e revisione. Continua revisione. L’opera, povera vittima, è destinata al sacrificio di continue chiamate in correo che lo chiamano in correo (lui e la sua opera), complice del doppio costituito dal Deus e dal Dio (bisognerà pure se ne parli, un giorno, di tale doppio. Che poi in effetti è un triplo. Include l’unione di tutti coloro che dietro l’opera si affannano, con i diversi intenti, di delimitarla, oltraggiarla, discuterla, neutralizzarla, asservirla oppure, raramente, valorizzarla).

Ma se l’onnisciente sa della narrazione a posteriori, sa almeno questo: che sta per essere, che si stanno rompendo le acque della creazione. Lo sa dall’emozione che gli sorge nel petto; lo sa dall’urgenza che lo trascina, ovunque egli sia, verso la penna o la tastiera. Lo sa dalle singole parole che lo ossessionano, pazzo oltre che Dio; parole che è costretto a ripetere interminabilmente, che gli creano disagio finché non le include in una delle pagine che aspettano. Che lo aspettano. Che gli forniscono sollievo.

Povero scrittore. Respira nella libertà, aspira alla libertà, ma è una libertà costretta, ancestrale, una servitù senza rimedio. Della quale egli è felice. Spesso gli unici momenti di felicità di uno molto infelice.

 

c

Sa in quanto l’opera, sempre che sia letta, per essere deve continuare a essere letta. Sa esclusivamente in ragione di questa lettura.

Sa dunque perché gli viene spiegata. Da questa spiegazione, a una spiegazione propria, il passo è breve. A volte precede la spiegazione altrui sapendo che gli sarà chiesto di rispondere. E allora si fornisce di una spiegazione qualunque. Una spiegazione che non spiega nulla. L’opera non può essere spiegata, deve essere goduta. L’autore stesso non è in grado di spiegare. Saranno le moltitudini, se verranno, a farlo.

L’autore che non ha scritto e non si è scritto in quello che scrive, allora è meglio che taccia. Che apprenda che è un Dio muto quello con cui abbiamo a che fare; con il quale lui stesso ha a che fare.

Ma noi sappiamo che risponde non perché abbia molto da dire, ma perché è in obbligo di rispondere. Le domande incombono. Può scegliere di tacere e spesso lo fa (il suo destino è il paradiso). Altri parleranno (per loro il purgatorio, la contesa, le risse con i critici). Altri ancora, i molti, parleranno. Diranno senza che sussista il bisogno effettivo di dire, salvo la costrizione della vanità e dell’insicurezza (per loro l’inferno del successo e dell’insuccesso, e soprattutto la vergogna di aver tradito).

Diffidate di coloro che parlano troppo. Non c’è nulla da dire sul creato, se non appunto che non c’era e poi c’è stato. È stato creato, appunto.

Lo scrittore non parla, scrive. È l’attore che parla, che dice quel che altri ha scritto, anche quando è lui a scrivere. Dice sapendo quel che c’è da dire e come dirlo, cosa che non sa quando scrive.

Quando scrive occorre lasci il campo a qualcun altro che ugualmente non sa, ma sa almeno dove vuole andare. Lo scrittore quasi mai sa quel che dice. Nell’uguale di quando scrive. E del dove vuole andare.

Povero scrittore. Alla mercé di tutto e tutti. Alla mercé persino di sé stesso.

 

d

La lotta tra chi sa e chi non sa, tra colui che è infitto nelle tenebre entro le quali tenta di far luce; e colui che alla luce del sole commette ogni sorta di abusi sulle opere, sul corpo medesimo dello scrittore è quel che noi chiamiamo letteratura. Vergogna delle genti. Il luogo della menzogna per elezione. Il luogo dell’invenzione di quello che non c’è. Un non c’è che preso nel suo insieme diventa verità, un falso dato per avere il vero. Ma dato a danno dell’integrità di qualcuno, chiamato in giudizio come persona e come scrittore.

Perché, osservate: la guerra, la pace, gli armistizi amorosi ed affaristici innumerevoli; gli spiriti umani evocati e ansiosi d’essere partecipi, modellando, incitando, ammonendo ed imponendo persino, suggeriscono una unica considerazione. La seguente (chiamiamola ambizione): tutti vogliono affiancare l’autore, sostituirsi a lui, fare della sua opera una propria opera. Alla quale si chiede di cambiare aspetto; o quantomeno di aggiungere aspetto ad aspetto. Fino a stabilire un punto di non ritorno da renderla un irriconoscibile, ma tale che tutti possono conoscerla e confrontarla positivamente rispetto l’originale.

La tragedia dell’autore di successo è esattamente questa. Che si ritiene possibile avere rispetto dell’opera senza rispettarla, lasciandola alla mercé del primo venuto.

Inutilmente l’autore spera e dispera. Dopo la morte i suoi sodali eleveranno inutilmente barriere, protesteranno e lavoreranno per recuperarla al (non più esistente) originale. Si tratta dei nemici peggiori. Che o irrigidiscono momentaneamente l’opera, oppure aggiungono a loro volta. Illudendosi di rispettarla fanno lo stesso che tutti gli altri. La contravvengono.

Qui però è detto ripetutamente opera. Più opportuno sarebbe stato dire autore. Meglio ancora autore ed opera. L’autore scompare in essa. Sopravvive nel mondo come nome, privo di sembianze. Pur avendo scritto proprio per mantenerle (le sembianze).

Povero autore. Privato di sé stesso e dell’opera proprio mentre lo si valorizza e gliela si attribuisce con merito.

 

e

Ma esistono differenze narrabili tra i diversi percorsi che popolano questo breve scritto? Tra attore e scrittore? Opera e autore? Lettore e creatore? Tra nobiltà critica e bracciante della penna?

Lo scrittore subisce, ma è nel suo campo; l’autore rivendica, ma è nell’umano; il creatore sgomenta, a volte pentito di quel che ha fatto. Il bracciante solo tace, troppo impegnato nelle fatiche del dissodare, aprire terreni nuovi, offrire possibilità a una diversa vita di prosperare. Funzione di vita allargata è stata definita l’arte (quando invece, lo sa bene chi vi si dedica, quanto la vita risultante, quella che avanza al tempo della penna, possa essere ristretta. Quanti amori non sono stati suoi per poter dire delle possibilità aleatorie che l’amore offre!). Se ne deduce indebitamente che l’autore sia all’origine di questo più largo attribuito all’arte. Come tale viene presentato. Come colui che sgomita per allargarsi e perciò stesso allargare il mondo.

Ahinoi! Il gran padre Dante… il lontanissimo trascolorante Omero…

Ma possiamo contentarci di questa bugia? Passar sopra al ristretto d’ognuno? Per quanto grande; per quanto un essere valga tutti gli esseri e sia il senso medesimo dell’essere del mondo, è in una limitazione che si manifesta (il piccolo ometto sbraitante che presume e riassume tutte le presunzioni). Mai dimenticare che la grandezza di Napoleone è inclusa in un uomo molto piccolo; e Dante in un uomo con il naso molto grande.

In ogni caso resta quel che è stato enunciato all’inizio: ch’egli è Dio, un Dio affiancato da un Deus, da una logica narrativa pervasiva ineludibile e potente quanto la medesima gravità.

Che è dentro il corpo suo di spirito e di pensiero, d’azione e immobilità, che avviene l’atto compiuto della perpetua invasione di campo (letteratura), nonché della sommersione: l’uomo che pretende di continuare come tale, quando già non lo è più.

Che è lo scrittore a stabilire limiti e natura della contesa. Non per nulla è Dio, cioè Deus (bisognerebbe approfondire: i termini appaiono intercambiabili, ma all’atto pratico non è possibile inter-cambiarli. Possono, questo sì, essere individuati nell’atto di sostituirsi l’uno all’altro, ma non definirli con le medesime parole. Non portano in sé i medesimi concetti. Se non che il Deus inventa, Dio crea: non altro che questo). Non per nulla si dice Figlio di Dio. Ma il Deus di chi è figlio se non dell’atto medesimo della scrittura (nasce con la prima parola apposta sulla pagina: anzi, un secondo prima dell’apposizione)?

Non sappiamo, non vogliamo, non comprendiamo.

Constatiamo, abbiamo occhi per vedere e orecchie per ascoltare. Vediamo: la lotta è eterna, indefettibile, che non ammette patteggiamenti, negoziati e pacificazioni. O Dio o Deus, non c’è scampo. Se vince il Deus, se il Deus rifiuta di servire, si ribella e trionfa, Dio diventa impotente. Abbandona il terreno della scrittura ed entra in quello dell’arbitrio, della parola che non è parola, non significato, non indagine. Nel non senso, nella noia. Se Dio vince non si sa in quale origine, punto o totalità, trovi il lasciapassare; se non che molte sono le possibili e varie soglie, di varia consistenza, che gli è concesso varcare: senza che le possa trovare. Il Dio trionfante è anche il Dio perdente. Nel rigoglio della creatività si smarrisce, è il Caos. Poi il nulla.

Povero scrittore. Canna al vento esposto ai mille pericoli. A critici, Deus, Attori, altri scrittori, sé stesso come scrittore. Sia lodo a lui, perché resiste, continua, non smette di donare porzioni di vita alla propria creatività, paginette all’avidità dei lettori. Faccia tosta iperbolica che pretende d’averne creatività; e spesso finisce pure con l’avere.


da qui

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