lunedì 4 aprile 2022

Una situazione kafkiana - Michael Löwy

  

La forza di «illuminazione profana» dell’opera di Kafka è indubbiamente una delle ragioni del suo straordinario impatto sulla cultura del Novecento. Come osservava George Steiner, con il suo solito acume, in un commento al Processo (ma che vale anche per altri scritti di Kafka): «Questo breve romanzo ha acquistato una statura che non ha niente in comune con quella di un classico della letteratura. Nel corso del secolo ci si è riconosciuti in esso, per tanti è stato un riferimento spontaneo. Sono moltissimi coloro che non l’hanno letto, che magari non ne hanno nemmeno visto una versione teatrale, cinematografica o televisiva, ma che ne conoscono le grandi linee e le situazioni […]. Kafka è diventato un aggettivo. In più di cento lingue l’epiteto ‘kafkiano’ si applica a immagini centrali, alle costanti di disumanità e di assurdità dei nostri tempi»1. Taluni personaggi dei romanzi sono entrati nel linguaggio quotidiano sotto forma di aggettivi: un individuo alle prese con i mulini a vento è «donchisciottesco», un altro in preda al dubbio è «amletico». Più raramente si richiama il nome di un autore: «dantesco», per una scena infernale, «orwelliano» per un linguaggio che maschera la verità. Questo è avvenuto anche per Franz Kafka: dopo la seconda guerra mondiale, nella maggior parte delle lingue si è affermato un nuovo aggettivo ispirato alle sue opere: kafkaïen in francese, kafkaesk in tedesco, kafkaesque in inglese, kafkiano in portoghese e italiano. Pare che Malcolm Lowry sia stato il primo a parlare, nel 1936, di una «perfect Kafka situation», ma l’aggettivo compare solo nel 1947, sulla rivista «New Yorker», che parla di «un incubo kafkiano di vicoli ciechi» (a kafkaesque nightmare of blind alleys)2.

Non è facile definire questo termine che è entrato nei dizionari e nelle enciclopedie: si riferisce a una «atmosfera oppressiva» (Robert), a un «mondo da incubo» nel quale «sinistre forze impersonali controllano le vicende umane» (Twentieth Century Words, Oxford 1999), a una situazione «misteriosa, inquietante (unheimlich) e minacciosa» (Duden), a «un’organizzazione assurda e schizofrenicamente razionale, con tortuose procedure totalitarie e burocratiche», in forma labirintica, dove «l’individuo è sconcertato e smarrito» (Penguin Encyclopedia, 2003)3La maggior parte dei dizionari mette l’accento sull’aspetto sinistro, trascurando la dimensione ironica, che pure è essenziale nell’impiego comune dell’aggettivo. In realtà la situazione kafkiana descrive una gamma di esperienze che va dalla grottesca assurdità nel funzionamento quotidiano delle istituzioni burocratiche alle manifestazioni più micidiali del potere «amministrativo». La diffusione massiccia di questa espressione nel linguaggio corrente conferma che la maggior parte dei lettori di Kafka non si è sbagliata e ha intuitivamente colto la portata universale e critica della sua opera: la protesta contro l’incubo burocratico, la sovversione attraverso lo humour nero, nel senso definito da André Breton, una suprema rivolta dello spirito4.

Non è un caso che l’aggettivo sia entrato nel linguaggio corrente: esso designa un aspetto della realtà che le scienze sociali tendono a ignorare e per il quale non dispongono di alcun concetto pertinente: l’oppressione e l’assurdità della reificazione burocratica così come sono vissute dalla gente comune. In effetti la sociologia e le scienze giuridiche si sono generalmente limitate a esaminare la macchina burocratica e legale «dall’interno» o in relazione alle élite (dello Stato, del capitale), soffermandosi sul suo carattere «funzionale» o «disfunzionale», sulla «razionalità strumentale», eccetera5.

Come rileva con acume l’ex surrealista Michel Carrouges, «Kafka abbandona il punto di vista corporativo degli uomini di legge, di quelle persone colte e istruite che pensano di conoscere il perché delle cose di legge. Egli le considera invece (e considera costoro) dal punto di vista della massa degli umili assoggettati, che subiscono senza comprendere. Ma essendo Kafka, eleva quell’ignoranza ordinariamente ingenua all’altezza di una somma ironia, che trabocca di sofferenza e di humour, di mistero e di lucidità. Smaschera tutto ciò che vi è di umana ignoranza nel sapere giuridico e mette in luce il sapere umano presente nell’ignoranza degli umili»6. Il giudizio vale non solo per le istituzioni giuridiche, ma per l’insieme delle macchine gerarchiche e burocratiche che, nell’universo kafkiano, s’impossessano della «massa degli umili».

Una delle migliori discussioni sul significato del termine «kafkiano» si trova in un saggio pubblicato nel 1986 dallo scrittore ceco Milan Kundera. Secondo lui, questo termine definisce situazioni «che nessun’altra parola permette di cogliere e per le quali non offrono una chiave né la sociologia né la psicologia». Le sue caratteristiche principali sarebbero:

1. Un mondo che è solo un’unica e immensa istituzione labirintica, alla quale gli individui non possono sottrarsi e che non possono capire. 2. In questo mondo kafkiano, il fascicolo burocratico rappresenta la vera realtà, mentre l’esistenza fisica dell’essere umano è solo un riflesso del suo dossier personale. 3. Siccome l’accusato non sa di che cosa lo si accusi, si mette in moto un meccanismo di «autocolpevolizzazione»7.

Certo Kundera è incline, e si capisce perché, a interpretare questo universo kafkiano alla luce della propria esperienza della burocrazia stalinista ceca. Ciò nondimeno afferma che «la cosiddetta società democratica conosce anch’essa il processo che spersonalizza e burocratizza; tutto il pianeta è diventato la scena di quel processo»8. Aggiungerei che si tratta di un processo già in atto all’epoca di Kafka. L’unico appunto che muoverei a Kundera riguarda la sua tendenza a fare della realtà kafkiana un aspetto della «condizione umana», «una possibilità elementare dell’uomo e del suo mondo […] che lo accompagna quasi in eterno»9Adorno aveva giù replicato ad argomentazioni di questo tenore, che non trovano fondamento testuale nei romanzi e che rischiano di annullare la straordinaria forza critica e sovversiva dei suoi scritti.

In conclusione, Kafka è molto più di uno scrittore «realista», nel senso comune del termine. Quella che fa vedere nelle sue opere non è solo la realtà «obiettiva», ma qualche cosa di più importante: un’esperienza soggettiva, quella degli individui di fronte agli apparati. I suoi romanzi sono scritti dal punto di vista dei vinti, di chi finisce frantumato nell’ingranaggio «razionale e impersonale» della macchina burocratica. Per parafrasare Walter Benjamin, le opere di Kafka passano in contropelo l’immagine troppo rassicurante del potere della legge e dello Stato moderno.

La forza dell’aggettivo kafkiano è tale che ha irrimediabilmente contaminato il concetto stesso di burocrazia agli occhi dei comuni mortali. Ecco che cosa osserva, a malincuore, un Dizionario dell’Organizzazione, pubblicato in Germania nel 1969: «La parola ‘burocrazia’ provoca un leggero malessere alla maggioranza delle persone. Il concetto reca in sé troppe associazioni kafkiane, di opacità e di inquietante estraneità (unheimlichkeit)…»10.

Mentre Max Weber, il più acuto sociologo della burocrazia, la definisce il sistema più razionale di gestione, l’espressione suprema della razionalità nell’esercizio del potere, Kafka mostra come quella razionalità mutilata e strumentale conduca alla più assoluta irrazionalità. L’universo kafkiano svelato nei suoi romanzi presenta la stessa dialettica della ragione della quale Adorno e Horkheimer hanno fatto l’analisi critica, cioè la trasformazione, nella moderna civiltà occidentale, della ragione nel suo contrario.


Note al capitolo

1. George Steiner, De la Bible à Kafka, Bayard, Paris, 2002, p. 49.
2. John Ayto, Twenty Century Words, Oxford University Press, Oxford, 1999. Tra «kafkiano» e «orwelliano» esistono notevoli affinità, nella misura in cui entrambi si riferiscono a fenomeni di potere.
3. Nella prefazione all’edizione di Kafka della «Pléiade», Claude David propone una bellissima definizione dell’aggettivo: «È entrato nel linguaggio per designare quelle amministrazioni che, a forza di organizzarsi, girano a vuoto, a forza di razionalizzarsi, finiscono nell’assurdo». E aggiunge questa osservazione: «Quella burocrazia stupida e crudele non è forse l’immagine dello Stato contemporaneo?». Vedi Claude David, «La fortune de Kafka» in Franz Kafka, Œuvres complètes, Gallimard, «La Pléiade», Paris, 1976, p. xi.
4. Nel momento in cui scrivo queste righe (settembre 2003), vengo a sapere che una coppia di ebrei naturalizzati francesi (alla fine della seconda guerra mondiale), Ora e Zelik Adler, originari rispettivamente di Berlino e di Varsavia, incontrano difficoltà insormontabili nel tentativo di rinnovare le loro carte d’identità. L’amministrazione esige non solo i loro certificati di nascita, ma anche quelli dei loro… genitori. Commenta Ora Adler: «È kafkiano…» («Politis», n. 776, 17 settembre 2003, p. 21).
5. Vedi il commento di Herbert Mills sul Castello: «Scritto dal punto di vista dell’‘outsider’ e della ‘vittima’ di un’organizzazione, Il Castello è in sostanza uno straordinario studio psicologico di un individuo davanti a una spietata (relentless) burocrazia, apparentemente capricciosa e probabilmente pericolosa. L’esperienza della vittima, grazie alla magia dell’arte di Kafka, assume caratteristiche oniriche o, per meglio dire, da incubo. Sono queste caratteristiche che […] definiscono in tutta la sua nudità e il suo terrore ciò che l’individuo ‘non iniziato’ prova quando ha a che fare con un’organizzazione […]. La tappa finale di questo incomprensibile terrore viene raggiunta quando un ‘insider’ spiega alla vittima che ciò che essa considera una ‘ridicola confusione’ è la materializzazione della razionalità. Anche se questa esperienza delle vittime di Kafka è insolita ed estrema, il lettore rimane con la convinzione incrollabile che l’autore non ha perso il contatto con la realtà di un’esperienza da ‘outsider’ davanti alla burocrazia, ma che anzi ha rappresentato con arte consumata un problema molto concreto e molto serio della vita moderna». Dwight Waldo, The Novelist on Organization and Administration: An Inquiry into the Relationship Between Two Worlds, Institute of Governmental Studies, Berkeley, 1968, pp. 114-115.
6. Michel Carrouges, Dans le rire et les larmes de la vie, «Cahiers de la Compagnie Madeleine Renaud/Jean-Louis Barrault», ottobre 1957, Julliard, p. 19.
7. Milan Kundera, «Quelque part là-derrière» in L’art du roman, Gallimard, Paris, 1986, pp. 127-130 [trad. it. L’arte del romanzo, Adelphi, Milano, 1988].
8. Ibid., p. 134. Kundera sottolinea a ragione che l’universo kafkiano non è quello del totalitarismo, perché nei suoi romanzi non ci sono il partito, l’ideologia e il suo lessico, la politica o la polizia.
9. Ibid., p. 133.
10. Bernd Janowski, «Bürokratie» in E. Grochla (a cura di), Handwörterbuch der Organisation, Poeschel Verlag, Stuttgart, 1969, p. 324.

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