venerdì 31 dicembre 2021

Covid, il fallimento della sinistra - Toby Green


(Traduzione rivisitata da Thomas Fazi)

 

Durante le varie fasi della pandemia globale, le preferenze delle persone in termini di strategie epidemiologiche si sono sovrapposte strettamente al loro orientamento politico. Da quando Donald Trump e Jair Bolsonaro hanno preso posizione contro i lockdown, nel marzo 2020, buona parte delle persone di sinistra, “radicale” o moderata che sia, si sono prodigate per aderire pubblicamente al lockdown quale strategia per la mitigazione della pandemia – e ultimamente alla logica dei lasciapassare vaccinali.

Ora, mentre i paesi di tutta Europa sperimentano restrizioni sempre più severe per i non vaccinati, i commentatori di sinistra – di solito così accesi nella difesa delle minoranze discriminate – si contraddistinguono per il loro silenzio. Come scrittori che si sono sempre posizionati a sinistra, siamo disturbati da questa svolta degli eventi. Non c’è davvero nessuna critica progressista da fare sulla messa in quarantena di individui sani, quando le ultime ricerche suggeriscono che c’è una differenza irrisoria in termini di trasmissione tra vaccinati e non vaccinati? A ben vedere, però, la risposta della sinistra al Covid appare come parte di una più profonda crisi della politica e del pensiero di sinistra – una crisi che va avanti da almeno trent’anni. Quindi è importante identificare il processo attraverso il quale questa crisi ha preso forma. Nella prima fase della pandemia – la fase dei lockdown – sono stati coloro che propendevano verso la destra culturale ed economica ad essere più propensi a sottolineare i danni sociali, economici e psicologici derivanti dalle chiusure. Nel frattempo, l’iniziale scetticismo di Trump nei confronti del lockdown ha reso questa posizione insostenibile per la maggior parte di coloro che propendono verso la sinistra culturale ed economica.

Gli algoritmi dei social media hanno poi ulteriormente alimentato questa polarizzazione. Fin da subito, quindi, la sinistra occidentale ha abbracciato la strategia dei lockdown, vista come una scelta “pro-vita” e “pro-collettività” – una politica che, in teoria, promuoveva la salute pubblica e il diritto collettivo alla salute. Nel frattempo ogni critica alle chiusure è stata censurata e bollata come un approccio “individualista”, “di destra” e “pro-economia”, accusata di dare priorità al “profitto” rispetto alla vita delle persone. In sintesi, decenni di polarizzazione politica hanno immediatamente politicizzato una questione di salute pubblica, senza permettere alcuna discussione su quale sarebbe potuta essere una risposta progressiva alla pandemia. Allo stesso tempo, questo tipo di approccio ha allontanato ulteriormente la sinistra dalle classi popolari, dal momento che i lavoratori a basso reddito sono stati i più gravemente colpiti dall’impatto socioeconomico delle restrizioni, e sono stati anche coloro che più probabilmente erano fuori a lavorare mentre la classe dei lavoratori in remoto beneficiava di Zoom. Queste stesse faglie politiche sono emerse quando è iniziata la campagna vaccinale e possono oggi essere osservate in merito ai lasciapassare vaccinali. La resistenza a queste misure viene associata alla destra, mentre le persone di sinistra sono generalmente a favore di entrambe le misure, e l’opposizione ad esse viene demonizzata come una miscela confusa di irrazionalismo antiscientifico e libertarismo individualistico.

Ma perché la sinistra mainstream ha finito per sostenere praticamente tutte le misure anti-Covid? Come è emersa una visione così semplicistica della relazione tra salute ed economia, una visione che si fa beffe di decenni di ricerche nelle scienze sociali (di stampo progressista) che mostrano quanto strettamente siano collegate ricchezza e salute? Perché la sinistra ha ignorato il massiccio aumento delle disuguaglianze, l’attacco ai poveri, ai paesi poveri, alle donne e ai bambini, il trattamento crudele degli anziani, e l’oscena concentrazione di ricchezza e di potere nelle mani di pochi individui e imprese risultanti da queste politiche? Come è stato possibile che, in relazione allo sviluppo e alla diffusione dei vaccini, e quando BioNTech, Moderna e Pfizer attualmente guadagnano oltre 1.000 dollari al secondo dai vaccini Covid, la sinistra abbia finito per ridicolizzare l’idea stessa che, dati gli interessi in gioco, possano esserci in ballo motivazioni altre rispetto al “bene pubblico”? E com’è possibile che la sinistra, che nella storia è stata spesso vittima della repressione statale, oggi sembri ignorare del tutto le preoccupanti implicazioni etiche e politiche dei lasciapassare vaccinali? ​​

Mentre la guerra fredda è coincisa con l’era della decolonizzazione e l’ascesa di una politica globale antirazzista, la fine della guerra fredda ha inaugurato una crisi esistenziale per la sinistra occidentale. L’ascesa dell’egemonia economica neoliberale, la globalizzazione e la transnazionalizzazione delle imprese hanno minato, a sinistra, la tradizionale visione dello Stato quale motore di redistribuzione.Alla risposta della sinistra al Covid ha forse anche contribuito la consapevolezza che, come ha sostenuto il teorico brasiliano Roberto Mangabeira Unger, la sinistra ha sempre prosperato nei momenti di grande crisi: la rivoluzione russa ha beneficiato della prima guerra mondiale, così come lo Stato sociale keynesiano ha beneficiato delle conseguenze della seconda guerra mondiale. Questa circostanza può in parte spiegare il posizionamento della sinistra oggi: amplificare la crisi e prolungarla attraverso restrizioni senza fine può essere visto da alcuni come un modo per rivitalizzare la sinistra dopo decenni di crisi esistenziale. Un’ulteriore spiegazione della risposta della sinistra al Covid può essere rintracciata, a nostro avviso, in un’errata comprensione della natura del neoliberismo.

La maggior parte delle persone di sinistra crede che il neoliberismo abbia comportato una “ritirata” dello Stato a favore del mercato. Pertanto, hanno interpretato l’attivismo dei governi durante la pandemia come un gradito “ritorno dello Stato”, potenzialmente in grado, a loro avviso, di invertire il progetto antistatalista del neoliberismo. Il problema di questa argomentazione, anche accettando la sua dubbia logica, è che il neoliberismo non ha comportato l’estinzione dello Stato. Al contrario, la dimensione dello Stato in percentuale al PIL ha continuato a crescere durante tutta l’era neoliberale. Questo non dovrebbe sorprendere. Il neoliberismo si basa su un pervasivo intervento statale tanto quanto il “keynesianesimo”, con la differenza che oggi lo Stato interviene quasi esclusivamente per promuovere gli interessi del grande capitale – per sorvegliare le classi lavoratrici, salvare le grandi banche e le imprese che altrimenti fallirebbero ecc. Anzi, per molti versi, il capitale, oggi, dipende dallo Stato ancor più di prima. Come notano Shimshon Bichler e Jonathan Nitzan: «Man mano che il capitalismo si evolve, i governi e le grandi imprese si intrecciano sempre di più. … La modalità di potere capitalista e le coalizioni basate sul capitale che lo gestiscono non hanno bisogno di “Stati minimi”. Per molti aspetti, hanno bisogno di Stati sempre più grandi». Il neoliberismo, insomma, è più simile a una forma di capitalismo monopolistico di Stato – o corporatocrazia – che al tipo di capitalismo liberomercatista e antistatalista che afferma di essere. Questo aiuta a spiegare perché ha prodotto apparati statali sempre più potenti, interventisti e persino autoritari. Questo di per sé rende l’acclamazione della sinistra per un inesistente “ritorno dello Stato” imbarazzantemente ingenua. E la parte peggiore è che la sinistra ha già commesso questo errore in passato. Anche all’indomani della crisi finanziaria del 2008, molti a sinistra hanno salutato i grandi disavanzi pubblici come “il ritorno di Keynes”, quando, in realtà, quelle misure avevano ben poco a che fare con Keynes, che invitava ad usare la spesa pubblica per raggiungere la piena occupazione, e miravano invece a salvare i colpevoli della crisi, ovvero le grandi banche. E per di più, sono state seguite da un attacco senza precedenti ai sistemi di welfare e ai diritti dei lavoratori in tutta Europa. Qualcosa di simile sta accadendo oggi. Da un lato le grandi imprese transnazionali (spesso attraverso accordi tutt’altro che trasparenti) si accaparrano lauti contratti governativi per la fornitura dei Covid test, dei dispositivi di protezione individuali, dei vaccini e adesso delle tecnologie legate ai lasciapassare vaccinali; dall’altro i cittadini stanno vedendo le loro vite e i loro mezzi di sussistenza sconvolti dalla “nuova normalità”.

Il fatto che la sinistra sembri ignorare tutto ciò è particolarmente sconcertante. Dopo tutto, l’idea che i governi tendano a sfruttare le crisi per consolidare ulteriormente l’agenda neoliberista è stata un punto fermo di molta letteratura di sinistra negli ultimi anni. Pierre Dardot e Christian Laval, ad esempio, hanno sostenuto che sotto il neoliberismo la crisi è diventata un “metodo di governo”. E nel suo libro più famoso, Shock economy, Naomi Klein ha esplorato il concetto di “capitalismo dei disastri”. La sua tesi centrale è che nei momenti di paura e disorientamento pubblico è più facile reingegnerizzare le società: cambiamenti drammatici all’ordine socioeconomico esistente, che normalmente sarebbero politicamente impossibili, vengono imposti in rapida successione prima che il pubblico abbia il tempo di capire cosa sta succedendo. Oggi possiamo osservare una dinamica simile. Prendiamo, per esempio, l’introduzione di misure di sorveglianza ad alta tecnologia, l’ipotesi di nuove carte d’identità digitali, il giro di vite sulle manifestazioni pubbliche, l’accelerazione degli iter di approvazione delle leggi in virtù dello “stato d’emergenza” e la marginalizzazione dei parlamenti – il tutto nel nome del “contrasto alla pandemia”. Se la storia recente ci insegna qualcosa è che i governi troveranno sicuramente un modo per rendere permanenti molte delle regole emergenziali, proprio come hanno fatto con gran parte della legislazione antiterrorismo post-11 settembre. Come ha osservato Edward Snowden: «Oggigiorno, le misure di emergenza che vengono approvate tendono a permanere. L’emergenza tende ad allargarsi». Questo conferma anche le idee sullo “stato d’eccezione” avanzate dal filosofo Giorgio Agamben, che tuttavia è stato vilipeso dalla sinistra mainstream per la sua posizione anti-lockdown. In definitiva, qualunque forma di interventismo statale dovrebbe essere giudicata per ciò che effettivamente rappresenta. Gli scriventi sono totalmente a favore dell’intervento pubblico se esso serve a promuovere i diritti dei lavoratori, a raggiungere la piena occupazione, a fornire servizi pubblici cruciali, a controllare il potere delle grandi imprese, a correggere le disfunzioni dei mercati, a portare industrie di interesse strategico sotto il controllo pubblico ecc. Ma negli ultimi 18 mesi abbiamo assistito all’esatto contrario: un rafforzamento senza precedenti dei colossi multinazionali e dei loro oligarchi a spese dei lavoratori e delle imprese locali. Un rapporto del mese scorso basato sui dati di Forbes ha mostrato che i soli miliardari d’America hanno visto la loro ricchezza aumentare di 2 trilioni di dollari durante la pandemia. Un’altra fantasia di sinistra che è stata frantumata dalla realtà è l’idea che la pandemia avrebbe inaugurato un nuovo spirito collettivo, capace di superare decenni di individualismo neoliberale. Al contrario, la pandemia ha spaccato ancora di più le società – tra vaccinati e non vaccinati, tra chi può trarre vantaggio dallo smart working e chi no. Inoltre, un demos composto da individui traumatizzati, strappati ai loro cari, portati ad aver timore gli uni degli altri come potenziali vettori di malattie, terrorizzati dal contatto fisico non è certo un terreno fertile per far crescere la solidarietà collettiva.

Ma forse la risposta della sinistra può essere compresa meglio in termini individuali piuttosto che collettivi. La teoria psicoanalitica classica ha postulato una chiara connessione tra piacere ed autorità: l’esperienza di un grande piacere (che soddisfa il principio di piacere) può spesso essere seguita dal desiderio per una rinnovata autorità e controllo, manifestato dall’Ego o dal “principio di realtà”. Questo può effettivamente produrre una forma sovvertita di piacere. Gli ultimi due decenni hanno visto un’enorme espansione del “piacere dell’esperienza” da parte delle élite cosmopolitiche globali, i cui membri tendono, curiosamente, ad identificarsi come di sinistra (usurpando sempre più questa posizione alle classi operaie). Questo aumento di massa del piacere e dell’esperienza tra le élite è andato di pari passo con un crescente secolarismo e la mancanza di qualsivoglia vincolo o autorità morale riconosciuta. Dal punto di vista della psicoanalisi, il sostegno di questa classe alle “misure anti-Covid” si spiega abbastanza facilmente in questi termini: la natura autoritaria di queste misure risponde precisamente al bisogno di un codice morale che intervenga dall’alto per limitare l’(apparente) eccesso di piacere che le ha precedute. Un altro fattore che spiega l’abbraccio della sinistra per le “misure anti-Covid” è la sua fede cieca nella “scienza”. Questo ha le sue radici nella tradizionale fiducia della sinistra nel razionalismo. Tuttavia, una cosa è credere nelle innegabili virtù del metodo scientifico, un’altra è ignorare completamente il modo in cui coloro che sono al potere sfruttano la “scienza” per promuovere la loro agenda. Essere in grado di fare appello a “dati scientifici (apparentemente) oggettivi” per giustificare le proprie scelte politiche è uno strumento incredibilmente potente nelle mani dei governi: è, a ben vedere, l’essenza stessa della tecnocrazia.

Tuttavia, questo significa selezionare attentamente la “scienza” che è di supporto alla tua agenda ed emarginare in modo aggressivo qualsiasi visione alternativa, indipendentemente dal suo valore scientifico. Questo accade da anni nel campo dell’economia.

È davvero così difficile credere che una cosa simile stia avvenendo oggi per quanto riguarda la scienza medica? Non secondo John P. Ioannidis, professore di medicina ed epidemiologia alla Stanford University. Ioannidis ha fatto scalpore all’inizio del 2021 quando ha pubblicato, con alcuni suoi colleghi, un documento in cui affermava che non vi era alcuna differenza pratica in termini epidemiologici tra i paesi che avevano optato per il lockdown e quelli che non lo avevano fatto. Il contraccolpo nei confronti dello studio – e di Ioannidis in particolare – è stato feroce, soprattutto tra i suoi colleghi scienziati. Questo spiega la sua recente denuncia della propria professione. In un articolo intitolato “Come la pandemia sta cambiando le norme della scienza”, Ioannidis osserva che la maggior parte delle persone, specialmente a sinistra, sembra pensare che la scienza operi sulla base delle «norme mertoniane di comunitarismo, universalismo, disinteresse e scetticismo organizzato”». Ma, ahimè, non è così che opera la comunità scientifica, spiega Ioannidis. Con la pandemia sono esplosi i conflitti di interesse delle multinazionali, eppure parlarne è diventato un anatema. Continua Ioannidis: «Agli esperti che hanno guadagnato milioni di dollari per consulenze a società e governi sono stati dati incarichi prestigiosi, potere ed elogi pubblici, mentre gli scienziati senza conflitti che hanno lavorato “pro bono” ma hanno osato mettere in discussione le narrazioni dominanti sono stati tacciati di conflitto di interessi. Lo “scetticismo organizzato” è stato visto come una minaccia per la salute pubblica. C’è stato uno scontro tra due scuole di pensiero, la salute pubblica autoritaria da un lato e la scienza dall’altro – e la scienza ha perso». In definitiva, il palese disprezzo e la presa in giro da parte della sinistra delle legittime preoccupazioni delle persone (in merito ai lockdown, ai vaccini o ai lasciapassare vaccinali) è semplicemente vergognoso. Non solo queste preoccupazioni sono radicate in difficoltà reali, ma derivano anche da una comprensibile sfiducia nei confronti di governi e istituzioni che sono stati innegabilmente catturati da interessi corporativi. Chiunque sia a favore di uno Stato interventista, nel senso progressivo del termine, deve affrontare queste preoccupazioni, non deriderle. Ma dove la risposta della sinistra occidentale si è rivelata più carente è sulla scena mondiale, relativamente all’impatto devastante dei lockdown sui livelli di povertà nel sud del mondo.

Possibile che la sinistra non abbia nulla da dire sull’enorme aumento dei matrimoni infantili, sul crollo dei tassi di scolarizzazione e sulla distruzione del lavoro formale in un paese come la Nigeria, dove il 20 per cento delle persone ha perso il lavoro a causa dei lockdown? O sul fatto che il paese che ha registrato il tasso più elevato di mortalità da Covid nel 2020 è stato il Perù, che ha messo in atto uno dei lockdown più restrittivi al mondo? Su tutto questo, la sinistra è rimasta drammaticamente silente. (…)Tutto questo, per concludere, ha rappresentato un fallimento storico della sinistra. E le sue conseguenze sono facili da prevedere: in futuro, qualsiasi forma di dissenso popolare sarà probabilmente egemonizzata ancora una volta dalla destra (estrema), mentre la sinistra rimane aggrappata a una tecnocrazia di esperti sempre più delegittimata da quella quella che si sta rivelando essere una gestione catastrofica della pandemia in termini di progresso sociale.

(https://unherd.com/2021/11/the-lefts-covid-failure/)

da qui

tutto (o quasi) quello che avresto voluto sapere sul caso Moro, ma non avete mai osato chiedere

 






Le basi americane in Italia e nel mondo - Federico Petroni e Alfonso Desiderio

 

ricordo di Joan Didion

 


Io scrivo unicamente per scoprire cosa sto pensando, a cosa sto guardando, ciò che vedo e ciò che significa. Ciò che voglio e ciò che temo.

 

La paura non è per ciò che è andato perso. Ciò che è andato perso è già murato in una parete. Ciò che è andato perso è già chiuso dietro porte sbarrate. La paura è per ciò che c'è ancora da perdere.

 

Dimentichiamo troppo in fretta le cose che pensavamo di non poter mai dimenticare.

 

Liberarci dalle aspettative degli altri, restituirci a noi stessi - qui risiede il grande, singolare potere del rispetto di se stessi.

giovedì 30 dicembre 2021

La marea nasconde ogni cosa - Cilla Börjlind , Rolf Börjlind

  

Uno dei paesi posto più insicuri del mondo, a leggere i romanzi gialli, dovrebbe essere la Svezia.

L’idea potrebbe venire a che legge molti libri gialli, la realtà è che quel tipo di romanzo è molto diffuso e amato, da chi scrive e chi legge.

Il più famoso scrittore svedese è il grandissimo Henning Mankell, che tanti eredi ed emuli (in senso positivo, naturalmente) ha lasciato, non solo per il personaggio di Kurt Wallander, ma per ogni libro, memorabile, che ha pubblicato (un po’ come Andrea Camilleri, che ha scritto i romanzi con protagonista Montalbano, ma anche tanti altri).

Cilla e Rolf Börjlind, sceneggiatori di serie (Wallander, per esempio, ma anche altre serie), con La marea nasconde ogni cosa scrivono un romanzo avvincente come pochi, quasi come se fosse una sceneggiatura (e infatti da questo libro è stata tratta una serie).

C’è naturalmente un omicidio irrisolto che va chiarito, e così succederà, con colpi di scena ad orologeria, praticamente perfetto.

Cercatelo (in italiano, naturalmente) e godetene tutti, non sarà tempo perso, promesso.

 

 

 

 

 

Isola di Nordkoster, 1987. Ha paura, Ove. Ha solo nove anni, eppure ha capito benissimo cosa sta succedendo laggiù, sulla spiaggia: tre persone vestite di nero hanno sepolto una donna sotto la sabbia, lasciando fuori soltanto la testa. E presto la marea salirà... Il piccolo Ove non può stare a guardare: quando gli sconosciuti lasciano la donna al suo destino, lui corre a chiamare aiuto. Ma è troppo tardi. Stoccolma, 2011. Ha coraggio, Olivia. Ha solo ventiquattro anni, eppure è pronta a tutto pur di scoprire la verità su quanto accaduto a Nordkoster. Per lei, quel vecchio caso irrisolto è molto più di un incarico affidatole dall'Accademia di polizia. Sarà perché ci aveva lavorato suo padre, ex agente morto quattro anni prima. Sarà perché la vittima, la cui identità è rimasta un mistero, aveva più o meno la sua età. Sarà perché il responsabile delle indagini, Tom Stilton, è misteriosamente scomparso nel nulla. Sarà perché, non appena Olivia inizia a fare domande sul delitto di Nordkoster, i pochi testimoni si chiudono in un silenzio ostinato. Sono passati ventiquattro anni da quella notte maledetta, tuttavia lei ha l'impressione che la marea abbia cancellato ogni cosa, tranne il desiderio di vendetta. Come se qualcuno fosse ancora in agguato, nell'ombra, e spiasse ogni sua mossa...

da qui

 

Mi sono immersa nella lettura de La marea nasconde ogni cosa e, seppure il panorama dei protagonisti sia piuttosto ricco e variegato, confesso che Cilla e Rolf Börjlind siano stati abilissimi a legarli praticamente tutti (più o meno) all’indagine principale, ovvero il misterioso delitto della spiaggia, come lo ribattezza la protagonista Olivia. Se nella prima parte sembra che alcune storie non abbiano una logica, ben presto risulta chiaro il legame generale tra le varie storie personali, separate e al tempo stesso unite. Ho trovato veramente accattivante il modo in cui gli autori “spargono” gli indizi tra le pagine del libro e l’intreccio che hanno creato: è facile seguire le logiche congetture dei protagonisti e ritrovarsi a credere alle loro ipotesi, per poi ritrovarsi puntualmente spiazzati da nuovi indizi e nuove teorie.

 

Ho adorato il modo in cui questa storia ha acceso la mia voglia di indagare, facendomi sentire esattamente come una poliziotta alle prime armi, e questo è il motivo fondamentale per cui consiglio La marea nasconde ogni cosa a tutti quei lettori che amano la suspance e l’indagine a 360 gradi. Obbiettivamente, però, se devo trovare un difetto per i miei gusti, la lettura mi è risultata un po’ pesante per la mancanza di una classica suddivisione in capitoli, ma probabilmente anche questo dettaglio non è casuale e ha reso il ritmo dell’indagine assolutamente accattivante.

da qui

 

La vendita di Tim è la più grande cessione di sovranità della storia italiana - Stefania Maurizi

 

L’operazione TIM-KKR è la più grande cessione di sovranità e di diritti umani e civili nella storia della nostra Repubblica. Parola di Stefania Maurizi, giornalista investigativa, che ha lavorato sui documenti WikiLeaks e Snowden files.

Riproduciamo, vista la stringente attualità e dimensione strategica della questione, una serie di tweet della giornalista Stefania Maurizi

Partiamo da questo articolo di 2 giorni fa di Carlo Bonini per Repubblica: https://t.co/6qUaUcMWCg?amp=1

Bonini scrive che è attraverso TIM che l’Italia può interloquire “su base paritaria con i 5Eyes”,l’alleanza di intelligence più potente del mondo. In parte è vero.

E’ assolutamente vero che l’alleanza di intelligence tra Stati Uniti e Italia passa attraverso tanti fattori, tra cui, quello decisivo sono i cavi sottomarini a fibra ottica su cui viaggiano tutte le comunicazioni, quindi transazioni economiche, etc

Ma, contrariamente a quanto scritto da Carlo Bonini , l’Italia NON interloquisce AFFATTO su base paritaria con i 5Eyes, l’Italia è “Tier B”, cioè un partner di serie B. Come l’abbiamo scoperto? Grazie ai file top secret di Snowden.

Leggete questa spiegazione elementare che mi ha dato Glenn Greenwald in questa intervista, l’anno dopo che rivelammo i file di Snowden per l’Italia: https://t.co/DuSc6tgGse?amp=1

Glenn Greenwald spiega in modo elementare che i file di Snowden non lasciano dubbi: l’Italia è “Tier B”, ovvero “gli Usa guardano i partner ‘Tier B’ in primo luogo come nazioni da spiare e solo in secondo luogo come Paesi con cui collaborare a operazioni di intelligence”, dunque l’Italia NON interloquisce AFFATTO con i 5Eyes in modo paritario, AL CONTRARIO è una vittima del loro spionaggio che colpisce tutto: politica, economia, ricerca scientifica, etc.

Fino al 2013, potevamo immaginare, ma NON avevamo prove, con Snowden le abbiamo acquisite e gli USA e i 5Eyes NON hanno più potuto negare. L’ha capito perfino il Copasir: quindi l’hanno capito tutti, ma, ad oggi, questo spionaggio è stato quello che potremmo caratterizzare come un atto ostile nei confronti del governo e del popolo italiano. Ora con l’operazione TIM-KKR ci consegnano direttamente nelle mani della NSA, senza alcuna protezione.

Se l’operazione sarà finalizzata, gli italiani non avranno più alcuna protezione che deriva dall’essere europei e quindi protetti da Costituzioni e leggi che tutelano la privacy e i dati personali. E’ abominevole.

L’operazione TIM-KKR non è banale questione finanziaria: è la più grande cessione di sovranità e di diritti umani e civili nella storia della nostra Repubblica. E’ da opporre con ogni mezzo non violento.

da qui



Glenn Greenwald, così ho sfidato lo spionaggio - Stefania Maurizi

 

«Non ci sono dubbi sul fatto che i servizi segreti italiani abbiano una collaborazione con la Nsa e se il governo di Roma lo nega, allora vuol dire che mente. Ma bisogna anche riconoscere che la National security agency non vede l'Italia come uno dei suoi principali alleati nelle operazioni di sorveglianza di massa e considera il vostro Paese come un bersaglio della sua attività di intelligence». Glenn Greenwald ormai è un'icona del giornalismo indipendente: è a lui che Edward Snowden si è rivolto quando ha deciso di svelare al mondo i segreti della più grande agenzia di spionaggio delle comunicazioni. Uno scoop senza precedenti: la rete planetaria costruita dagli Usa per vigilare su tutte le telefonate, le email e gli scambi informatici del pianeta è stata messa a nudo, mettendo in crisi non solo l'intelligence americana ma lo stesso concetto di privacy.

A un anno esatto da quel contatto misterioso che ha innescato le più potenti rivelazioni della storia contemporanea, Greenwald ha scritto un libro. È un racconto che intreccia la sua avventura personale con le rivelazioni dei file di Snowden: “Sotto controllo”, edito in Italia dalla Rizzoli (373 pagine, 15 euro). Sulla copertina del volume, che Greenwald ha presentato a Milano discutendone in esclusiva con il nostro giornale, è rimasto anche il titolo originale: “No place to hide”, non c'è un posto dove nascondersi. La sintesi di come è cambiata la sua vita e quella di Snowden dopo la sfida al più grande sistema di spionaggio mai costruito.

«Quando ho visto quanti documenti aveva Snowden e quanto erano scottanti, mi sono immediatamente reso conto che i rischi sarebbero stati altrettanto alti. Sapevo che avrei dovuto essere molto aggressivo nel mio lavoro giornalistico e ho capito anche che sarei stato attaccato e minacciato in molti modi. Ancora prima dell'uscita delle rivelazioni c'era moltissima tensione a Hong Kong, dove Snowden si era rifugiato: eravano in tre, in un hotel, senza alcuna forma di protezione. Non avevamo idea di cosa il governo americano sapesse, cosa conoscessero le autorità di Hong Kong e in un certo senso ci aspettavamo che qualcuno potesse bussare da un momento all'altro alla porta. I files che aveva erano documenti su cui qualsiasi agenzia di intelligence del mondo avrebbe voluto mettere le mani”.

Navigavate in acque inesplorate: un'esperienza giornalistica del tutto nuova...
«Esatto. Una delle ragioni per cui ho fatto pressione per uscire presto con la prima tranche di rivelazioni è che ero convinto che la migliore protezione fosse l'interesse del pubblico che i documenti avrebbero sollevato, il clamore mediatico e l'attenzione dei cittadini avrebbero reso impossibile per il governo fare qualcosa contro di noi. I pericoli più seri li abbiamo corsi durante gli incontri iniziali, quando ci siamo visti di nascosto, prima della pubblicazione. E sicuramente abbiamo fatto errori perché non ci sono manuali che ti insegnano come gestire una situazione del genere. Avevamo dei modelli, come quello di WikiLeaks, su come si pubblicano documenti segreti in molte nazioni, come si proteggono i files, ma questa storia avevano anche delle caratteristiche uniche, senza precedenti».

Attualmente vive sotto una qualche forma di protezione?
«Il senato brasiliano ha votato per affidare alla polizia la protezione della mia casa e abbiamo preso alcune ragionevoli misure di sicurezza, ma quello che ho capito fin dall'inizio è che se qualcuno vuole davvero fare qualcosa contro di te, non ci sono difese al mondo salvo avere un intero esercito come quello che protegge Obama. Se vuoi cercare di condurre un'esistenza normale, sarai comunque vulnerabile. Non solo: è importante non essere così preoccupati per la sicurezza, sia per evitare la paranoia, che per evitare che la paura ostacoli seriamente il lavoro giornalistico. E così, all'inizio, il mio compagno, io, Laura Poitras e in un certo senso Edward Snowden abbiano parlato di alcune misure di sicurezza, e una volta messe in atto, non ci ho più pensato».

Grazie a Snowden abbiamo un dibattito mondiale sulla sorveglianza di massa. Come replica a coloro che sostengono che la Nsa non fa altro che quello che fanno le agenzie di intelligence cinesi e russe?
«Non c'è dubbio che Russia e Cina spiino. Tutti i governi lo fanno, ma la questione importante è in quale misura lo fanno e con quali finalità. E anche se tutti i governi spiano, nessuno si avvicina anche lontanamente ai livelli toccati dagli Stati Uniti, che veramente vogliono trasformare Internet in qualcosa in grado di controllare completamente, raccogliendo e immagazzinando tutto, eliminando letteralmente la privacy per tutti in Rete. A differenza dello spionaggio mirato contro obiettivi militari, agenzie di intelligence, leader politici, aziende, come fanno i cinesi e in una misura minore i russi, gli Stati Uniti vogliono avere uno spionaggio indiscriminato, illimitato. Basta vedere le dimensioni della Nsa: 30mila dipendenti, più 50-60mila lavoratori esterni. Nessuno in nessuna parte del mondo ha una simile armata di persone che lavorano alla sorveglianza. E secondo me il discorso della minaccia dei russi e dei cinesi invece è una delle ragioni per cui gli Stati Uniti non dovrebbero minare i protocolli di sicurezza che ci proteggono sulla Rete. Oggi la Nsa spende 75 miliardi di dollari all'anno, la maggior parte dei quali per indebolire le misure che ci garantiscono la privacy su Internet o per distruggerle del tutto, mentre si potrebbe spendere una piccolissima frazione di quel denaro per rafforzarle, in modo da proteggere le comunicazioni delle popolazioni, delle aziende. A quel punto cinesi e russi potrebbero cercare di spiare quanto vogliono, ma con le giuste misure di protezione, sarebbe per loro molto più difficile comprometterne la sicurezza. È questa, secondo me, la reazione giusta allo spionaggio di Russia e Cina, non quella di indebolire tutto».

Lavorando con lei ai file di Snowden, Espresso e Repubblica hanno rivelato le attività della Nsa a danno dell'Italia, in particolare lo spionaggio ai danni della nostra ambasciata a Washington e la raccolta dei metadati relativi alle informazioni su 46 milioni di telefonate. Nonostante queste rivelazioni, il governo italiano nega questi fatti e nega qualsiasi collaborazione con la Nsa. Lei come replica?
«I documenti rendono chiaro al cento per cento e innegabile che la Nsa considera l'Italia un partner "Tier B". I partner “Tier A” sono i “Five Eyes”, i paesi anglofoni, Australia, Canada, Inghilterra, Nuova Zelanda, che sono partner degli Stati Uniti in ogni forma di spionaggio elettronico, e rarissimamente gli Usa spiano questi paesi. I partner Tier B, come l'Italia, collaborano nello spionaggio solo per compiti estremamente limitati e circoscritti, per esempio si può immaginare che lavorino insieme per controllare le comunicazioni in Afghanistan, o quelle di certe nazioni e determinati individui. Ma allo stesso tempo l'Italia e questi paesi sono un bersaglio per lo spionaggio da parte degli Stati Uniti. In particolare i documenti precisano che gli Usa guardano i partner "Tier B" in primo luogo come nazioni da spiare e solo in secondo luogo come Paesi con cui collaborare a operazioni di intelligence. Tutto questo è certo».

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Molti non credono che la raccolta di massa di metadati (l'insieme dei dati che identificano chi chiamiamo al telefono e chi contattiamo via email o sms) sia un problema. Tendono a liquidare a questione, dicendo: sono semplici dati telefonici, nessuno registra il contenuto. Eppure l'ex capo della Nsa, Michael Hayden ha dichiarato recentemente: «Noi uccidiamo utilizzando i metadati». Hayden si riferiva al fatto che grazie a queste informazioni gli Stati Uniti localizzano i presunti terroristi che eliminano con i droni. Cosa risponde a chi minimizza l'incidenza dei metadati sulla privacy?
«A chiunque pensa che la raccolta dei metadati non sia un problema vorrei chiedere una cosa: di mandarmi la lista di tutte le persone che chiama ogni giorno, la lista di quelle da cui riceve chiamate, scrive e risponde via email. Non ho bisogno di alcun contenuto delle conversazioni. Se ho la lista per ogni giornata, sono in grado di capire le cose più intime della vita di quella persona. Se chiama una clinica per gli aborti, un medico specializzato nella cura dell'Aids, un centro per il trattamento delle tossicodipendenze, un servizio per il supporto psicologico, o se è un whistleblower che vuole contattare un giornalista o un attivista per i diritti umani, se contatta un avvocato specializzato in certe questioni, ecco, sapere chiunque chiama quella persona, senza sapere cosa discute al telefono o via email, permette di rivelare informazioni molto invasive sulla vita di una persona. Si possono scoprire molte più cose guardando dall'alto i comportamenti di una persona, attraverso i metadati, che ascoltando le telefonate, perché è la ragnatela di interazioni che dipinge un quadro della vita di un individuo. E quelli che liquidano i metadati come un problema non rilevante, di norma, vengono smascherati proprio chiedendo loro di consegnarci i loro metadati».

Se guardiamo ai file di Snowden, emerge che ci sono anche ragioni per essere ottimisti: la Nsa non riesce a penetrare le comunicazioni protette con la crittografia forte e non riesce a penetrare la rete Tor. Lei crede che stiamo andando verso una società dove solo pochissime persone che hanno capacità di alto livello nel proteggere le proprie comunicazioni, saranno davvero uomini liberi?

«E' una domanda veramente importante: ora che la gente è consapevole del livello di sorveglianza messo in atto dalla Nsa, l'obiettivo più importante è incoraggiare più persone possibile a usare la crittografia e il problema è, come diceva lei, che la crittografia non è facile da usare, se non si è esperti o non si può contare su qualcuno che sappia usarla».

Qualcuno da cui poi ci si trova a dipendere assolutamente per mettere in sicurezza le proprie comunicazioni...
«Ma quello che sta succedendo è che gente di tutto il mondo ora vuole usare la crittografia per proteggersi, e così quello di cui abbiamo davvero bisogno è che queste tecnologie siano accessibili e facili da usare per tutti, senza dover ricorrere a esperti. Se invece di decine di migliaia di persone, saranno decine di milioni a usare questi sistemi criptati, allora la Nsa incontrerà seri ostacoli nello spiare tutti, perché diventerà un'attività estremamente costosa e che richiede molto tempo. E questa è assolutamente la chiave».

Cosa crede che stiano pianificando alla Nsa per uscire da questo scandalo? Secondo lei, aspettano semplicemente che sparisca dallo schermo del radar dell'opinione pubblica?
«La tecnica che usa ogni volta il governo americano quando finisce in una bufera è sempre la stessa: fingere di fare riforme che siano insignificanti e che siano semplicemente finalizzate a proteggere il sistema in modo che vada avanti. Lo stesso Obama è un perfetto esempio di questa tecnica: (prima della sua elezione ndr) gli Stati Uniti erano arrivati a un punto in cui erano visti dallo stesso popolo americano e da tutto il mondo così aggressivi, militaristi e corrotti che c'era bisogno di qualche simbolo che incarnasse le riforme, il cambiamento. Obama ha rimpiazzato Bush e la gente ora pensa che le cose siano migliorate, ma la realtà è che le cose sono andate avanti come prima e addirittura con maggiore forza, perché ora non sono solo i repubblicani a sostenere certe misure, ma anche i democratici. Quello che ora faranno sarà di varare qualche legge che promuovono come riforma. Credo che il compito dei giornalisti sia proprio quello di chiarire che quasi nulla è cambiato e di continuare a fare pressione. Credo che le aziende di tecnologia americane siano seriamente preoccupate per l'impatto di questo scandalo sul loro business, perché per quale ragione la gente dovrebbe comperare tecnologia da loro quando ci sono tante aziende in Germania, Brasile, Asia che dicono: non affidate i vostri dati alla Nsa, affidatevi a noi. Altre nazioni stanno cercando di evitare il dominio americano sulla Rete e a livello individuale la gente comincia a scegliere la crittografia. Sta ai giornalisti fare in modo che la tattica del governo americano non funzioni».

Lei si sente personalmente sotto pressione per il fatto di essere in grado di far cambiare qualcosa in seguito a questo scandalo?
«Avverto la pressione nel senso che mi sento in dovere di pubblicare queste rivelazioni in modo che il dibattito vada avanti in modo informato, ma non mi sento responsabile personalmente per il fatto che si arrivi a delle riforme: quella è una responsabilità di tutti, condivisa, tra giornalisti e gruppi per la difesa della privacy».

Parliamo di Snowden, crede che la Nsa smetterà mai di dargli la caccia?
«No, non credo, forse tra dieci o venti anni si occuperanno di altro, ma non credo che permetteranno mai a Snowden di tornare negli Usa, senza spedirlo in prigione per un lunghissimo periodo di tempo. E questo perché il governo americano è una macchina così grande e che dipende così tanto da un'enorme massa di informazioni digitali, che non c'è modo di prevenire un'altra fuga micidiale di documenti segreti. L'unico modo che hanno di prevenire una fuga di file simile a quella che abbiamo avuto con Chelsea Manning (il militare condannato per avere fornito a WikiLeaks l'archivio della diplomazia Usa ndr) e con Snowden è creare un clima di paura così forte da mandare un messaggio del tipo: se fai una cosa del genere, la tua vita sarà completamente distrutta. È per questo che sono stati così aggressivi con Chelsea Manning, che hanno torturato, così aggressivi nel perseguire WikiLeaks, e perché non potranno mai permettere a Edward Snowden di tornare negli Usa, senza che finisca in prigione. Sono mortalmente terrorizzati del pericolo che altre persone possano ispirarsi a questi esempi».

Ma in un certo senso è una battaglia già persa: dopo Chelsea Manning, e dopo il trattamento durissimo che le hanno riservato, è uscito comunque fuori un Edward Snowden. Il deterrente non ha funzionato.
«È vero. E prima di Chelsea Manning, hanno cercato di distruggere Thomas Drake (l'autore delle prime rivelazioni sulla Nsa ndr). Ma dopo Drake, c'è stata Manning e poi Snowden”.

Che cosa le racconta Snowden della sua attuale vita in Russia?
«Ero in Russia da lui qualche giorno fa: in generale sta molto bene, è lo stesso Edward Snowden che ho incontrato un anno fa a Hong Kong. Essere in un paese che non ha scelto, essere separato dalla sua famiglia è un'esperienza stressante e sono sicuro che lo sia anche per lui. Ma allo stesso tempo ha una pace interiore che gli deriva dalla scelta che ha fatto che gli conferisce una serenità profonda. Mi ha detto che è libero di girare per Mosca, perché il suo aspetto è un po' cambiato, quasi un ragazzo nella folla di Mosca».

Gira liberamente perché è camuffato in modo da passare inosservato?
«Non si camuffa, dall'intervista con la Nbc si vede che il suo aspetto è un po' cambiato, mentre quando l'abbiamo incontrato a Hong Kong è rimasto tre settimane chiuso in camera, ed era pallidissimo, ora ha un aspetto più salutare, cammina, va per negozi, non voglio dire che vive una vita completamente normale, ma molto più ordinaria di quanto non si pensi».

È un dato di fatto che se Snowden è vivo e libero è perché ci sono stati paesi che hanno saputo dire no agli Stati Uniti, a cominciare da Hong Kong, Russia, Venezuela, Nicaragua, Bolivia, Ecuador. Lei come replica a chi dice che Snowden non avrebbe dovuto chiedere aiuto a questi paesi, ma sarebbe dovuto tornare negli Usa e combattere la sua battaglia legale dagli States anche a costo di venire rinchiuso in una prigione di massima sicurezza?
«Posso garantirle che il 99.9 percento delle persone che dicono questo non accetterebbero mai di andare in una prigione di massima sicurezza negli Usa, se si fossero trovati in una situazione analoga. La cosa importante da capire è che la giustizia negli Stati Uniti è profondamente cambiata dopo l'11 settembre: chi è accusato di aver commesso crimini contro la sicurezza nazionale non può più contare su un processo veramente giusto, è quasi una garanzia che finirà condannato. Chi viene incriminato (come Snowden e Manning, ndr) sulla base dell'Espionage Act, non ha il diritto di appellarsi al fatto che ha rivelato certe informazioni perché l'opinione pubblica ha il diritto di conoscerle. E quindi la possibilità di avere un processo giusto non esiste. Perché avrebbe dovuto sottomettersi a un sistema di giustizia così ingiusto e a una prigionia così dura? È un'argomentazione idiota. E che il mondo possa vederlo libero, capace di contribuire al dibattito, è veramente importante per altri whistleblower che volessero seguire il suo esempio».

Hong Kong ha resistito alle pressioni Usa, la Russia ha resistito, ma la terra della libertà e dei diritti umani, l'Europa, ha completamente abbandonato a se stesso Snowden. Si aspettava questa risposta?
«Sì. Una delle cose che mi sorprende è quanta poca dignità i leader di questi paesi europei hanno. Sono completamente sottomessi e arrendevoli alle volontà degli Stati Uniti».

E' importante sottolineare il ruolo di WikiLeaks nel salvare Snowden. Senza la giornalista di WikiLeaks Sarah Harrison, che ha prelevato Snowden da Hong Kong, lo ha accompagnato nel suo volo alla ricerca di asilo, è rimasta con lui 39 giorni nell'aeroporto di Mosca e quattro mesi a Mosca con lui, Snowden non sarebbe libero. Il “Guardian” e il “Washington” Post hanno vinto il più importante premio giornalistico per il loro lavoro sui file di Snowden, non crede che anche WikiLeaks dovrebbe ricevere qualche riconoscimento pubblico per quello che ha fatto nel proteggere la fonte?
«Assolutamente, sono stati cruciali nell'impedire che finisse in una prigione Usa di massima sicurezza. Senza il coraggio di Sarah Harrison, non sarebbe mai accaduto. Sono stato e sono uno dei più grandi difensori di WikiLeaks e mi disturba profondamente quando chi crede nella trasparenza spara su WikiLeaks. L'organizzazione è imperfetta, Julian Assange è imperfetto, come tutti noi, ma il ruolo che giocano è così importante. E lo dico anche se qualche giorno fa WikiLeaks ha criticato me e The Intercept (il suo giornale, ndr), in modo duro: va bene così. Sono contento che ci siano e che facciano sempre pressione per una maggiore trasparenza. E non credo che ci sarebbe stato nessun altro gruppo o persona che avrebbe fatto in quel momento quello che WikiLeaks e Sarah Harrison hanno fatto per Edward Snowden: era il ricercato più ricercato del mondo, nel mirino del più potente governo del globo».

Nel suo libro lei è molto duro con i giganti del giornalismo: “New York Times”, “Washington Post” e perfino il “Guardian”. Cosa pensa di fare con la sua nuova creatura, “Firstlook”: lei si trova a operare nello stesso contesto legale e politico in cui operano gli altri giornali, come pensa di poter fare un giornalismo aggressivo?
«È esattamente la domanda a cui stiamo cercando di rispondere. E non è facile. La cosa per me più interessante, la ragione per cui sono ottimista sul futuro del giornalismo, è la Rete, perché Internet permette di fare giornalismo in un modo completamente libero. Il problema è che le persone che fanno quel tipo di lavoro, spesso non hanno le risorse necessarie per fare inchieste contro grandi agenzie del governo. E se invece si hanno risorse è perché si finisce per lavorare per i grandi gruppi editoriali che ti dicono cosa devi fare e non puoi metterci la tua passione. Vogliamo creare un'organizzazione giornalistica dove i reporter sono completamente liberi e indipendenti, ma allo stesso tempo hanno tutte le risorse necessarie. Puntiamo a potenziare il giornalismo indipendente».

Ha paura di finire come Bob Woodward e altri grandi del giornalismo che lei sembra considerare come i custodi dei segreti di Washington, che passano l'intero giorno a parlare con i papaveri alti del governo e a far uscire i segreti che le varie fazioni del governo vogliono fare uscire per promuovere questa o quell'agenda?
«Credo sia sbagliato assumere di essere immuni da tutte queste dinamiche che corrompono l'integrità di un giornalista. La ragione per cui si finisce compromessi è che le dinamiche sono così potenti. Più si diventa professionisti di successo, più si diventa visibili, più si guadagna, più si ha accesso agli alti livelli del potere, più il rischio di diventare compromessi è serio. E la ragione per cui si finisce corrotti è che ci si ritiene immuni. Personalmente cerco ogni giorno di essere consapevole di quelle tentazioni, ma questo non è di per se una garanzia che ci riuscirò. Una delle cose che mi rende felice è che, se si guarda alla recensione del “New York Times” del mio libro, mi considerano ancora un outsider, mi fanno capire che nonostante il Pulitzer, rimango fuori dal club. E questo mi rasserena, perché non mi fa sentire troppo avvolto nelle dinamiche dell'establishment del giornalismo, che di fondo, considero corrotto».

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"Media e scienza sono al servizio di Big Pharma e politica" - Vittorio Agnoletto

 

Lorenzo Zacchetti intervista Vittorio Agnoletto

Dura presa di posizione del medico: "Al di là dei conflitti di interesse, c'è dietro l'idea che i cittadini siano bambini incapaci di decidere"

La scienza si è messa al servizio della politica e i media mainstream assomigliano a megafoni delle case farmaceutiche. Una presa di posizione molto dura, che non arriva da un alfiere del fronte No Vax, ma da un medico molto stimato come Vittorio Agnoletto, docente di Globalizzazione e Politiche della Salute all’Università degli Studi di Milano. Già presidente nazionale di LILA (Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS), nonché portavoce del Genoa Social Forum al G8 del 2001, Agnoletto è anche conduttore di “37, 2°”, che va in onda su Radio Popolare.

Proprio nel corso di una diretta sull’emittente milanese, Agnoletto ha parlato del complesso rapporto tra politica, scienza e informazione nell’era del Covid-19: “Il primo errore è stato confondere le aree di intervento dell’informazione, della scienza e della politica. La scienza è importante, ma deve rimanere nel suo ruolo.

Deve dire: ‘Fino a qui abbiamo delle certezze, da qui in poi abbiamo delle ipotesi da verificare, oltre abbiamo dei punti di domanda ancora da esplorare totalmente’. A quel punto la comunicazione deve fare un lavoro molto complesso: trasformare queste informazioni tecnico-scientifiche in un linguaggio comprensibile da tutti, stabilendo certamente quali sono le notizie da dare per prime, quelle in secondo e quelle in terzo piano, ma cercare di passare tutte quelle fondamentali. La politica, di fronte a quei dati scientifici, deve assumersi le responsabilità, il diritto e dovere di decidere senza piegare la scienza ai propri desiderata. E la scienza non deve farsi piegare ai desiderata della politica”.

 

Gli errori su Astrazeneca, vaccini e immunità di gregge

Alla domanda se effettivamente la scienza si sia piegata alla politica dallo scoppio della pandemia ad oggi, Agnoletto ha risposto: “Totalmente! È questo il punto: la scienza (in gran parte, poi ci sono sempre le eccezioni) si è lasciata andare a dire quello che la politica in quel momento voleva sentirsi dire”. Agnoletto ha citato anche alcuni casi nei quali ciò è successo: “Ad esempio dicendo che saremmo arrivati all’immunità di gregge, oppure che con il vaccino avremmo potuto tutti fare una vita tranquilla, oppure ancora l’esaltazione degli Open Day di Astrazeneca. Per chiunque si occupi di sanità pubblica, gli Open Day di Astrazeneca sono un controsenso, perché gli interventi di sanità sono rivolti alla singola persona: per ognuno bisogna valutare se un vaccino va bene oppure no, che patologie pregresse abbia, che allergie abbia e via dicendo. Non sono una festa popolare nella quale la gente si mette in coda, ‘avanti uno e dietro quell’altro’! In più: è vero che avevamo dei residui forti di Astrazeneca, ma questo non era sufficiente per dire che andavano utilizzati su una popolazione rispetto alla quale erano già uscite delle ricerche che dicevano che non era il vaccino più adatto. E la scienza su tutto questo ha taciuto, è stata zitta, e questo non va assolutamente bene”.

 

“I media mainstream sono dei megafoni di Big Pharma”

Nel corso della trasmissione “Prisma”, Agnoletto ha aggiunto che “la politica aveva bisogno di dire che avevamo un vaccino che con una sola somministrazione risolveva tutto (Johnson & Johnson) e la scienza le è andata dietro. Ma questo è un punto molto molto importante: la divisione dei ruoli. Non parliamo dei media mainstream: sono ormai diventati dei megafoni dei comunicati-stampa delle aziende farmaceutiche! Non c’è nessun tentativo di approfondimento, di scavare. Ma dietro – a parte i problemi di dipendenza e di conflitti di interesse col potere delle Big Pharma – c’è un’idea: considerare i cittadini e le cittadine italiane un po’ come bambini, come incapaci di assumersi delle responsabilità. Si tende sempre a semplificare il messaggio e così si rischia anche di dire delle stupidate che poi vengono smentite (…). Abbiamo avuto dichiarazioni di EMA che dopo due o tre settimane sono state smentite, basti pensare a Johnson&Johnson o ad Astrazeneca che inizialmente si era detto che non andasse assolutamente utilizzata con le persone anziane e poi esattamente il contrario. Qui c’è il ruolo di EMA: l’ente regolatorio europeo non ha un’autonomia finanziaria, per cui non può andare direttamente a verificare dei trial ed eventualmente a rifarli, ma lavora solo e unicamente sulla documentazione presentata dalle aziende farmaceutiche. In più c’è una porta girevole, per cui a volte ai vertici di EMA si trova chi prima era in azienda farmaceutica e viceversa. EMA va riformata. Deve avere maggiore autonomia e quindi maggiore credibilità scientifica”.

 

Quanti silenzi sugli effetti collaterali dei vaccini

“Io non credo che sia un’opera utile che i grandi media tacciano degli effetti collaterali delle vaccinazioni. L’ultima puntata di ’37,2°’, proprio su questo tema, sarebbe potuta durare altre due ore. Abbiamo risposto a domande che in genere vengono eluse dagli infettivologi. Gli effetti collaterali ci sono. Alcuni sono banali, semplici, che si risolvono in 48 ore, ma ci sono anche effetti collaterali più pesanti che possono durare per settimane e mesi. Se questo non viene detto, quando uno fa un vaccino e poi dopo sviluppa degli effetti collaterali, si preoccupa moltissimo perché pensa di essere un caso quasi unico e la prima cosa che fa è dire a chi gli sta intorno di aspettare a fare il vaccino. Se invece gli effetti collaterali sono spiegati, relativizzandoli anche nella loro numerosità (cioè nell’incidenza che hanno sulle persone vaccinate), spiegando anche che il rapporto tra rischio e beneficio è comunque favorevole a quest’ultimo, se si spiega che chi ha certe patologie pregresse è bene che faccia il vaccino in ospedale e che si consulti prima con un medico, ecc., non solo ridurremmo gli effetti collaterali, ma manderemmo un messaggio più corretto, che in qualche modo tranquillizza le persone, ma soprattutto stabilisce un rapporto di verità. A quel punto, andremmo a togliere un’arma fondamentale ai No Vax, che altrimenti dicono: ‘Vedete, la gente si infetta anche se vaccinata’. Se non hai detto prima che i vaccini servono soprattutto a bloccare l’evoluzione della malattia, sei preso in contropiede. E lo stesso vale per gli effetti collaterali, se non ne hai parlato prima”.

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mercoledì 29 dicembre 2021

Il sequestro giudiziario di Julian Assange - John Pilger

 

Guardiamoci, se ne abbiamo il coraggio, e vediamo quel che avviene di noi
Jean-Paul Sartre

Le parole di Sartre dovrebbero riecheggiare nelle nostre menti dopo la grottesca decisione dell’Alta Corte britannica di estradare Julian Assange negli Stati Uniti dove affronterà “una morte vivente”. Questa è la sua punizione per il crimine di giornalismo autentico, accurato, coraggioso e vivo.

Errore giudiziario è un termine inadeguato in queste circostanze. Ci sono voluti solo nove minuti venerdì scorso ai cortigiani dell’ancien regime britannico per accogliere l’appello statunitense e ribaltare il verdetto di gennaio in cui il giudice della Corte Distrettuale riconosceva nel monte di prove l’evidenza dell’inferno in terra che attende Assange oltre l’Atlantico: un inferno in cui, è sapientemente previsto, troverà un modo per togliersi la vita.

Volumi di testimonianze di persone autorevoli, che hanno esaminato e analizzato Julian, che hanno diagnosticato il suo autismo e la sua sindrome di Asperger e hanno rivelato che era già arrivato a un soffio dal suicidarsi nella prigione di Belmarsh, l’inferno della Gran Bretagna, sono stati ignorati.

La recente ammissione di un cruciale informatore dell’FBI e tirapiedi dell’accusa, un truffatore e bugiardo seriale, che aveva fabbricato le sue prove contro Julian, è stata ignorata. La rivelazione che la società di sicurezza gestita dagli spagnoli presso l’ambasciata ecuadoriana a Londra, dove Julian aveva ottenuto rifugio politico, era una copertura della CIA che spiava gli avvocati, i medici e i confidenti di Julian (me compreso) – anche questo è stato ignorato.

La recente rivelazione giornalistica, ripetuta chiaramente dagli avvocati della difesa davanti all’Alta Corte in ottobre, che la CIA aveva pianificato di uccidere Julian a Londra – anche questo è stato ignorato.

Ognuna di queste “fattispecie”, come piace dire agli avvocati, era sufficiente da sola per un giudice fautore della legge, per buttare via il vergognoso caso montato contro Assange da un corrotto Ministero della Giustizia degli Stati Uniti e dai loro sicari in Gran Bretagna. Lo stato mentale di Julian, ha urlato James Lewis QC, l’uomo degli USA all’Old Bailey l’anno scorso, non era altro che malingering (di chi simula, fingendosi malato, ndt): termine arcaico usato per negare l’esistenza stessa della malattia mentale.

Per Lewis, quasi tutti i testimoni della difesa, compresi quelli che descrivevano dal profondo della loro esperienza e conoscenza, il barbaro sistema carcerario statunitense, erano da interrompere, maltrattare, screditare. Seduto dietro di lui, a passargli gli appunti, c’era il suo consulente americano: giovane, con i capelli corti, chiaramente un uomo della Ivy League in ascesa.

Nei loro nove minuti per decretare il destino del giornalista Assange, due dei giudici più anziani della Gran Bretagna, tra cui il giudice capo dell’Alta Corte britannica Lord Burnett (un amico di una vita di Sir Alan Duncan, l’ex ministro degli esteri di Boris Johnson che ha organizzato il brutale rapimento di Assange dall’ambasciata ecuadoregna da parte della polizia) non hanno fatto alcun riferimento al rosario di verità emerse nelle precedenti udienze della Corte distrettuale – verità che avevano fatto fatica ad essere ascoltate in una corte inferiore presieduta da un giudice stranamente ostile, Vanessa Baraitser. Il suo comportamento offensivo nei confronti di un Assange chiaramente provato, che lottava attraverso la nebbia dei farmaci somministrati in prigione per ricordare il suo nome, è indimenticabile.

Ciò che è stato veramente scioccante venerdì scorso è che i giudici dell’Alta Corte – Lord Burnett e Lord Timothy Holyrode, che hanno letto le loro sentenze – non hanno mostrato alcuna esitazione nel mandare Julian alla morte, vivo o meno. Non hanno offerto alcuna attenuazione, nessun indizio di essersi soffermati sulle questioni legali o persino sulla moralità di fondo della vicenda.

La loro sentenza a favore, se non a nome degli Stati Uniti, è basata interamente su “assicurazioni” palesemente fraudolente messe insieme dall’amministrazione Biden quando a gennaio sembrava che la giustizia potesse prevalere.

Queste “assicurazioni” sono che una volta in custodia americana, Assange non sarà soggetto alle orwelliane SAMS – Misure Amministrative Speciali – che lo renderebbero una non-persona; che non sarà imprigionato all’ADX Florence, una prigione in Colorado a lungo condannata dai giuristi e dai gruppi per i diritti umani come illegale: “una fossa di punizione e sparizione”; che potrà essere trasferito in un carcere australiano per finirvi la sua pena.

L’assurdità sta in ciò che i giudici hanno omesso di dire. Nell’offrire le loro “assicurazioni”, gli Stati Uniti si riservano il diritto di non garantire nulla se Assange fa qualcosa che non piace ai suoi carcerieri. In altre parole, come Amnesty ha sottolineato, si riservano il diritto di rompere qualsiasi promessa.

Ci sono abbondanti esempi di come gli Stati Uniti adottino questo comportamento. Come ha rivelato il mese scorso il giornalista investigativo Richard Medhurst, David Mendoza Herrarte è stato estradato dalla Spagna agli Stati Uniti con la “promessa” che avrebbe scontato la sua pena in Spagna. I tribunali spagnoli consideravano questa come una condizione vincolante.

“Documenti classificati rivelano le assicurazioni diplomatiche date dall’ambasciata statunitense a Madrid e come gli Stati Uniti abbiano violato le condizioni dell’estradizione”, ha scritto Medhurst, “Mendoza ha passato sei anni negli Stati Uniti cercando di tornare in Spagna. I documenti del tribunale mostrano che gli Stati Uniti hanno negato più volte la sua domanda di trasferimento”.

I giudici dell’Alta Corte – che sono a conoscenza del caso Mendoza e dell’abituale doppiezza di Washington – descrivono le “assicurazioni” rese dagli USA di trattenersi da un comportamento bestiale verso Julian Assange come un “impegno solenne offerto da un governo a un altro governo”. Questo articolo si estenderebbe all’infinito se elencassi tutte le volte che i rapaci Stati Uniti hanno rotto “impegni solenni” verso altri governi, come i Trattati che vengono sbrigativamente stracciati e le guerre civili che vengono fomentate. È il modo in cui Washington ha governato il mondo, e prima degli USA, la Gran Bretagna: il modo del potere imperiale, come ci insegna la storia.

È questa menzogna e doppiezza istituzionale che Julian Assange ha portato allo scoperto e così facendo ha svolto forse il più grande servizio pubblico di qualsiasi giornalista nei tempi moderni.

Julian stesso è stato prigioniero di governi bugiardi per più di un decennio. Durante questi lunghi anni, sono stato seduto in molti tribunali mentre gli Stati Uniti hanno cercato di manipolare la legge per mettere a tacere lui e WikiLeaks.

Questa persecuzione ha raggiunto un momento curioso quando, nella piccola ambasciata ecuadoregna, lui ed io fummo costretti ad appiattirci contro un muro, comunicando ognuno con un taccuino e avendo cura di schermare ciò che ci scrivevamo dalle onnipresenti telecamere spia, installate, come ora sappiamo, dalla CIA, la più longeva organizzazione criminale del mondo.

Questo mi porta alla citazione all’inizio di questo articolo: “Guardiamoci, se ne abbiamo il coraggio, e vediamo quel che avviene di noi”.

Jean-Paul Sartre ha scritto questo nella sua prefazione a I miserabili della terra di Franz Fannon, lo studio classico su come i popoli colonizzati, conquistati, costretti, eseguono, sì vigliacchi, gli ordini dei potenti.

Chi di noi è pronto ad alzarsi piuttosto che rimanere semplice spettatore di una farsa epica come il sequestro giudiziario di Julian Assange? La posta in gioco è sia la vita di un uomo coraggioso che, se restiamo in silenzio, la conquista dei nostri intelletti e del senso del giusto e dell’errato: in effetti la nostra stessa umanità.

da qui

Quella fretta di vaccinare i bambini - CMS indipendente


Questa la posizione sulle vaccinazioni antiCovid pediatriche della Commissione Medico-Scientifica indipendente (costituita da Paolo Bellavite, ematologo; Marco Cosentino, farmacologo; Vanni Frajese, endocrinologo; Alberto Donzelli, esperto di igiene e medicina preventiva; Patrizia Gentilini, oncologa; Eugenio Serravalle, pediatra).

 

Vaccinazioni pediatriche antiCovid-19:

16 motivi per dire No, non avere fretta di vaccinare tuo figlio

Il 2 dicembre dal Corriere della Sera il professor Michele Dallapiccola ha posto una domanda pubblica: “Per quale ragione non dovrebbero essere vaccinati?”. Eccone sedici, che noi della Commissione Medico-Scientifica (CMS) indipendente vogliamo discutere con il CTS governativo.

1. Non c’è alcuna emergenza Covid tra i bambini. Se sono contagiati dal SARS-CoV-2 sono in genere asintomatici o con sintomi lievi.

2. Non c’è aumento di mortalità per Covid tra i bambini. L’aumento delle infezioni tra i bambini non ha causato un aumento di mortalità. Da 0 a 19 anni l’ISS ha registrato finora 35 morti, cioè ~20 casi/anno, che – su 10.431.663 bambini/ragazzi 0-19 anni (ISTAT) – significa 1 decesso ogni 522.000 bambini/anno, cioè 0,19 decessi su 100.000, 125 volte meno dei 2.505 bambini morti in media ogni anno nel quinquennio 2015-2019.L’aumento delle infezioni tra i bambini non ha causato un aumento di mortalità. Buona parte dei 2.500 decessi annui da altre cause sarebbero prevenibili, e meriterebbero ben maggiore attenzione. Invece, non è scontato che le vaccinazioni avrebbero salvato parte di questi 20 morti/anno da COVID-19, trattandosi in maggioranza di soggetti già affetti da serie patologie.

3. I rischi di ricovero per Covid nei bambini sono molto ridotti. Anche i rischi di ricovero in terapia intensiva sono molto ridotti: 1 su oltre 46.000 diagnosi di COVID-19, e riguardano spesso bambini con altre patologie. In Germania, tra bambini 5-11 anni senza patologie, il rischio è di 1 su 50.000, e nessuno è morto.

4. La MIS-C è rara/molto rara e i sintomi da Long Covid sono lievi. La sindrome di infiammazione multisistemica pediatrica temporalmente correlata a Sars-CoV-2 (PIMS-TS, detta anche MIS-C) è rara (3,16 su 10.000 bambini infettati con Sars-CoV-2 negli USA, dove colpisce in modo del tutto sproporzionato bambini neri, ispanici e asiatici rispetto ai bianchi, e molto rara in Germania: 1,7 su 10.000 casi positivi). Inoltre, l’associazione con SARS-CoV-2 è possibile ma incerta e non è chiarito in quale misura le vaccinazioni la evitino. La durata e gravità dei sintomi del “Long Covid” sono simili a quelli di comuni patologie virali, il numero dei sintomi sembra in media persino minore (ha sintomi persistenti a 4 settimane l’1,8% dei bambini dopo COVID-19, lo 0,9% di quelli dopo altre infezioni virali respiratorie; ma in media con COVID-19 ha solo 2 sintomi, e 1 spesso è anosmia; con altre infezioni respiratorie 5 sintomi). Terapie precoci efficaci possono ridurre la gravità dei rari casi complicati e le conseguenze a lungo termine.

5. Anche vaccinando i bambini (e chiunque) non si raggiunge l’immunità di gregge. È impossibile ottenere l’immunità di gregge con le vaccinazioni in uso a causa: • della rapida diminuzione della protezione indotta dal vaccino, che a 6-7 mesi (pag. 27) o 9 mesi (pag. 33) può diventare persino negativa, • dell’incapacità di prevenire la trasmissione di SARS-CoV-2 a distanza del completamento del ciclo vaccinale • della presenza di un gran numero già identificato di serbatoi animali, anche domestici. Nell’ultimo mese il tasso di infezioni su 100.000 è stato di circa 800 casi tra i non vaccinati e 400 tra i vaccinati (con ciclo completato da pochi mesi, quando la protezione è massima). Dunque, se anche si vaccinasse il 100% della popolazione, il 50% resterebbe suscettibile a infettarsi/infettare.

6. I bambini non sono causa importante di trasmissione in famiglia. I bambini non sono i maggiori determinanti nella diffusione del virus nemmeno in ambito familiare.

7. I non vaccinati non favoriscono in modo particolare varianti e circolazione virale. La mancata vaccinazione non favorisce la circolazione del virus e la nascita delle varianti rispetto ai vaccinati, nel medio periodo. Infatti, in un anno di 52 settimane, se il bambino non si infetta non è mai infettivo, se si infetta lo è per una settimana, e per le altre 51 è immune. Anche il vaccinato è più suscettibile a infezioni nelle due settimane che seguono l’inoculo.

8. Non è etico vaccinare i bambini per proteggere indirettamente altri. Se anziani e soggetti fragili sono immunizzati, i rischi di trasmissione derivanti dalla mancata vaccinazione dei bambini sono molto ridotti.

9. Il numero di bambini (e di eventi rilevati) nei trial sui vaccini è insufficiente. Il numero di bambini reclutati negli studi clinici di fase 2/3 (1517 vaccinati vs 751 con iniezione salina) e seguiti per soli 2,3 mesi è insufficiente per rilevare possibili eventi avversi gravi e rari.

10. I rischi della vaccinazione pediatrica superano i benefici (salvo eccezioni). I rischi della vaccinazione COVID-19 in età pediatrica superano in modo dimostrabile i benefici, sia negli studi registrativi, sia nei pochi esempi di sorveglianza attiva, che mostrano reazioni avverse severe, con impatto sulla salute (dall’impedire la normale attività quotidiana in su), nell’11%~ di 12-17enni dopo la 1a dose e nel 27% in media dopo la 2a dose (Table 3 del pdf). L’AIFA afferma “non si rilevano al momento segnali di allerta in termini di sicurezza”. Ma la sorveglianza passiva, che fa dichiarare all’AIFA “128 segnalazioni di reazioni avverse ogni 100.000 dosi somministrate” sottostima di centinaia di volte le reazioni avverse rilevate dai CDC USA con sorveglianza attiva v-safe negli adulti (Lettera 97 Gruppo NoGrazie, pag. 2-5) e negli adolescenti. Bambini e adolescenti sarebbero esposti a rischi di eventi avversi anche severi non solo immediati, ma possibili anche a medio e lungo termine, che iniziano a emergere con aumento di miocarditi nei maschi, di irregolarità mestruali nelle femmine e di malattie autoimmuni. Gli eventi avversi possono aumentare con i richiami, prospettati ormai almeno ogni anno.

NB: gli esiti più definitivi (mortalità totale, non solo da COVID) nei trial clinici con vaccini a mRNA sugli adulti non sono ad oggi rassicuranti, e richiederebbero un urgente approfondimento scientifico, come pure l’eccesso di mortalità nelle fasce di età inferiori ai 65 anni nel 2021 rispetto al 2020 che emerge in EuroMOMO, coerente con i dati ISTAT 2021 verso 2020 ad oggi disponibili per adolescenti e giovani adulti italiani.

11. È in generale controproducente impedire l’infezione da Sars-CoV-2 nei bambini. Questo perché li espone al rischio di contrarre la malattia in età più avanzate, con maggiori possibilità di decorsi più gravi, mentre in età pediatrica la malattia sarà quasi sempre lieve o asintomatica e produrrà un’immunità naturale persistente.

12. Con opportune cautele, l’immunità naturale andrebbe favorita in queste fasce d’età. Vanno discusse in base a dati scientifici strategie che consentano lo sviluppo dell’immunità naturale nei gruppi a minimo rischio di forme gravi di COVID-19, poiché allo stato delle conoscenze l’immunità acquisita con l’infezione naturale è più robusta e duratura di quella vaccinale. Ciò dà un vantaggio individuale al bambino, ma anche alla sua famiglia, ai nonni e all’intera comunità.

13. Prima dei bambini è equo e ragionevole vaccinare anziani e fragili. Come sostenuto anche dall’OMS, non sarebbe equo vaccinare i bambini quando in molti Paesi anziani e fragili che ne avrebbero maggior beneficio non possono accedere alla vaccinazione.

14. I conflitti di interessi rendono tanti studi poco affidabili. Gli studi sinora pubblicati sono finanziati dal produttore, gli autori sono in maggioranza dipendenti o con importanti relazioni finanziarie con le industrie produttrici, il numero di eventi è basso al momento dell’interruzione/rottura anticipata del doppio cieco negli studi: queste tre condizioni portano ciascuna a esagerare in modo sistematico i benefici.

15. Le società professionali, finanziate dalle case farmaceutiche, non esprimono linee guida indipendenti. Importanti Società professionali che insistono per una vaccinazione universale dei bambini ricevono cospicui finanziamenti dalle industrie farmaceutiche (esempio).

16. Non sono ancora disponibili cure per i bambini danneggiati da questi vaccini, mentre sono disponibili interventi profilattici e utili terapie precoci per la COVID-19.


La Commissione Medico-Scientifica indipendente ha chiesto in modo formale un confronto scientifico urgente con il CTS del Governo (che oggi sta promuovendo una vaccinazione universale e indiscriminata), anche rispetto all’urgenza e alla necessità di questa vaccinazione in età pediatrica.

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