sabato 4 dicembre 2021

La solitudine del sovversivo - Marco Bechis

Dopo il 1968, la forza dei sindacati, le idee di rivoluzione, il Potere, quello vero, piano piano riprende il comando, dappertutto, da qualche parte con i servizi segreti (deviati?), come in Italia, o con l’avanzata di forze politiche di destra (Thatcher e Reagan, qualche anno dopo, per esempio), mentre in altri stati, a sud degli Usa, e in Africa, direttamente, a qualsiasi costo, con colpi di stato militari, sostenuti direttamente o indirettamente dagli Usa e dalle potenze ex(?) coloniali.

In quel momento storico, nell’Argentina dei Generali, il 19 aprile del 1977 si trova Marco Bechis, a vent’anni, in una Ford Falcon degli squadroni della morte. (“Avevo vent'anni, non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita", scriveva Paul Nizan).

Marco Bechis racconta il prima e il dopo della sua permanenza in una prigione segreta, da cui uscirà dopo un po’ di giorni per altre prigioni “normali” e poi tornerà in Italia, grazie all’intervento di qualche potente argentino allertato dalla famiglia di Marco.

Il suo racconto, di uno che c’è stato, in quei luoghi di tortura e di morte, fa stare male, pensando a tutti quelli che sono stati ammazzati per le torture o i voli della morte.

Marco Bechis non è diventato un maestro argentino per i bambini della pampa, è diventato un regista, con l’Argentina e l’America Latina nel cuore (Alambrado, Garage Olimpo, Hijos-Figli, Birdwatchers - La terra degli uomini rossi  sono alcuni dei suoi grandissimi film).

Un libro per conoscere o per non dimenticare quello che è stato (e che succede, e succederà, quotidianamente, in molte prigioni del mondo).


ps: mi è tornato in mente questo libro

 

 

…Il libro di Marco Bechis è allo stesso tempo fragile e potente perché la sua narrazione è quella di chi cammina da equilibrista su di una corda il cui intreccio è fatto dall’imbarazzo dello scampato alla morte per i privilegi dettati dall’appartenenza familiare e dal coraggio dell’uomo da sempre impegnato a testimoniare quanto accaduto a lui (vivo) e ai suoi compagni di lotta (morti), senza scadere mai nella retorica dell’eroe e della vittima. L’eroe e la vittima sono due posture la cui resa economica è garantita per chi vuole cimentarsi, protagonista più o meno consapevole di epoche “interessanti” e segnate da accadimenti storicamente rilevanti, nella narrazione per il grande pubblico dei lettori.

Uscire da quella retorica nella quale chiediamo riconoscimento rappresentandoci all’esterno come vittime e/o eroi – solo per il semplice fatto di essere stati testimoni attivi in qualche modo di fatti storicamente rilevanti – e affrontare, narrando ad altri, la propria esperienza umana invece per quella che è stata veramente, senza fare sconti a sé stessi è un atto sovversivo. E molto umano. Per questo un atto, quello di Bechis, che sovverte un tempo, quello in cui viviamo, sempre più segnato dall’indifferenza.

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Nelle pagine Bechis racconta di sé: la morte del fratellino, il girovagare tra i due continenti, gli studi, l’impegno politico in Argentina e in Italia, la vita che cambia le carte in tavola per portarti altrove da dove avevi progettato di essere, lo sradicamento da una terra che sentiva sua, l’esordio nel mondo del cinema, il documentario sulla guerra in Bosnia, gli affetti. E infine la testimonianza nel processo del 2010 a Buenos Aires, dove giustizia fu fatta, seppur tardivamente dopo anni di impunità grazie alle amnistie di stato che si erano susseguite nel tempo.

Scrivere come terapia, un modo per darsi una risposta al lacerante dilemma di tutti i sopravvissuti di ogni epoca “perché io?”. Per chi legge è una testimonianza che non può essere ignorata, soprattutto nel momento che stiamo vivendo.

Senza nulla togliere alle preoccupazioni per la salute, per l’economia, per le sorti del nostro mondo, questo tipo di lettura è necessario e dovrebbe condurre a riflessioni profonde. Siamo in una democrazia, seppure per tanti versi imperfetta, abbiamo la libertà, siamo padroni delle nostre vite. In altre parti del mondo ancora oggi non è così. Il mio pensiero va a Patrick Zaki e a tanti senza nome nelle sue condizioni, oggi.

Nelle parole di Marco Bechis ci sono tutte le storie di quei 30 mila desaparecidos, mai più tornati, sepolti in fondo al mare o in una fossa comune, senza nemmeno una tomba su cui piangerli. Tra loro tante giovani donne costrette a partorire in condizioni disumane (e solo una donna può capire cosa devono avere provato) per poi vedersi sottrarre i bambini, affidati a famiglie di militari. Tanti vivono ancora inconsapevoli al lato dei carnefici dei veri genitori, nonostante le battaglie delle abuelas (le nonne di Plaza de Mayo) per rivendicare il loro diritto a ricongiungersi con i nipoti nati in cattività e rubati alla nascita.

Un libro che conserverò tra quelli che mi hanno più segnato in tema di diritti umani: “La noche de los lapices”, “Mi chiamo Rigoberta Menchu”, “Il racconto di Peuw bambina cambogiana“, “Arcipelago Gulag” di Aleksandr Solženicyn e naturalmente Primo Levi.

Per non dimenticare, mai.

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Buenos Aires, 19 aprile 1977. All'uscita della scuola dove studia, Marco Bechis viene sequestrato da un gruppo di militari in borghese. Ha vent'anni. Il racconto della sua tragica avventura esistenziale inizia qui, ma ha radici lontane. Con scrittura veloce e inesorabile, Bechis ci trascina nei giorni e nelle notti della sua infanzia e della sua adolescenza vissute tra l'Italia e l'Argentina della dittatura militare, fin quando lui, ragazzo di buona famiglia cosmopolita, si avvicina al movimento di opposizione dei Montoneros e finisce in un carcere clandestino. I genitori, dopo vari tentativi disperati, ottengono la sua scarcerazione e così ritorna in Italia da uomo libero. Ma per molti altri compagni la sorte non è la stessa. Durante tutta la sua vita da sopravvissuto, Bechis si sente un usurpatore, un traditore. Finché, scrivendo questo libro, capisce di essere una vittima. Diventato regista, aveva provato a chiuderei conti in un film come "Garage Olimpo". Ma solo qui, in queste pagine, la sua storia si è compiuta, con questo racconto personale che è insieme una voce unica, quella di un paese e di un'intera generazione. Cineasta visionario, Bechis si fa osservatore e testimone, e alla fine ci porta dentro l'aula del tribunale di Buenos Aires dove ha affrontato i suoi carcerieri alla sbarra. Vivere, testimoniare con l'arte, testimoniare di fronte alla giustizia o scomparire nell'ombra?

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…Per dire quanto il trauma strutturi intorno a sé un’intera esistenza, Bechis lavora innanzitutto sul montaggio, scartando la linearità cronologica per articolare la sua storia intorno alle due date chiave che ne costituiscono gli estremi piscologici e che danno il titolo alle due parti maggiori del libro (la terza, Trent’anni dopo, è una coda della seconda). Il sequestro e la testimonianza sono i due punti zero a partire dai quali, con una lunga serie di flashback alternati a bruschi ritorni al momento presente, quello che viene prima è ripercorso, riorganizzato, riletto e trova il proprio posto in una trama di rimandi e talvolta di premonizioni.

Nella prima parte, che si configura come un romanzo di formazione individuale e generazionale insieme, affiorano la morte del fratello minore, il “desaparecido” di una storia familiare destinata a esserne irrimediabilmente squilibrata; gli ideali rivoluzionari della giovinezza naufragati, su entrambe le sponde dell’oceano, nella vocazione al suicidio dei gruppi guerriglieri (in Italia anche nell’eroina); la scelta dell’insegnamento elementare nelle regioni povere del nord dell’Argentina come strumento di autentica trasformazione sociale. Nella seconda parte, che dall’incontro con Enrique Ahriman, all’inizio degli anni ottanta, si trasforma in un romanzo d’artista, si susseguono la scoperta dell’espressione creativa come chiave per “entrare e uscire dalla gabbia” dell’impotenza e del senso di colpa; le riflessioni sul cinema come dispositivo emotivo e strumento politico tanto più efficace quanto meno spettacolare; i ritorni nel cimitero a cielo aperto di Buenos Aires, dove archeologi e antropologi forensi scavano e analizzano i resti di un passato che non passa e a cui il silenzio dei carnefici impedisce di rimarginarsi.

Lo spessore e il fascino di questa autobiografia di un sovversivo che non ha mai smesso di essere tale non risiedono però soltanto nell’unicità della vicenda che racconta, ma anche, e forse soprattutto, nella sua tensione a collocarsi nel clima della generazione che l’ha espressa, nei contesti storico-politici in cui si è svolta e nelle relazioni che l’hanno attraversata o sfiorata. Se è, come di fatto è, una storia di sopravvivenza, quindi una storia eccezionale, ricorda a chiunque quanto sia difficile, e quanto necessario, “costruirsi una vita in mezzo agli altri”.

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L’esperienza del tuo sequestro da parte dei militari argentini era al centro di «Garage Olimpo» (1999), la dittatura di Videla, i suoi crimini, la violenza, i desaparecidos tornano in «Figli/Hijos» (2002). «La solitudine del sovversivo» riprende queste questioni e al tempo stesso illumina le scelte del tuo cinema – capiamo la Patagonia di «Alambrado» (1991) o «La terra degli uomini rossi» (2008) – nella scelta di mettere in campo la tua vita intera, i tuoi ricordi di bambino, di adolescente, la tua irrequietezza. E questo passando dalla terza persona dello schermo alla prima. A quali domande hai cercato in questa nuova forma una risposta?
Mi sono chiesto spesso perché ho voluto scrivere un libro, e mi ripeto che è per dire cose che non sono riuscito a mostrare nei miei film, anche se questo non significa che cambierò mezzo espressivo, il romanzo è per me un passaggio. Quando ho iniziato a lavorare a La solitudine del sovversivo non essendo uno scrittore mi sono detto che dovevo pormi dei limiti, ho deciso che sarebbero stati nella scelta di una totale soggetività. In qualche modo è come se dessi voce al resto della storia, non vedo nel libro un completamento dei miei film, penso piuttosto che li attraversa rispondendo a un’esigenza di testimonianza con cui sopravvivere alla gabbia. Che forse è persino una dimensione da cui non voglio uscire – il film che sto scrivendo tratterà una vicenda simile – ma l’uso della prima persona e del presente mi hanno permesso di scrivere ciò che ricordavo e di muovermi in quella non-verità che è parte dell’interpretazione soggettiva di una narrazione. All’inizio ho tentato la terza persona ma l’ho scartata subito, produceva una distanza che non funzionava. Il mio riferimento è stato il memoir in presa diretta, il cinema mi ha aiutato con la pratica del montaggio: tutto il racconto è molto montato ma con una libertà che le immagini non permettono. In un film quando si uniscono due scene diverse si deve fare attenzione ai vestiti degli attori, al luogo, alla luce, non si possono muovere le sequenze qua e là a meno di non rigirarle. Scrivendo invece ho spostato molti blocchi secondo le mie esigenze narrative…

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Alternando tempi e ritmi, quelli del sequestro e il contrappunto delle vicende famigliari, la tensione inevitabile della famiglia con la decisione del padre di tornare in Italia e il conflitto che presto s’indurisce perché Marco è in Argentina che vorrebbe partecipare alla vita adulta, il libro si apre un movimento spazio-temporale continuo. Bechis dapprima prova – inutilmente – a ripercorrere i passi del padre iscrivendosi alla facoltà di Ingegneria di Milano, ma presto la pressione, il bisogno di conoscere “le vene aperte dell’America Latina” (cfr. Eduardo Galeano), lo spinge a farvi ritorno, a compiere un viaggio “sulle orme del Che”.

L’urgenza storica del momento è forte, ma Bechis è assai perplesso sull’opzione della lotta armata; così il suo modo di partecipare al desiderio del cambiamento, del bisogno di giustizia, trova sfogo nella decisione di fare il maestro elementare in Sud America. Erano quegli anni lì, in cui chi non partecipava poteva sentirsi in colpa – e il senso di colpa aleggia anche qui.

Anche qui emerge la sindrome del sopravvissuto (e l’immedicabile solitudine che ne deriva), perché Bechis si salva, ovviamente, grazie alle conoscenze di un padre importante che potrà farlo uscire dal sotterraneo in cui è rinchiuso. In questo movimento fra le ragioni private e la dimensione pubblica della Storia, difficile da risolvere, sembra agire la biografia di Bechis…

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