mercoledì 31 marzo 2021

Riparazioni al colonialismo

 

Riparazioni al Forum Sociale Mondiale 2021

Il tema delle riparazioni al Forum Sociale Mondiale 2021 è stato trattato nel laboratorio Riparazioni al colonialismo, nel laboratorio Interculturalità, decolonizzazione e diritti dei popoli originari, nel laboratorio Coalizioni, convergenze e riparazione contro il razzismo e nell'Agorà dei futuri. A queste attività hanno partecipato circa un centinaio di persone, molte delle quali rappresentanti di altre organizzazioni. E' stato fatto un punto della situazione sulle riparazioni in questi ultimi anni, cercando di individuare le azioni più promettenti per il prossimo futuro.

Nazioni Unite: il 22 maggio 2019, seguendo il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato con 116 voti a favore, 6 contrari e 56 astenuti la risoluzione 73/295 confermando che il processo di decolonizzazione delle Mauritius non è stato completato in modo legale e dando al Regno Unito sei mesi di tempo per il ritiro senza condizioni della propria amministrazione coloniale dalle isole Chagos. Il 29 ottobre 2019 la Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle forme contemporanee di razzismo, di discriminazione razziale, di xenofobia e di intolleranza collegata Tendayi Achiume ha presentato la relazione A/74/321 chiarendo l'obbligatorietà in materia di diritti umani degli Stati membri in relazione alle riparazioni per la discriminazione razziale originata dallo schiavismo e dal colonialismo.

Giornata internazionale per le riparazioni: lanciata dall'Assemblea di convergenza Per finirla con il razzismo, la xenofobia e le discriminazioni che sono le basi del colonialismo del Forum Sociale Mondiale 2013, viene celebrata annualmente il 12 ottobre. E' possibile aderire all'appello e/o organizzare azioni decentrate capaci di far avanzare nel mondo la causa delle riparazioni (comunicati stampa, conferenze, esposizioni, campagne mediatiche, attività di strada, festival culturali, trasmissioni radiofoniche o televisive, decisioni politiche, ecc.). Il suo riconoscimento a livello delle Nazioni Unite darà la giusta legittimità alle varie richieste di riparazioni proseguendo il percorso tracciato dalla Conferenza mondiale contro il razzismo (WCAR) di Durban e permettendo di accelerare il processo.

Rimpatrio dei resti e restituzione dei tesori coloniali: il 23 novembre 2018 i professori universitari Felwine Sarr e Bénédicte Savoy hanno consegnato il “Rapporto sulla restituzione del patrimonio culturale africano. Verso una nuova etica relazionale” commissionato dal Presidente della Francia raccomandando la restituzione definitiva dei tesori saccheggiati durante il periodo coloniale. In questi anni sono proseguite le richieste di rimpatrio dei resti e di restituzione definitiva dei tesori, così come i tentativi da parte di alcuni ex colonizzatori di ostacolare questo passo inevitabile dell'evoluzione umana (Restituzioni dei tesori colonialiRiparazioni, non solo rimpatrio dei restiRestituzioni definitive all'orizzonteRestituire e non tergiversareIl lento cammino delle restituzioniRestituire tutti i tesori coloniali).

Caduta dei simboli coloniali: già negli anni scorsi vi erano stati dei precedenti, dal movimento Rhodes Must Fall nel 2015 alla rimozione del monumento ad Antonio López y López a Barcellona e alla decolonizzazione di alcune strade a Berlino nel 2018, dall'abbattimento dei monumenti a Pedro de Valdivia a Temuco, a Pedro de Valdivia e García Hurtado de Mendoza a Cañete e a Cristoforo Colombo e Francisco de Aguirre ad Arica nel 2019 all'abbattimento dei monumenti a Victor Schoelcher a Schoelcher e a Fort-de-France il 22 maggio 2020. Ma è solo con l'esplosione delle proteste antirazzismo a seguito della morte di George Floyd che la caduta dei simboli coloniali diventa virale e prosegue senza interruzioni per mesi, spingendo le riparazioni negli Stati Uniti.

Richiesta di riparazioni dalla Comunità Caraibica (CARICOM): i membri della CARICOM hanno iniziato nel 2013 la richiesta di riparazioni per il genocidio dei nativi e lo schiavismo, approvando il Programma di riparazione in dieci punti. In questi ultimi anni è aumentata la pressione sugli Stati membri della CARICOM per lasciar cadere la richiesta di riparazioni per il genocidio dei nativi e lo schiavismo con rifiuti e boicottaggi da parte dei colonizzatori (Francia, Regno Unito, Stati Uniti, ecc.), ma nonostante ciò ci sono state molte iniziative (Notizie dalla Commissione CARICOM per le RiparazioniLe riparazioni al Consiglio di sicurezza delle Nazioni UniteLe riparazioni al Dibattito generale della 75ma sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni UnitePiù slancio nella richiesta di riparazioni CARICOM).

https://www.colonialismreparation.org/it/riparazioni-al-forum-sociale-mondiale-2021.html

 

Riconciliazione 

La riconciliazione con il proprio passato si può sviluppare a partire dalla condanna del colonialismo.

Riconoscendo il proprio comportamento come criminale si ristabilisce la verità su questo periodo storico.

Questo permette, se accompagnato da una diffusa campagna di informazione, di prendere finalmente coscienza di ciò che è successo in quel periodo buio e di porre le basi per una profonda riconciliazione della popolazione delle nazioni colonizzatrici, toccate dalle atrocità commesse dai propri avi.

Tutto ciò porterebbe a superare quella diffusa miscela di rimozione collettiva e razzismo formatasi a causa delle politiche coloniali dei secoli passati, ponendo le premesse alla presentazione delle scuse alle nazioni colonizzate.

Per approfondimenti:

Commissione per la verità e la riconciliazione

 

https://www.colonialismreparation.org/it/riconciliazione.html

 

in bottega: https://www.labottegadelbarbieri.org/un-conto-ancora-aperto-quanto-valgono-duecentocinquantanni-di-schiavitu/

Alternative all’abisso - Michael Löwy

  


C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta che spira dal paradiso si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta. (W. Benjamin, Angelus Novus)

 

Così Walter Benjamin interpreta la celebra tela del pittore Paul Klee. L’attesa perpetuamente insoddisfatta della salvezza… un’attesa in cui l’essere umano è trascinato dal tempo e dal progresso, lasciando alle spalle le tragedie e gli orrori di cui i dominanti sono stati capaci, seminando morte e distruzione ovunque. Redimere questi orrori, cioé dare senso e rendere giustizia alle vittime, non è un compito che viene assunto e garantito dalla divinità o dalla storia dell’umanità. Le macerie della storia restano mute, non trovano giustificazione… la storia dell’umanità è rimasta storia di sangue e morte. Così l’Angelo di Klee guarda angosciato il passato, mentre il vento (il tempo) lo spinge via, quando vorrebbe restare tra quelle vittime per tenerle strette a sé, per garantire a esse un significato di qualche tipo. Per Walter Benjamin l’unica redenzione possibile è nella memoria: solo serbando il ricordo delle vittime, testimoniando della loro dipartita, dell’insensatezza della loro sconfitta e delle loro sofferenze, si può interrompere il giogo del “tempo mitico” dei vincitori, ovvero della storia ufficiale e del suo incontrovertibile “dato di fatto”.


1. Già nel 1928, nel libro Strada a senso unico, Walter Benjamin denunciava l’idea di dominio della natura come discorso “imperialista” e proponeva una nuova concezione della tecnologia come “padronanza dei rapporti tra natura e umanità”. Come nei suoi scritti degli anni ’30, di cui parleremo più avanti, si riferisce alle pratiche delle culture premoderne per criticare la distruttiva “avidità” della società borghese nel suo rapporto con la natura: “Le più antiche usanze dei popoli sembrano fare appello a noi come monito: guardarsi dal gesto dell’avidità quando si tratta di accettare ciò che abbiamo ricevuto così abbondantemente dalla natura”. Dovremmo “mostrare profondo rispetto” per “madre terra”; se un giorno “la società, sotto l’effetto dell’angoscia e dell’avidità, viene distorta al punto da ricevere solo attraverso il furto i doni della natura, […] il suo suolo si impoverirà e la terra darà cattivi raccolti”. Sembra che quel giorno sia arrivato …

2. In questo lavoro troviamo anche, sotto il titolo “Allarme incendio“, una premonizione storica delle minacce di progresso, intimamente associate allo sviluppo tecnologico guidato dal capitale: se il rovesciamento della borghesia da parte del proletariato “non si compie prima di un quasi momento calcolabile nell’evoluzione tecnica e scientifica (indicata dall’inflazione e dalla guerra chimica), tutto è perduto. Occorre tagliare la miccia acceso prima che la scintilla colpisca la dinamite”1. Benjamin si sbagliava sull’inflazione, ma non sulla guerra, anche se non poteva prevedere che l’arma “chimica”, cioè i gas letali, non sarebbero stata usati solo sui campi di battaglia, come nella prima guerra mondiale [e nella colonizzazione anche dai militari italiani2], ma per lo sterminio industriale di ebrei e zingari [comunisti, anarchici, gay, dissidenti in genere]. A differenza del volgare marxismo evoluzionista, Benjamin non concepisce la rivoluzione come il risultato naturale o inevitabile del progresso economico e tecnico (o della contraddizione tra forze e rapporti di produzione), ma come l’interruzione di un’evoluzione storica che porta alla catastrofe. L’allegoria della rivoluzione come “freno di emergenza” è già suggerita in questo brano.

3. È perché percepisce questo pericolo catastrofico che Benjamin, nel suo articolo sul surrealismo del 1929, afferma di essere pessimista, di un pessimismo rivoluzionario che non ha nulla a che fare con la rassegnazione fatalista, e ancor meno con il Kulturpessimismus tedesco, conservatore, reazionario e pre-fascista (Carl Schmitt, Oswald Spengler, Moeller Van der Bruck): il pessimismo è qui al servizio dell’emancipazione delle classi oppresse. La sua preoccupazione non è il “declino” delle élite, o della nazione, ma le minacce all’umanità poste dal progresso tecnico ed economico promosso dal capitalismo. La filosofia pessimistica della storia di Benjamin, in questo saggio del 1929, è particolarmente evidente nella sua visione del futuro europeo:
“Pessimismo su tutta la linea. Sì, certo e totalmente. Sfiducia nel destino della letteratura, sfiducia nel destino della libertà, sfiducia nel destino dell’uomo europeo, ma soprattutto tre volte sfiducia di fronte a qualsiasi accomodamento: tra classi, tra popoli, tra individui. E solo una fiducia illimitata nella I.G. Farben e nello sviluppo pacifico della Luftwaffe”3.

4. Questo sguardo lucido e critico permette a Benjamin di percepire – in modo intuitivo ma con una strana acutezza – le catastrofi che attendevano l’Europa, riassunte perfettamente dalla frase ironica sulla “fiducia illimitata”. Naturalmente anche lui, il più pessimista di tutti, non poteva prevedere la distruzione che la Luftwaffe avrebbe inflitto alle città e ai civili europei; tanto meno poteva immaginare che la I.G. Farben, appena una dozzina di anni dopo, si sarebbe distinto per la produzione del gas Zyklon B utilizzato per “razionalizzare” il genocidio, né per il fatto che le sue fabbriche avrebbero impiegato, a centinaia di migliaia, la forza lavoro dei campi di concentramento. Tuttavia, unico tra tutti i pensatori e leader marxisti di quegli anni, Benjamin ebbe una premonizione dei mostruosi disastri che avrebbero potuto dare origine alla civiltà industriale / borghese in crisi.

5. Se Benjamin rifiuta le dottrine dell’inevitabile progresso, offre comunque un’alternativa radicale al disastro imminente: l’utopia rivoluzionaria. Le utopie, i sogni di un futuro diverso, nascono, scrive a Parigi, capitale del XIX secolo (1935), in intima associazione con elementi di una storia arcaica (Urgeschichte), “cioè una società senza classi” primitiva. Depositate nell’inconscio collettivo, queste esperienze del passato, “in relazione reciproca con il nuovo, danno vita all’utopia”.

6. Nel suo saggio del 1935 su Bachofen, un antropologo svizzero del diciannovesimo secolo noto per le sue ricerche sul matriarcato, Benjamin sviluppa questo riferimento alla preistoria in modo più concreto. Se il lavoro di Bachofen ha così affascinato marxisti come Friedrich Engels e anarchici come ÉliséeReclus, è attraverso la sua “evocazione di una società comunista agli albori della storia”, una società senza classi, democratica ed egualitaria, con forme di comunismo primitivo che significava un vero e proprio “sconvolgimento del concetto di autorità”4.

7. Le società arcaiche sono anche quelle di maggiore armonia tra gli esseri umani e la natura. Nel Passagenwerk, il suo libro incompiuto sui passaggi parigini, si oppone ancora, nella forma più energica, alle pratiche di “dominio” o “sfruttamento” della natura da parte delle società moderne. Ancora una volta rende omaggio a Bachofen per aver dimostrato che la “concezione omicida (mörderisch) dello sfruttamento della natura”, una concezione capitalista / moderna predominante dal diciannovesimo secolo, non esisteva nelle società matriarcali del passato, dove la natura era vista come una “madre generosa” (schenkenden Mutter) 5.

8Non si tratta per Benjamin – né per Engels o Élisée Reclus – di tornare al passato preistorico, ma offrire la prospettiva di una nuova armonia tra società e ambiente naturale. Il pensatore che per lui incarna questa promessa di una futura riconciliazione con la natura è l’utopista socialista Charles Fourier. È solo in una società socialista, in cui la produzione cessa di essere basata sullo sfruttamento del lavoro umano, che “il lavoro perderà il suo carattere di sfruttamento della natura da parte dell’uomo. Seguirà poi il modello del gioco infantile, che nell’opera di Fourier è alla base del “lavoro appassionato” degli “armonici”. […] Tale lavoro, svolto nello spirito del gioco, non è finalizzato alla produzione di valori ma al miglioramento della natura. […] Una terra coltivata secondo questa immagine […] sarebbe un luogo dove l’azione è sorella dei sogni ”6.

9. Nelle Tesi sul concetto di storia, il suo testamento filosofico, scritto nel 1940, Benjamin torna ancora una volta a Fourier, questo utopista visionario che sognava “una forma di lavoro che, lungi dallo sfruttare la natura, [cioè] in grado di far nascere a creazioni virtuali che giacciono assopite al suo interno ”, fantasticherie la cui espressione poetica risiede nelle sue“ fantastiche immaginazioni ”, appunto piene di “sorprendente buon senso ”. Ciò non significa che l’autore delle Tesi voglia sostituire il marxismo con il socialismo utopico: considera Fourier come un complemento di Marx, e nella stessa Tesi XI si tratta della discrepanza tra le osservazioni di Marx sulla natura. e il conformismo del programma socialdemocratico di Gotha. Per il positivismo socialdemocratico, rappresentato da questo programma, così come dagli scritti dell’ideologo Joseph Dietzgen, “il lavoro mira allo sfruttamento della natura, sfruttamento che si contrappone con ingenua soddisfazione a quello del proletariato”. È, in questo tipo di ideologia, un “approccio alla natura che rompe con le utopie di prima del 1848”, un ovvio riferimento a Fourier. Peggio ancora, per il suo culto del progresso tecnico e il suo disprezzo per la natura, “offerto gratuitamente” secondo Dietzgen, questo discorso positivista “presenta già i tratti tecnocratici che si incontreranno più tardi nel fascismo”7.

10. Troviamo nelle Tesi del 1940 una “corrispondenza” – nel senso che Baudelaire dà a questo termine nel suo poema Le corrispondenze – tra teologia e politica: tra il paradiso perduto da cui ci allontana la tempesta che chiamiamo “progresso” e la società senza classi all’alba della storia, così come tra l’era messianica del futuro e la nuova società senza classi del socialismo [allusione al commento di WB al dipinto Angelus Novus di P. Klee]. Come fermare la catastrofe permanente, l’accumulo di rovine “verso il cielo”, che risulta dal “progresso” (Tesi IX)? Anche in questo caso, la risposta di Benjamin è sia religiosa che laica: è il compito del Messia, il cui “corrispondente” secolare non è altro che la rivoluzione. L’interruzione messianica / rivoluzionaria del progresso, quindi, è la risposta di Benjamin alle minacce poste all’umanità dalla continuazione della tempesta diabolica e dall’imminenza di nuove catastrofi. Siamo nel 1940, pochi mesi prima dell’inizio della “soluzione finale”.

11. Nelle Tesi sul concetto di storia, Benjamin fa spesso riferimento a Marx, ma su un punto importante prende una distanza critica dall’autore del Capitale: “Marx ha detto che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia globale. Forse le cose sono diverse. Le rivoluzioni possono essere l’atto con cui l’umanità che viaggia sul treno tira il “freno di emergenza”. Implicitamente, l’immagine suggerisce che se l’umanità consentirà al treno di seguire il suo percorso – già segnato dalla struttura in acciaio delle rotaie – e nulla impedisce il suo progresso, precipiteremo direttamente nel disastro, o nell’abisso del disastro.

12. Tuttavia, anche Walter Benjamin, il più pessimista dei marxisti, non poteva prevedere come il processo di sfruttamento capitalistico e di dominio della natura – e la sua copia burocratica nei paesi dell’Est prima della caduta del Muro – avrebbe portato a conseguenze disastrose per tutti umanità.

13Stiamo assistendo, all’inizio del ventunesimo secolo, a un “progresso” sempre più rapido del treno della civiltà capitalista verso un abisso che si chiama catastrofe ecologica, e che ha nel cambiamento climatico la sua espressione più drammatica. È importante tenere conto della crescente accelerazione del treno, della velocità vertiginosa con cui si sta avvicinando al disastro. In effetti, il disastro è già iniziato, e siamo in una corsa contro il tempo per cercare di prevenire, contenere, fermare questa corsa precipitosa, il cui risultato sarà l’innalzamento della temperatura del pianeta, con conseguenze (tra le altre) la desertificazione di immensi territori, l’innalzamento del livello del mare, la scomparsa sotto l’oceano di grandi città marittime: Venezia, Amsterdam, Hong-Kong, Rio de Janeiro.

14. È necessaria una rivoluzione, scriveva Benjamin, per rallentare questa corsa. Ban-Ki-Moon, il Segretario Generale delle Nazioni Unite, che non è affatto un rivoluzionario, di recente (Le Monde del 5 settembre 2009) ha fatto la seguente diagnosi: “Noi – questo “noi” si riferisce senza dubbio ai governi del pianeta – abbiamo il piede incollato all’acceleratore e corriamo verso il baratro”.

15. Walter Benjamin ha definito una “tempesta” il progresso distruttivo che accumula catastrofi. La stessa parola, “tempesta”, appare nel titolo, che sembra essere ispirato da Benjamin, nell’ultimo libro di James Hansen, il climatologo della NASA negli Stati Uniti e uno dei maggiori specialisti del cambiamento climatico al mondo. Il libro, pubblicato nel 2009, si chiama Storms of my grand children. In italiano Tempeste. Il clima che lasciamo in eredità ai nostri nipoti, l’urgenza di agire, (edizioni ambiente). Anche Hansen non è un rivoluzionario, ma la sua analisi della “tempesta” – che per lui, come per Benjamin, è l’immagine di qualcosa di molto più minaccioso – è straordinariamente lucida.

16. Ci si può aspettare poco dai governi di tutto il mondo, con poche rare eccezioni. L’unica speranza sta nei veri movimenti sociali. Tra questi ultimi, uno dei più importanti oggi è quello delle comunità indigene, soprattutto in America Latina. Dopo il fallimento della conferenza delle Nazioni Unite sul clima a Copenaghen, il presidente Evo Morales – che si è schierato in solidarietà con le proteste di piazza nella capitale danese – ha convocato nel 2010 a Cochabamba, in Bolivia, la Conferenza internazionale dei popoli contro il cambiamento climatico e in difesa della Pachamama, “Madre Terra”. Le risoluzioni adottate a Cochabamba corrispondono, quasi parola per parola, all’argomento di Benjamin sul trattamento criminale della natura da parte della civiltà capitalista occidentale, mentre le comunità tradizionali la vedono come una “madre generosa”.

17 Walter Benjamin era un profeta, cioè non uno che pretende di prevedere il futuro, come l’oracolo greco, ma nel senso dell’Antico Testamento: colui che attira l’attenzione della gente sulle minacce future. Le sue previsioni sono condizionate: ecco cosa accadrà, a meno che … a meno che … Nessun destino: il futuro resta aperto. Come afferma la Tesi XVIII sul concetto di storia, ogni secondo è la porta stretta attraverso la quale può arrivare la salvezza.

18Riuscirà l’umanità a tirare i “freni” rivoluzionari? Ogni generazione, scrive Benjamin nelle Tesi del 1940, riceveva una “debole forza messianica”: anche la nostra. Se non lo usiamo “prima di un punto quasi calcolabile del cambiamento economico e sociale, tutto andrà perduto” – per parafrasare la formula di “allarme antincendio” di Benjamin nel 1928.

19. All’interno dei movimenti di resistenza alla distruzione capitalista della natura, si sta sviluppando una prospettiva radicalmente anticapitalista in Europa, America Latina e Stati Uniti, l’aspirazione per un’alternativa radicale, basata sui valori di solidarietà, rispetto ambiente e autogestione democratica: ecosocialismo. Combinando la critica marxista del capitale e la critica ecologica del produttivismo, l’ecosocialismo è una proposizione eterodossa che coinvolge la trasformazione rivoluzionaria, non solo dei rapporti di produzione, ma anche dell’apparato produttivo stesso – a partire dalle sue fonti di energia – il modo di consumo, forme di trasporto e habitat. La posta in gioco non è “correggere gli eccessi” del sistema, ma lottare per un altro paradigma di civiltà, agli antipodi di quello basato sull’accumulazione del capitale e sul feticismo della merce. Il pensiero di Walter Benjamin ci fornisce strumenti preziosi per questa lotta.


Questo articolo di Michael Löwy è stato pubblicato qualche anno fa, con il titolo Walter Benjamin, précurseur de l’écosocialisme. Il libro di Benjamin a cui fa riferimento l’articolo è stato ripubblicato da Einaudi nel 2006 col titolo Strada a senso unico. Scritti 1926-1927.

Pubblichiamo questo articolo su proposta di Salvatore Palidda, che ha curato la traduzione e inserito l’immagine dell’Angelus Novus: il commento del noto quadro di Paul Klee da parte di Benjamin – ricorda Palidda – è il filo conduttore della riflessione di Löwy (che non cita questo riferimento).

da qui


I social come via breve per rimbecillirsi - Paolo Crepet

 

martedì 30 marzo 2021

100 anni fa nasceva Laura Conti

ecco il film di Gianni Serra ispirato al romanzo di Laura Conti




qualche comune dedica una strada a Laura Conti

Udine  –  via Laura Conti

Bolzano – Via Laura Conti

Corsico – Via Laura Conti

Ravenna Via Laura Conti

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dice Laura Conti:

L’ecologia si serve delle scienze sperimentali ma non è una scienza sperimentale: è una scienza di esperienza e non di esperimento, perché non può lavorare su modelli della realtà ma può soltanto osservare la realtà. […] Ciò la induce ad affidarsi, spesso, ai pregiudizi. Per gli scienziati sperimentali i pregiudizi sono cose orride e nefaste, da liquidare senza pietà. Invece, nella cultura dei movimenti ecologisti il “pregiudizio” è la convinzione a priori che le soluzioni affermatesi nel corso dell’evoluzione biologica, essendo state collaudate per tempi lunghissimi, abbiano maggiori probabilità di essere affidabili di quante ne abbiano le soluzioni escogitate dagli scienziati, collaudate solo per tempi brevissimi. (da l’Unità, 13 giugno 1992; citato in Laura Centemeri, Ritorno a Seveso: il danno ambientale, il suo riconoscimento e la sua riparazione, Bruno Mondadori, 2006, cap. 3.2.3, p. 121)

da qui

 

Laura Conti: una scienziata ecologista – Chiara Zamboni

Vorrei parlare di Laura Conti, perché la penso come la figura più importante dell’ecologia in Italia dagli anni Ottanta del Novecento. Considero essenziale riconoscere il sapere, l’impegno politico ed esistenziale di quella che potremmo chiamare una “madre di tutti noi”. Studiandola, leggendola, considerando la sua passione politica, si può comprendere ora dove ci collochiamo e qual è l’insegnamento che possiamo riprendere da ciò che ci ha lasciato in eredità.

Non è stata femminista in senso stretto in un periodo in cui il femminismo era diffuso, seguendo la sua seconda ondata. Ma ha avuto, come medica e scienziata, grande attenzione per la salute delle donne e la vita delle donne essendo una donna. E di questo aveva grande consapevolezza. Per me questo basta. Essere una donna e assumerlo orientandosi nella realtà, è il primo e più importante passo politico, se si parla di politica delle donne.

Prima però di parlare direttamente di lei, ricostruendo una genealogia che ci è necessaria, vorrei riprendere alcuni elementi della differenza sessuale. Potrebbe sembrare inutile e ripetitivo, ma altrimenti, mi sembra, perdiamo la misura di fronte alla miriade frammentata di temi, di questioni, di conoscenze, di informazioni, che la questione della natura e il dibattito ecologico portano con sé. È come camminare su sabbie mobili, tanto le posizioni si uniscono o si contrappongono, o si modificano. Quindi tenere ben stretto il filo della differenza sessuale ci aiuta a non sperderci. Ad orientarci nel grande mare di temi, informazioni, conoscenze, questioni che l’inquietudine per la natura, e l’attenzione all’ecologia suscitano.

In prima battuta quello che propongo è un’ermeneutica sessuata di queste questioni. Il che significa che noi leggiamo e patiamo questi temi a partire da una incarnazione sessuata. Ho visto quanto questa posizione sia facilmente travisata e ridotta ad una semplice simmetria tra il femminile e il maschile, le donne e gli uomini, un genere e l’altro. In definitiva, parlare di genere femminile e maschile riduce il tutto ad uno sguardo neutro e di sorvolo che da fuori e dall’alto vede la simmetria dei due generi distendersi nel mondo sotto di sé. Come ogni sguardo neutro, anche questo facilita un ragionare scorrevole e senza intoppi e l’azione politica diviene come pattinare su di una superficie liscia, su cui si può agire come su di una scacchiera, muovendo le pedine. Allo stesso tempo si ritiene che con leggi, decreti, consigli istituzionali, si possa cambiare la realtà dei generi o cancellarli.

Ma la prospettiva da cui si muove il pensiero della differenza è che essere una donna significa avere consapevolezza costitutiva dell’altro, che è l’uomo, e questo si accompagna allora alla consapevolezza degli altri esseri, del mondo.

Un’ermeneutica sessuata dell’altro, degli altri, del mondo implica un esserci, un patire la propria presenza in rapporto all’altro, indicarla a chi ci ascolta, sentirla, dargli parola senza uscire dal cerchio della relazione. Una donna trova in questo il proprio modo di fare teoria nel cerchio della relazione e così fa vedere cose che altrimenti non potremmo vedere. Senza uscirne. Esattamente qui e ora.

Il pensiero della differenza dà una impronta, che mi sembra inaggirabile, all’ecologia. Non si tratta infatti semplicemente di dire che il mondo è relazionale. L’ecologia mostra che tutto il cosmo è relazione. Questo è ancora uno sguardo neutro che si pone fuori dal cosmo e guarda dall’alto che tutto è relazione. Io parlo, piuttosto, a partire da una relazione incarnata e da lì posso dire qualcosa di vero che riguarda anche altri, il cosmo. Ma non posso mettermi dall’alto e guardare come se ne fossi all’esterno. Come se fossi sulla Luna a guardare la Terra. Sono qui e ora, sono una donna che parla all’interno di relazioni. Ciò che caratterizza questo gesto è una dimensione asimmetrica, squilibrata. Non sono un soggetto onnisciente. La posizione neutra è la posizione di chi si pone al posto di Dio, non dal punto di vista di chi patisce dall’interno una certa situazione.

Dove Laura Conti ha mostrato l’incarnazione della differenza sessuale, questo essere in una relazione incarnata? Asimmetrica. Dove e come ha mostrato di fare un discorso teorico mettendosi in gioco personalmente e non semplicemente di dare una conoscenza oggettiva, per cui lei dunque supera l’opposizione soggetto-oggetto? Lo ha mostrato quando ha parlato dell’amore per la Terra come leva fondamentale che l’ha portata all’ecologia. Ad occuparsi politicamente del nostro pianeta. È il suo punto incandescente in cui si nota più fortemente l’asimmetria. Non necessariamente per tutte è questa la via della differenza, ma questa donna offre qualcosa di vivente al processo di verità quando tocca questo punto asimmetrico vivente, fertile, generatore.

Vorrei spiegarmi, riprendendo alcune linee del pensiero di Laura Conti, per mostrare il modo di darsi di questo punto di incandescenza sessuato, che è nel suo percorso l’amore per la Terra. La sua affermazione, che si sente impegnata soggettivamente per la salute e il benessere di tutte le creature umane e non umane e per il pianeta e che fonda questo impegno nella conoscenza scientifica, rende la conoscenza scientifica non neutra. È non neutra perché inserisce i processi di sapere all’interno del campo più vasto del sentire soggettivo che impegnano più di qualsiasi scelta etica. Ed è anche non neutra perché dire che è l’amore che la spinge verso il conoscere il pianeta per renderne migliori le condizioni è qualcosa che per lo più sono le donne a dire nella nostra contemporaneità.

Molte sono le testimonianze di giovani scienziate, che dichiarano di aver iniziato studi lenti e faticosi di biologia, medicina, fisica ecc., in quanto guidate da amore per il mondo e la natura. Succede che poi non sanno esprimerlo all’interno della loro disciplina, prese dallo studio così come viene veicolato in paradigmi disciplinari. In questo senso c’è una loro differenza femminile che si esprime in questo e che viene avvertita come fuori posto dallo sguardo degli altri; loro stesse finiscono per autocensurarsi su questo tema con l’andare del tempo.

Laura Conti invece lo esprime, lo scrive. Come lo scrive anche Evelyn Fox Keller quando riporta la posizione di Barbara McClintoch, la genetista che parlava di amore per la singolarità del gene del grano che stava studiando. È il passaggio da un’episteme fondata sulla contrapposizione soggetto-oggetto ad una nuova episteme legata alla relazione amorosa nella ricerca scientifica. Un’area di discorso che viene censurata accuratamente negli studi di allora. Come di oggi. Considerata superflua…

continua qui

 

Laura Conti – Renata Borgato

«Obiettività scientifica e partecipazione affettuosa, lucidità di analisi e impegno militante»[1].La storia di Laura Conti racconta con la molteplicità del suo impegno l’unità di una visione attenta e partecipe in cui non hanno molto significato le separazioni tra privato e politico, poesia e scienza, individuo e ambiente, natura e cultura. La concretezza con cui ha lavorato ne fanno un riferimento politico ed etico utile e necessario ai nostri tempi.
Laura Conti da piccola visse a Trieste, poi a Verona e infine a Milano, che considerò sempre la sua città. I suoi genitori erano stati costretti ad abbandonare Trieste in seguito all’impegno antifascista dei genitori, che avevano perso la propria azienda commerciale. A Milano la famiglia avrebbe avuto una vita dura, isolata, senza contatti: «la mia divenne una famiglia che si opponeva al mondo, disperata e molto sola» [2].
Sulla sua educazione resta una sua testimonianza diretta: «in casa non si occupavano di spiegarmi le cose: avevo tutti i libri a mia disposizione, non avevo che da attingere agli scaffali, liberamente, prima ancora di andare a scuola». Ma probabilmente fu proprio questa modalità ad abituarla alla ricerca autonoma, alla riflessione, alla libertà.
Come molte donne, nella prima giovinezza Laura costruì la propria immagine per differenza, ripensando alle scelte di sua madre: «mia madre era maestra e rinunciò al suo lavoro adattandosi al modello di mio padre che, coraggioso e onesto intellettualmente, era tuttavia un tiranno della peggior specie. Lei era una meridionale succuba del modo tradizionale di concepire la famiglia. Però soffriva e io lo avvertivo…»
Proprio per questo Laura si rese molto presto conto che i ragazzi avevano diversi modelli cui ispirarsi, ma che quello proposto alle donne era prevalentemente quello della casalinga-madre, che a lei risultava estraneo. Forse per questo ebbe una vita ricca di amicizie, intellettualmente, professionalmente e affettivamente importanti, ma non costruì una famiglia, probabilmente anche per il dolore seguito alla perdita di Armando Sacchetta, divenuto suo compagno nel lager di Bolzano e morto pochi giorni dopo la Liberazione in seguito all’emorragia seguita a un intervento chirurgico effettuato nel tentativo di arrestare una cancrena.
D’altra parte lei stessa aveva scritto: «pensavo che mi sarei fatta una vita mia, eventualmente con dei figli, ma priva dei legami coniugali che mi facevano orrore. Così è stato e se i figli non sono venuti, non si è trattato di una mia scelta».
Quando a scuola le regalarono una biografia di Maria Curie, pensò di aver trovato un modello che le si adattava meglio: «non è escluso che anche di qui sia nata la mia passione per le scienze».
Laura si iscrisse alla facoltà di medicina e nel 1944 entrò nelle file della Resistenza, aderendo al Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà. Ebbe il rischioso incarico di fare propaganda presso le caserme. «Avevo molta paura ma al contempo avevo la sensazione che il mondo fosse troppo piccolo per albergare i nazisti e me, che fosse persino necessario morire, perché se i nazisti avessero trionfato, il mondo non avrebbe più avuto attrattive». Venne arrestata già nello stesso 1944 e, dopo una breve detenzione nel carcere di San Vittore a Milano, fu trasferita nel Campo di transito di Bolzano, dove rimase fino alla fine della guerra.
Questa esperienza le avrebbe suggerito un’opera narrativa, La condizione sperimentale, scritta nel 1965 in cui ripercorre la sua esperienza nella Resistenza e nel Campo di transito di Bolzano.
L’esperienza fatta l’avrebbe indotta anche a riprendere la riflessione sul ruolo femminile, dopo aver constatato la subalternità al modello tradizionale di molte delle donne che avevano condiviso la sua esperienza di detenzione. Donne che avevano scelto di lottare per un mondo nel quale gli uomini vivessero un rapporto democratico, senza che ciò trasformasse la subalternità delle donne.
La scrittura sarà un altro dei tratti costanti della vita di Laura Conti. Prima di La condizione sperimentale aveva già scritto Cecilia e le streghe, sua opera prima, con cui nel 1963 aveva vinto il premio Pozzale. Il romanzo, quasi un thriller scritto con grande finezza per le ambientazione e gli stati d’animo di cui restituisce la potenza, soprattutto nei vuoti impossibili da descrivere, prende le mosse da un misterioso incontro fra due donne, nelle strade deserte di Milano in una sera di mezz’agosto e affronta con toni poetici i temi della malattia, della morte, del dolore, della fede e dell’eutanasia, affrontando pienamente le pieghe del rapporto fra medico e paziente…

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è appena uscito – ne riparleremo presto – per Fandangolibri, “Laura non c’è di Barbara Bonomi Romagnoli e Marina Turi. Ecco la presentazione.

 

Laura Conti non c’è. È morta il 25 maggio 1993, ma se fosse ancora viva avrebbe 100 anni, ed è così che la immaginano le autrici Barbara Bonomi Romagnoli e Marina Turi.

Una donna pungente, divertente e con ancora tante cose da dire al mondo. Perché nonostante Laura Conti sia scomparsa dai grandi discorsi ambientalisti ed ecologisti della sinistra italiana degli ultimi trent’anni, le sue parole, il suo pensiero e le sue riflessioni sono ancora qui, a disposizione di tutte e tutti.

Un libro fatto di dialoghi impossibili che diventano reali grazie alla forza della narrativa e dell’immaginazione.

Sette incontri con altrettante donne con le quali affrontare i temi a lei cari: la pandemia e il lavoro, i disastri ambientali, la vita e la salute delle donne, l’ecologia, la caccia e l’aborto.

Un libro che ci permette di conoscere una delle pensatrici più importanti del nostro paese, considerata a ragione la fondatrice dell’ambientalismo scientifico in Italia che per ragioni incomprensibili non ha trovato posto nei libri di storia e nel nostro patrimonio culturale.

 

Laura Conti in bottega

 

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Intervista a Nawal Al-Saadawi

(di Karim Metref)

Il  21 marzo 2021 è venuta a mancare l’intellettuale, psichiatra, scrittrice e militante egiziana Nawal Al-Saadawi. Una donna che ha avuto un percorso segnato oltre che dalla sua intelligenza, anche dalla sua forza e dal suo coraggio incredibili.

 

Non ha mai indietreggiato di fronte ai divieti, alle minacce e ai tabù. Non è mai scesa a compromessi. Ha sempre sputato le sue opinioni e i suoi modi di vedere in faccia all’ipocrisia ambiente.

I pericoli li ha messi in conto e ha deciso di conviverci.  «Il pericolo è diventato parte della mia vita da quando ho preso la penna e cominciato a scrivere. Non c’è più pericoloso della verità, in un mondo pieno di menzogne.» (1)

Nel 2009, era venuta a Torino, al Salone Internazionale del Libro, per presentare il suo racconto L’amore ai tempi del petrolio (Il Sirente, 2009): della sua visita a Torino e dell’incontro al Centro Italo arabo con alcuni torinesi provenienti dai Paesi di lingua araba, avevo raccontato all’epoca in un articolo pubblicato su InternazionaleL’altra faccia del mondo “musulmano” a Torino

In quella occasione su richiesta della rivista Carta (cantieri sociali) e della casa editrice Il Sirente, riuscii a fare un chiacchierata con Nawal Al-Saadawi. Un momento rimasto ancorato nei mei ricordi. Insieme alla forza delle sue parole, mi colpi il fuoco che usciva dai suoi occhi. Una vera forza della natura.
Qui sotto l’intervista in audio originale (con sottotitoli in italiano) e di seguito la trascrizione dell’intervista.



La prima domanda è come Le è venuta l’idea di questo libro e su questo tema?

É un Romanzo. Un romanzo è una carica di emozioni che lo scrittore sente il bisogno di esprimere.
Tu ad esempio scrivi racconti… Perché li scrivi? È perché hai un carico di emozioni e sentimenti da esprimere.  Così io ho espresso questa carica di emozioni sul tema del petrolio. La relazione tra il petrolio e la povertà e la guerra.

Nel racconto la parola petrolio è utilizzata tantissimo. Cosa simboleggia?

Il petrolio è il petrolio. Non è un simbolo. Il racconto parla della potenza del petrolio di come domina i paesi e riduce in schiavitù.
Assomiglia molto al caso della società saudita. Come un paese così è dominato dagli stranieri. Le donne e gli uomini lavorano per gli stranieri e combattono le cause degli stranieri. Come il paese è colonizzata a causa del petrolio.
Così in questo paese descritto nel libro. Uomini e donne poveri sono sfruttati in modo vergognoso. E il re di questo paese è completamente assoggettato agli stranieri. Soltanto che è raccontato in modo un po’ caricaturale.

Non è soltanto caricaturale. Sembra anche un incubo. Una visione schizofrenica?

É un incubo. Esatto. Una società alienata, colonizzata. Una società sottomessa a due colonialismi: quello esterno degli stranieri e quello interno del re e del suo regime. Le donne loro sono sotto il colonialismo degli uomini.
Sono delle classi sovrapposte. C’è una gerarchia. Gli stranieri dominano la classe dirigente, il re e il suo governo dominano il popolo, e che danno il petrolio agli stranieri. Poi ci sono  i maschi, questi dominano le loro donne.
In basso a questa scala ci stanno le donne. Quella che porta i secchi di petrolio sulla testa.
Il racconto mostra questa gerarchia. La dominazione Comincia dall’alto, gli stranieri, poi c’è il Re e le classi abbienti del paese, poi c’è la classe lavoratrice. Poi ci sono le donne, le donne povere che portano le taniche di petrolio sulla testa. Questa catena sociale, politica e anche culturale ci mostra l’impostura che vive il paese. E mostra anche come la donna è sulla scala più bassa, in fondo alla gerarchia di classe.  Lei prova a scappare da questa trappola ma non riesce. Il marito la controlla, E tutta la società la controlla, ma questa dominazione degli uomini si vede soprattutto nel rapporto con il marito.  Tutto questo è chiaro nel racconto.

Questa donna che scava alla ricerca delle dee femmine, cosa rappresenta? è la donna araba?

Ah. Sì. C’è una similitudine nello scavare la terra. Loro scavano per il petrolio. Lei scava per trovare le dee. Questo racconta come nella storia la società è cambiata. Si è passato da società che rispettavano le donne e avevano delle divinità femminili, e come si è trasformato in una società patriarcale e maschilista e classista.
Nella storia è successo. Hanno anche cambiato le dee femmine in dei maschi. C’è anche un dio con un seno unico. Non hanno osato togliere tutti i due seni della divinità allora hanno fatto un dio maschio con un seno unico.  È la prova che prima era femmina poi l’hanno maschilizzato. La storia racconta questo in modo fantasioso.

Io ho letto la storia antica e ho una pièce teatrale sul tema della dea Iside.

Questa donna che scava alla ricerca delle dee, rappresenta la donna araba? 

No. Non è la donna araba. E’ la donna in tutto il mondo . Io insegno negli Stati Uniti e giro le università europee e vedo come la donna ovunque non è libera. Perché viviamo all’ombra di un sistema patriarcale, capitalista, razzista. E questo sistema patriarcale, razzista e classista domina il mondo: Gli Stati Uniti, l’Egitto, L’Arabia Saudita, l’Algeria… Tutto.

Questo sistema Patriarcale, classista e razzista si basa sulle religioni: Cristiana, ebraica, musulmana… etc. Perché la religione è il cemento armato che da la forza a questo sistema. Le religioni danno la forza della sacralità a questo sistema.

Quindi questa storia non parla della società araba soltanto. perché quella oppressione di cui parlo può esserci in ogni paese. Quindi tutti i paesi in qualche modo sono colonizzati.  Ecco perché non ho usato nomi di nazioni. Ad esempio ho citato gli stranieri, i colonizzatori, ma questi possono essere di qualsiasi nazionalità: Inglesi, Francesi o altro… Perché il colonialismo è ovunque: Asia, Africa… Ma anche l’Europa è colonizzata.

Come un impero globale, quindi. Grazie. 

Grazie molte.

Torino (maggio 2009)

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1.      “Danger has been a part of my life ever since I picked up a pen and wrote. Nothing is more perilous than truth in a world that lies. Nothing is more perilous than knowledge in a world that has considered knowledge a sin since Adam and Eve … There is nothing in the world that can strip my writing from me.”. Citato nella rivista indiana The Hindu, edizione del 3/06/2001. “Egypt’s face of courage” di Shalmana Kalpa. https://web.archive.org/web/20200317001353/https://web.archive.org/web/20041030002518/http://www.hinduonnet.com/2001/06/03/stories/13030786.htm

 

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