venerdì 5 marzo 2021

Repubblica Democratica del Congo, un posticino tranquillo


Repubblica Democratica del Congo senza pace: dalla Grande Guerra alle guerriglie del terrore - Antonella Sinopoli


Repubblica Democratica del Congo, un paese dove la parola pace è legata a una sigla, MONUSCO, la Missione delle Nazioni Unite che mira a portare stabilità in un’area dove invece regna il caos. Si tratta di una delle più lunghe missioni al mondo di questo genere, cominciata nel 1999 e ancora in corso. Perché la pace non c’è. Perché la pace qui non vuol dire molto. Forse non vuol dire nulla. Soprattutto in quel luogo lussureggiante e maledetto che è l’area orientale del paese. Quel luogo lussureggiante e maledetto dove lunedì scorso – ai bordi del parco Virunga - è stato ucciso l’ambasciatore italiano, Luca Attanasio. E con lui il carabiniere e uomo di scorta, Vittorio Iacovacci e l’autista congolese, Mustapha Milambo.

Tentativo di rapimento andato male? Azione dimostrativa? Ancora non è chiaro. Quello che è chiaro è che in questa parte del mondo la violenza è sistematica. Sono oltre 130 i gruppi armati attivi nel Nord e Sud Kivu e nella provincia dell’Ituri. Una rete complessa che rende complicata anche l’analisi dei fattori che la caratterizzano e che a volte si intrecciano. Motivazioni politiche, di controllo del territorio e dei suoi beni preziosi, odi fratricidi e tribali, vecchie questioni perse nelle varie leadership. C’è una cosa che le varie sigle condividono, la voglia di distruzione. Distruzione dei luoghi – il parco del Virunga, i suoi gorilla e i ranger sono costantemente sotto attacco – distruzione della dignità delle persone. Basta rileggere il discorso di Denis Mukwege, il ginecologo vincitore del Nobel per la pace nel 2018: quelle storie di donne e bambini violentati e massacrati, per capire il grado di orrore e di barbarie che circola nell’aria, che può attendere ad ogni angolo, sostare dietro un semplice fruscio.

Ecco perché appare così assurdo – oggi a tragedia conclusa – che un ambasciatore e un convoglio dell’ONU potessero viaggiare in quell’area senza auto blindata, senza protezione e misure adeguate.

Attanasio e il suo staff avrebbero dovuto verificare un progetto del PAM (Programma alimentare mondiale) nel territorio di Rutshuru. Una missione umanitaria, in un contesto che da tempo sembra aver perso i limiti della ragione. Perché mentre sicurezza e pericoli sembrano essere stati sottovalutati da chi è lì per occuparsene, la violenza continua a crescere e così la paura.

Le popolazioni locali molte volte hanno denunciato l’incapacità dei caschi blu di essere nel posto giusto al momento giusto, l’incapacità di proteggerli, insomma. E a volte è andata anche peggio, quando sono stati gli stessi militari ONU a essere accusati di nefandezze e violenze sessuali, anche nei confronti di bambini. E poi accuse – rigettate dalle investigazioni interne – di fare affari con gruppi ribelli. Singoli casi certo, che trovano terreno fertile in una società compromessa e senza regole.

Ma cosa accadrebbe se gli oltre 18.000 caschi blu dall’oggi al domani lasciassero quelle zone? Quali altre strade prenderebbe quella che da molti osservatori è stata definita la “Grande Guerra dell’Africa”? Una guerra che ha fatto già sei milioni di vittime, uccise dalle violenze dei gruppi armati, ma anche da malattie e malnutrizione.

Le origini dei conflitti nella RDC risalgono al 1994 e al genocidio del Rwanda. Sì perché una delle caratteristiche del paese è quella di essere circondato da nazioni con forti crisi interne, per fermarci solo alla parte nord-orientale: Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, Uganda, Burundi, Rwanda, appunto.

Quando le forze del Fronte patriottico ruandese guidato da Paul Kagame entrarono nel paese ponendo fine a un massacro durato quasi tre mesi, gli hutu genocidari si riversarono in massa oltre i confini. Pensavano che restare nel loro paese, dove avevano fino al giorno prima massacrato a colpi di bastoni e machete i propri vicini tutsi, li avrebbe condannati a morte.

Il Governo congolese non fu in grado da subito di contrastare quelli che - una volta in salvo nel paese confinante – avevano cominciato a costituire gruppi ribelli (e armati) che minacciavano stavolta la popolazione locale. Il più rilevante rimane l’FDLR, Forze democratiche di liberazione del Rwanda. Nel 1996 nella RDC scoppiò il primo grande conflitto (la prima Grande Guerra d’Africa), il secondo durò dal 1998 al 2003.

Nel frattempo, le forze in campo si sono moltiplicate, aggiungendo terrore a terrore. Tra i gruppi armati i più attivi e pericolosi rimangono il CODECO (Cooperativa per lo sviluppo del Congo), l’NDC-R (Nduma difesa del Congo, considerato un alleato non ufficiale dell’esercito congolese), gruppi burundesi ma anche l’ADF (Forze democratiche alleate) ugandese e di matrice jihadista.

Questo è un altro aspetto che ha aggiunto tensione nel paese e sconforto tra gli analisti che non sembrano intravedere una via d’uscita in questo marasma che vede intrecciati violenza e profitto. La Repubblica Democratica del Congo è infatti uno dei paesi più ricchi al mondo. Uno “scandalo geologico” come è stato definito. Nelle sue caverne, nei suoi anfratti si nascondono i minerali di più alto valore: rame, diamanti, oro, piombo, germanio, manganese, argento e il coltan, quel minerale indispensabile per realizzare condensatori per smartphone, laptot e altri dispositivi elettronici. Indispensabile sì, ma anche questo fonte di drammi per quegli schiavi, spesso bambini, che lavorano nelle miniere estrattive. Dietro tutto questo le multinazionali, ma sul fronte caldo uomini armati, spesso mediatori per quotazioni che poi si svolgono in lussuose stanze d’albergo.

Lo scandalo vero è che in questo enorme paese, con una superficie equivalente a quella dell’Europa occidentale, il 72% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno. Un dato che risale a prima della pandemia che, insieme con l’ebola (2.200 morti in due anni proprio nelle zone del Nord e Sud Kivu e Ituru) sta incidendo sulle condizioni già estremamente precarie di comunità lontane dalla vita politica di Kinshasa, ma al centro di fuochi incrociati delle varie milizie e delle forze governative (FARCD, Forze armate congolesi) che di tanto in tanto riportano qualche successo sul terreno.

Un altro dato può aiutare a capire le condizioni di vita di popolazioni così ai margini: solo il 23% delle famiglie che vivono nelle aree rurali ha accesso a fonti di acqua potabile, e solo il 20% ai servizi sanitari (dati World Bank). In questi contesti di emarginazione e di bisogno la violenza prospera.

Una sintesi accurata delle forze in campo, dei vari gruppi operanti sul terreno e delle forme di conflitto in quello che viene da molti definito come l’epitome di uno Stato al collasso, la fornisce l’UCDP, l’Università svedese di Uppsala, che “contabilizza” le vittime dei conflitti nel mondo. Per tornare all’attività jihadista su territorio congolese, secondo l’archivio di Uppsala sono 6.300 le vittime civili dell’ADF dal 1996, anno di inizio delle attività. Capo storico di questo gruppo era Jamil Mukulu, cattolico ugandese convertitosi all’Islam. Un altro tassello nella complessità della rete dei gruppi criminali operanti nel paese.

Tutto questo non si è placato con l’elezione di Félix Tshisekedi diventato presidente nel gennaio 2019 dopo 18 anni di Governo guidato dal padre-padrone Joseph Kabila. Ecco perché la visita del capo di Stato di qualche settimana fa a Goma, capitale del Nord Kivu, è stata accolta da decine di attivisti che a muso duro gli hanno chiesto di mantenere le promesse fatte in campagna elettorale. Perché le cose, a dirla tutta, dall’elezione di Tshisekedi sono rimaste inalterate, anzi se possibile peggiorate, come dimostrano i dati del barometro della sicurezza del Kivu.

A questi dati va aggiunto un Rapporto delle Nazioni Unite pubblicato nell’agosto 2020 secondo il quale sul territorio congolese il 43% delle violazioni dei diritti umani è stato commesso da agenti dello Stato. Nel mirino non solo vittime civili senza nessuna voce né autorità – quelle che tutti i giorni subiscono atrocità da una parte e dall’altra, atrocità spesso neanche documentate – ma attivisti, avvocati, giornalisti. La denuncia di Human Rights Watch è evidente. Da una serie di interviste condotte tra gennaio 2020 e gennaio 2021 sono emersi almeno 109 casi di arresti arbitrari. E non si contano le intimidazioni, le minacce, gli attacchi fisici. In molti di questi casi responsabile è l’Agenzia nazionale di intelligence. Ricordiamo che nel 2020 il World Press Freedom Index riportava la RDC tra i trenta peggiori paesi al mondo per violazioni dei diritti di informazione e di espressione.

Oggi la Repubblica Democratica del Congo conta 5.5 milioni di sfollati interni, quasi un milione di rifugiati sparsi in almeno 20 nazioni, una delle peggiori crisi umanitarie al mondo, migliaia di civili uccisi (solo lo scorso anno almeno 2.000 nell’area orientale) migliaia di donne e bambini violentati. Venticinque anni di violenze.

A questo scenario infernale si aggiunge la dolorosa immagine di un ambasciatore e del carabiniere che lo scortava trascinati nella foresta, colpiti a sangue freddo e lasciati morire senza pietà. Intanto la rassegna stampa dei giornali locali, pubblicata su Radio Okapi, la Radio delle Nazioni Unite nata con la Missione MONUSCO, riporta lo shock e lo sconcerto della politica nazionale. Dal ministero dell’Interno il dito accusatorio è puntato sull’FDRL (il Fronte di Liberazione del Rwanda), che dal canto suo smentisce queste accuse e chiede l’apertura di un’inchiesta indipendente sull’accaduto. Ma ciò che colpisce è l’affermazione – riportata da un altro media locale - secondo la quale i servizi di sicurezza interni non sapevano della presenza del convoglio ONU, non potevano garantire nessuna misura specifica, né venire in aiuto del convoglio (ricordiamo che sono stati i guardiani del Virunga a intervenire e mettere in fuga gli assalitori). “Si tratta di una zona instabile, preda dell’attività di gruppi armati ribelli nazionali e stranieri”. Sembra che la resa dei conti tra lo Stato e le decine e decine di gruppi armati ribelli operanti nell’est del paese assomigli, di fatto, a una resa.

da qui


Ambasciatori e droni italiani in Congo- Comidad

 

Una delle scadenze più significative della società “occidentale” è il cosiddetto “dibattito”, a cui ognuno a modo suo sente di dover partecipare; finché forse un giorno non gli si svela l’orribile segreto, e cioè che di quello che dice, o non dice, non gliene frega niente a nessuno. Il “dibattito” è infatti un rituale che ha una sua viziosa circolarità: sembra partire da determinate premesse, procedere e acquisire nuove posizioni, salvo poi ritrovarsi puntualmente di nuovo al punto di partenza. In “democrazia” il finto ascolto e la fittizia apertura alle critiche sono cerimoniali che servono a ribadire le gerarchie comunicative tra i “superiori” e gli “inferiori”. Attraverso un contorto sentiero dialettico, si arriva persino a denunciare le malefatte dei ricchi e dei potenti, per poi alla fine concludere che è sempre colpa dei poveri e dei deboli. Questo inesorabile paradigma comunicativo può essere verificato anche tutte le volte che si parla di Africa.

L’assassinio dell’ambasciatore italiano, del suo carabiniere di scorta e del suo autista nella Repubblica Democratica del Congo ha riportato all’evidenza il paradosso dell’ex Congo belga, uno dei Paesi più ricchi di materie prime al mondo, ma anche uno di quelli economicamente più poveri. Sulla rivista online dell’Aspen Institute italiano, fondata da Giuliano Amato, si trova un articolo che, in alcuni punti, risulta sorprendente, se si considera che l’Aspen è una filiazione del Dipartimento di Stato USA. Si delinea il percorso del saccheggio delle risorse minerarie del Congo Kinshasa, constatando le responsabilità di compagnie come Volkswagen, Apple, Microsoft e Huawei. Non si risparmiano i dettagli crudi, specialmente per ciò che riguarda l’estrazione della materia prima fondamentale per la tecnologia degli ultimi decenni: il cobalto. L’elenco dei crimini comprende lo sfruttamento della manodopera minorile, i numerosi incidenti sul lavoro e le morti bianche. (1)

Nell’articolo si osserva anche che il saccheggio è stato favorito dal Fondo Monetario Internazionale, il quale ha imposto per decenni al governo congolese di applicare una tassa di solo il 2% sul minerale estratto, una quota troppo piccola per favorire una redistribuzione del reddito alla popolazione. Ma ora che l’aliquota  della tassa è stata portata al 10%, la mancata redistribuzione andrebbe addebitata alla corruzione locale. Quindi, se le cose continuano ad andare male, è dovuto al fatto che i Congolesi sono corrotti. (1)

Che i Congolesi siano corrotti è indicato anche dal fatto che pare siano riusciti a corrompere persino l’integerrimo FMI. Per rientrare nelle grazie del FMI, il governo di Kinshasa ha dovuto infatti accordare un ricco contratto alla Baker McKenzie, la società privata di consulenza finanziaria in cui lavorava (guarda la combinazione) Christine Lagarde prima di andare a dirigere il FMI, ed ora la BCE. L’intreccio della gestione pubblica con gli affari privati se riguarda i poveri si chiama corruzione, ma se riguarda i ricchi si chiama “competenza”. Uno degli elementi ideologici più importanti delle attuali gerarchie imperialistiche è proprio l’etichetta di “corrotto” riservata ai Paesi inferiori. La superiorità in termini di potenza materiale si mistifica come gerarchia morale e antropologica: la super-razza dei “competenti” e la sotto-razza dei “corrotti”. (2)

Ora è diventato frequente  mettere in dubbio l’idea che i fallimenti economici dell’Africa siano colpa del colonialismo. Già l’uso della parola “colpa” risulta abbastanza subdolo, dato che spostando la questione sul piano morale, si può dimostrare qualsiasi cosa. La domanda seria sarebbe invece chiedersi se il colonialismo ci sia ancora. In effetti vige tuttora in Africa un dominio coloniale, mediato però da istituzioni sovranazionali ufficialmente “imparziali”. Non c’è solo il FMI, che è già di per sé un’agenzia ONU, ma anche la stessa ONU in prima persona, impegnata in operazioni di “peace keeping”, cioè di occupazione militare del territorio congolese. In questa opera di “pace”, le truppe ONU si servono di aerei droni “Falco”, prodotti dalla ex Finmeccanica, che ora si fa chiamare Leonardo. (3)

Il quotidiano “La Stampa” nel 2015 diede anche una rappresentazione entusiasticamente truculenta sull’uso di questi droni italiani in Congo, narrando di guerriglieri che, pur ammoniti, non si erano lasciati intimidire dalla sorveglianza h24 da parte dei droni “Falco”, pagando così un duro prezzo di sangue. In Congo quindi l’Italia non è solo presente con operazioni umanitarie, ma anche come fornitrice di armi per la repressione interna. (4)

Finmeccanica è organica ai servizi segreti italiani, e la commistione è evidenziata da un sistema di porta girevole, che ha visto avvicendarsi al vertice dell’azienda prima Gianni de Gennaro e poi l’ex direttore dell’AISE, Luciano Carta, tuttora in carica. Persino l’ex ministro Marco Minniti, anche lui proveniente dai servizi, è andato ad occupare una poltrona dirigenziale in una società del gruppo Finmeccanica. (5)

La porta girevole non è corruzione, è “competenza”. Non si tratta  di un comportamento esclusivamente italiano, poiché la osmosi tra aziende produttrici di armi (e non solo di armi) con i servizi segreti e con gli alti gradi militari, riguarda tutto il sistema internazionale.

Ora, possibile che Finmeccanica ed i servizi non si siano resi conto del pericolo a cui esponevano l’ambasciatore italiano? In effetti era logico pensare che il ruolo dell’Italia nella vendita di armi all’ONU, rendesse Luca Attanasio un bersaglio per ritorsioni, sia da parte della guerriglia, sia da parte di eventuali concorrenti nel business degli armamenti.

In questa vicenda le responsabilità di Finmeccanica e dei servizi segreti nostrani sono abbastanza evidenti. I media però preferiscono non toccare gli interessi del grande business e mettono invece sotto accusa il ministero degli Esteri ed il suo attuale occupante, lo zimbello di professione Luigi Di Maio, messo lì apposta per fare da parafulmine in situazioni del genere.

4 marzo 2021

1)  https://aspeniaonline.it/congo-miniere-di-cobalto-e-grandi-interessi-internazionali/

2)  https://zoom-eco.net/a-la-une/rdc-les-trois-evidences-du-partenariat-etat-congolais-baker-mckenzie/

3)  https://www.lastampa.it/esteri/2020/04/15/news/congo-dove-i-predoni-fanno-piu-paura-del-covid-tre-droni-italiani-a-supporto-delle-nazioni-unite-1.38720424

4)  https://www.lastampa.it/esteri/2015/07/17/news/i-droni-di-pace-italiani-che-danno-la-caccia-ai-miliziani-del-congo-1.35242728

 

(*) ripreso da http://www.comidad.org

 

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