sabato 21 maggio 2016

Il Brasile nelle mani di corrotti, banditi e repressori. La multinazionali ringraziano - David Lifodi



Ora il Brasile è una repubblica delle banane. Lo è divenuto da pochi giorni, da quando il presidente Temer ha cacciato Dilma Rousseff dal Planalto mettendo in atto un vero e proprio colpo di stato. Finora, al contrario, durante i mandati di Lula e Rousseff, il più grande paese latinoamericano era tutt’altro che una repubblica delle banane, come invece era stato fatto passare da buona parte della stampa. Leader dell’integrazionismo latinoamericano, il Brasile è stato tra i primi a creare le basi per creare quell’onda rosa/rossa che adesso sta segnando il passo. Non a caso, il primo a congratularsi con Temer, un politico che da solo non raccoglierebbe più dell’1% dei voti, talmente è poco credibile, il suo omologo argentino Mauricio Macri. Per il Brasile si prospettano anni di lacrime e sangue, sicuramente almeno fino al 2018, anno fino a cui il fantoccio dell’oligarchia terriera e di Washington siederà al Planalto, ma non sono escluse ulteriori sorprese nella giostra brasiliana.
Il governo del Brasile è nelle mani di banditi e delinquenti di ogni risma, come si evince bene dalla squadra messa in piedi a tempo di record da Temer. Tagli ai piani sociali, cancellazione dei diritti dei lavoratori, maggior repressione, machismo e razzismo: questo è il tratto che avrà il nuovo staff presidenziale, il cui orientamento non è troppo diverso da quello degli esecutivi succedutisi alla guida del paese dal 1964 al 1985, all’epoca della dittatura. Di fronte all’elite che non è disposta a fare concessioni, sui media di controinformazione brasiliani comincia a circolare il celebre insegnamento di Florestan Fernandes: “Contro l’intolleranza dei ricchi, l’intransigenza dei poveri”. Partendo dal presupposto che la presidenza Temer è illegittima e non rappresenta i brasiliani, i movimenti sociali avvertono che attacchi nei loro confronti, contro le organizzazioni di sinistra, nere e contadine, donne, lgbt e favelados non saranno tollerati. E per far capire bene a Temer che il Brasile popolare è pronto alla battaglia, pochi giorni prima del golpe il movimento dei Sem terra aveva occupato una fazenda di Michel Temer nello stato di San Paolo, ribadendo l’urgenza della riforma agraria e denunciando i rapporti del presidente con il colonnello Carlos Alberto Brilhante Ustra, noto torturatore ai tempi del regime, uno dei peggiori incubi dei detenuti politici. L’occupazione, hanno spiegato i contadini senza terra tramite Kelli Mafort, della direzione nazionale del movimento, è avvenuta per denunciare pubblicamente il ruolo svolto dall’agrobusiness nella delegittimazione di Dilma Rousseff e nel colpo di stato che poi è stato messo in atto solo pochi giorni dopo, quando già l’aria di golpe si respirava in tutto il paese. L’impresa Argeplan, formalmente proprietaria della fazenda occupata dai Sem terra, è stata acquistata da Temer quando l’attuale presidente brasiliano, sul quale da alcuni giorni pende a sua volta una richiesta di impeachment presentata dall’avvocato Mariel Marley Marra e accolta dalla Corte Suprema, la comprò insieme al colonnello della polizia militare di Paraíba João Batista Lima Filho, uomo di fiducia dello stesso Temer, ma soprattutto noto per essere al centro di numerosi casi di corruzione.
Estromessa Dilma per almeno 180 giorni, il termine massimo entro il quale il Senato dovrà pronunciarsi, a maggioranza di 2/3, per confermare, e quindi ratificare, le accuse contro la presidenta, Temer (ammesso che sia ancora in sella) è stato paragonato dalla controinformazione brasiliana al malandro di Chico Buarque concorbata y capital. Tuttavia, non si può fare a meno di evidenziare che l’attuale ambasciatrice statunitense  a Brasilia, inviata lì da Obama in persona, sia quella Liliana Ayalde che, guarda caso, esercitava le sue funzioni ad Asunción alla vigilia del colpo di stato perpetrato ai danni di Fernando Lugo. Paradossalmente presentato, anche in Italia, come paladino della democrazia, al pari dell’opposizione “democratica” venezuelana che dopo gli eventi argentini e brasiliani con ancora più forza cerca di assestare la spallata definitiva a Maduro, Temer farà gli interessi delle grandi imprese, delle banche e della Confindustria brasiliana, per la gioia dei sindacati gialli e delle elites. Il programma del nuovo presidente, denominato “Un ponte per il futuro”, propone il ritorno agli aggiustamenti strutturali di memoria fondomonetarista, con l’immediata cancellazione di tutti i programmi sociali varati durante il lulismo e sotto le presidenze di Dilma Rousseff, come del resto ha fatto il suo omologo Mauricio Macri in Argentina.  La democrazia e la giustizia sociale, conquistati dalla popolazione brasiliana in decenni di lotte, sono fortemente a rischio.
Al tempo stesso, è interessante chiedersi come mai Lula e Dilma Rousseff, che nonostante vadano senza dubbio annoverate tra le presidenze più democratiche del Brasile sono andati fin troppo d’accordo con le imprese e le multinazionali, siano stati mollati all’improvviso da quest’ultime, le quali hanno sposato completamente i piani di destabilizzazione della destra. In Brasile, come del resto in Bolivia, trascorsa una prima fase tempestosa, il rapporto tra governo e oligarchia sembrava procedere senza intoppi e nel paese andino sotto certi aspetti è ancora così. La risposta, ancora una volta, la fornisce l’analista politico di Brecha Raúl Zibechi. Se è vero che dalle grandi opere alla monocoltura della soia, passando per la mancata riforma agraria e lo stretto legame con le transnazionali legate all’estrazione mineraria e alla costruzione delle centrali idroelettriche, il Partido dos Trabalhadores ha progressivamente abbandonato la radicalità che lo aveva contraddistinto nei primi anni della sua vita, fino a passare a posizioni assai moderate dall’arrivo di Lula al Planalto, al contrario i movimenti sociali hanno intensificato la lotta di classe, proprio per spingere i governi petisti a stare maggiormente dalla parte dei los de abajo. In questo senso può essere collocata anche la protesta spontanea del giugno 2013, quando i comitati popolari che si opponevano alle grandi opere in vista dei mondiali di calcio del 2014 e il Movimento Passe Livre, di tendenza anarchica, avevano dato vita alle prime mobilitazioni che invitavano il Pt a varare politiche per le fasce sociali più deboli (a partire dal diritto al trasporto), prima che l’ultradestra si infiltrasse nella contestazione allo scopo di far cadere Dilma già allora. Sempre dal 2013, evidenzia Zibechi, si è verificato un picco delle lotte e degli scioperi operai che non si registrava dal 1988, anno in cui veniva approvata la nuova Costituzione a tre anni dalla fine della dittatura. Negli ultimi anni, per smuovere un governo che, sia per contraddizioni proprie sia perché legato a partiti il cui apporto era fondamentale per la sopravvivenza dell’esecutivo (vedi il Pmdb di Cunha e Michel Temer) non faceva alcun passo avanti dal punto di vista sociale, le organizzazioni popolari hanno rilanciato con forza le loro lotte per la dignità e per la vita in uno dei paesi più diseguali del mondo, dove classismo, razzismo e accumulazione di capitale godono ancora di diritto di cittadinanza nonostante i tentativi di democratizzazione messi in atto da Lula e Dilma. E’ in questo contesto che, spaventate dal nuovo attivismo dei movimenti, dall’ondata di nuove occupazioni promosse dai Sem terra alle mobilitazioni dei favelados e della gioventù nera, il capitale ha reagito decidendo di eliminare politicamente la presidenta e ristabilire l’ordine.
I ministri chiamati da Temer “per fare pulizia”, come ha scritto O Globo (ma anche mezzi di informazione che si definiscono democratici, in Italia e all’estero), hanno però un pessimo curriculum, da Blairo Maggi, leader della bancada ruralista e tra i maggiori produttori di soia al mondo (oltre ad essere nemico giurato dei Sem terra) a Sérgio Etchegoyen alla Sicurezza. Quest’ultimo, secondo il rapporto della Commissione nazionale della verità, che durante il primo mandato di Dilma Rousseff aveva divulgato un coraggioso rapporto sui crimini della dittatura, figura tra i militari più coinvolti nella violazione dei diritti umani all’epoca del regime. E ancora, sono coinvolti nell’operazione Lava Jato Geddel Vieira Lima (Secretaria de Governo), Henrique Alves (Turismo) e Romero Jucà (Planejamento), mentre José Serra, agli Esteri, è indagato per riciclaggio di denaro sporco tramite imprese offshore nei paradisi fiscali dei Caraibi, oltre che per tangenti in relazione alla costruzione della metropolitana di San Paolo. Infine, nella squadra di Temer, non c’è posto per le donne, scompaiono i ministeri per l’uguaglianza razziale e per i diritti umani (non accadeva dalla dittatura) e alla Giustizia viene rispolverato Alexandre de Moraes, che ha già definito gli studenti che occupano le scuole come “terroristi”.
Nel mondo nessuno si muove, anzi, la cacciata di Dilma viene vista come una liberazione, a partire da Washington, nemmeno fosse il primo Evo che terrorizzava la casa bianca o il “diavolo” Chávez. Finora, un plauso va al Venezuela, che mostrando grande dignità ha già ritirato l’ambasciatore da Brasilia. E tutti gli altri?

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