Ho ritrovato fra i miei appunti
la traduzione di un famoso discorso di Enoch Powell, politico conservatore
inglese, promotore della svolta restrittiva in materia di immigrazione dei
primi anni ’70.
Il discorso risale al 1969, ma
sembra scritto oggi da un amministratore toscano del Pd o anche da un Veltroni
qualsiasi. Gli elementi ci sono tutti: la retorica delle regole, il “non sono
razzista ma”, l’appello al senso comune, il riferimento al cosiddetto “vissuto”
dei cittadini (l’anziana che non può più vivere nel suo quartiere perché pieno
di “negri”, l’onesto lavoratore che si sente “straniero a casa sua”…). Usa
persino il termine “divisivo” (divisive in inglese), tipico del lessico
veltroniano. Ecco da chi hanno copiato i nostri amministratori luminosi (che
tali sono se qualcun altro paga la luce…).
Sotto trovate anche il link
all’originale inglese, così se volete potete controllare la traduzione (e
magari farla meglio di quanto possa fare io).
Lo scopo più alto dell’arte di governare è
quello di prevenire i mali evitabili. Nel cercare di farlo, si incontrano
ostacoli profondamente radicati nella natura umana.
Uno di questi ostacoli è che, per loro stessa
natura, i problemi non sono evidenti fino a quando non si verificano: e in ogni
fase del loro manifestarsi c’è spazio per dubbi e per controversie, reali o
immaginarie che siano. Per lo stesso motivo, i problemi futuri attirano poca
attenzione rispetto alle difficoltà attuali, ben più evidenti e pressanti: di
qui la tentazione costante della politica, di dedicare attenzioni esclusive al
presente dimenticando il futuro.
Spesso, le persone fanno confusione, e chi
solleva un problema è considerato causa del problema stesso, o comunque
fomentatore di guai: “Se nessuno ne avesse parlato”, si dice spesso, “non
sarebbe successo”. Forse questo atteggiamento deriva dalle credenze primitive,
secondo cui la parola e la cosa, il nome e l’oggetto, sono identici.
Per un uomo politico, la discussione sui
problemi futuri, ancorché evitabili, è dunque il lavoro più impopolare e allo
stesso tempo il più necessario. Coloro che consapevolmente si sottraggono a
questo lavoro meritano, e non di rado ricevono, le maledizioni di quelli che
verranno dopo.
Una o due settimane fa, mi è capitato di
discutere con un elettore, un normale lavoratore di mezza età impiegato in una
delle nostre industrie nazionalizzate.
Dopo qualche frase di circostanza sul tempo,
improvvisamente mi ha detto: “Se avessi i soldi per andarmene, non rimarrei in
questo Paese”. Ho risposto in modo deciso, spiegando che anche questo governo
non sarebbe durato per sempre; ma lui non ci ha fatto caso, e ha continuato:
“Ho tre figli, tutti sono andati a scuola e due di loro si sono sposati. Non
sarò soddisfatto finché non li vedrò andare all’estero. In questo Paese, nel
giro di quindici o venti anni, l’uomo nero diventerà il padrone dell’uomo
bianco”.
Sento già i cori della polemica: come si può
dire una cosa così orribile? E perché riferire questo scambio di battute, così
gravido di risentimenti e foriero di problemi?
La risposta è che non ho il diritto di tenere
segreta questa conversazione. Perché qui siamo di fronte a un lavoratore
inglese, a una persona normale e beneducata, che in pieno giorno dice a me,
parlamentare eletto dai cittadini, che il suo Paese non sarà vivibile per i
suoi figli.
Semplicemente non ho il diritto di alzare le
spalle e pensare ad altro. Ciò che quest’uomo mi sta dicendo, lo dicono e lo
pensano migliaia, centinaia di migliaia di persone: non tutta la Gran Bretagna,
forse, ma molti di coloro che vivono nelle zone che stanno subendo una
trasformazione epocale, senza precedenti in un millennio di storia inglese.
Nel giro di quindici o venti anni, se le
attuali tendenze rimarranno costanti, ci saranno in questo Paese tre milioni e
mezzo fra immigrati del Commonwealth e loro discendenti. Non sono io a dirlo:
sono i dati ufficiali, presentati in Parlamento dal portavoce dell’Ufficio
Generale del Registro.
Non ci sono previsioni ufficiali per l’anno
2000, ma la cifra potrebbe aggirarsi tra i cinque e i sette milioni, circa un
decimo di tutta la popolazione, e più o meno il numero di abitanti di tutta la
città di Londra. Ovviamente gli immigrati non saranno distribuiti in modo
uniforme da Margate a Aberystwyth e da Penzance a Aberdeen.
Intere aree, città e parti di città in tutta
l’Inghilterra saranno occupati da immigrati e discendenti di immigrati.
Col passare del tempo, la percentuale dei
discendenti di immigrati, cioè di coloro che sono nati in Inghilterra, che
dunque sono arrivati qui facendo esattamente il nostro stesso percorso,
aumenterà rapidamente. Già nel 1985 i nati in Gran Bretagna saranno la
maggioranza. È questo fatto che crea l’estrema urgenza di agire subito, e di
agire in un modo che è complicato per i politici, perché le difficoltà nascono
dal presente, ma i mali da prevenire o ridurre al minimo si verificheranno
diverse legislature più avanti.
Di fronte a una simile prospettiva, la prima
domanda naturale e razionale da porre è: “Come possiamo ridurre queste cifre?”.
Si tratta di un fenomeno che non possiamo evitare del tutto, ma che possiamo
limitare, tenendo presente che i numeri qui sono essenziali: quando in un Paese
si introduce un elemento straniero, profondamente diverso dalla popolazione
autoctona, l’impatto è assai diverso a seconda che tale elemento rappresenti
l’1 o il 10 per cento.
E di fronte a una domanda così semplice e
razionale, le risposte sono altrettanto semplici e razionali: dobbiamo fermare,
o limitare drasticamente, ogni ulteriore afflusso, e al contempo promuovere un
ampio deflusso di immigrati. Entrambe le risposte sono parte della politica
ufficiale del Partito conservatore.
È opinione comune che ogni settimana arrivino
20 o 30 bambini immigrati da oltreoceano a Wolverhampton e questo significa che
avremo 15 o 20 ulteriori famiglie nell’arco di un decennio o due.
Se gli dei ti vogliono distruggere, prima ti
fanno impazzire. La nostra nazione deve essere pazza, letteralmente pazza, se
permette l’afflusso annuale di circa 50.000 familiari, che rappresentano la
materia prima per la futura crescita della popolazione discendente da
immigrati. È come guardare una nazione attivamente impegnata nell’accumulare la
propria pira funebre. Siamo così folli che consentiamo alle persone non sposate
di emigrare, allo scopo di fondare una famiglia con coniugi e fidanzati che non
hanno mai visto.
Non c’è motivo di ritenere che il flusso di
familiari sia destinato a ridursi automaticamente. Al contrario, anche con
l’attuale tasso di ammissione di soli 5.000 migranti l’anno, c’è materiale
sufficiente per 25.000 successivi ingressi di familiari, senza considerare
l’enorme serbatoio di relazioni esistenti in questo Paese e non faccio alcun
distinguo con chi entra in modo fraudolento. In queste circostanze l’unica cosa
da fare è quella di ridurre a dimensioni trascurabili l’afflusso di nuovi
immigrati che arrivano per stabilirsi qui, e prendere i necessari provvedimenti
legislativi e amministrativi, senza indugio.
Sottolineo “che arrivano per stabilirsi qui”.
Il discorso non riguarda l’ingresso di quei cittadini del Commonwealth, e di
quegli stranieri, che arrivano per studiare o per migliorare le loro
qualifiche, come (per esempio) i medici del Commonwealth che, a vantaggio anche
dei loro Paesi, hanno permesso al nostro servizio ospedaliero di essere
ampliato più velocemente di quanto sarebbe stato altrimenti possibile. Essi non
sono, e non sono mai stati, degli immigrati.
Vengo al tema della ri-emigrazione. Se tutta
l’immigrazione si interrompesse domani, il tasso di crescita degli immigrati e
dei loro discendenti sarebbe sostanzialmente ridotto, ma la dimensione
potenziale dell’elemento straniero nella popolazione lascerebbe inalterato il
pericolo. È necessario dunque allontanare una parte consistente delle persone
entrate in questo Paese negli ultimi dieci anni.
Di qui l’urgenza di dare applicazione al
secondo pilastro della politica del Partito Conservatore: l’incentivo alla
ri-emigrazione.
Non è possibile sapere quante persone, se
stimolate da generosi incentivi, sceglierebbero di tornare alle loro terre di
origine, o di andare in altri Paesi ansiosi di usufruire della manodopera e
delle competenze dei nostri immigrati.
Non è possibile saperlo, perché una simile
politica non è stata ancora sperimentata. Posso solo dire che, anche oggi, gli
immigrati che conosco mi vengono a trovare di tanto in tanto, e mi chiedono un
aiuto per ritornare a casa. Se una politica di ritorno venisse adottata e messa
in pratica, con la determinazione imposta dalla gravità della situazione, il
deflusso di migranti potrebbe cambiare apprezzabilmente le cose.
Il terzo pilastro della politica del Partito
Conservatore è che tutti coloro che si trovano in questo Paese in qualità di
cittadini devono essere uguali di fronte alla legge, e che non deve esservi
alcuna discriminazione o differenza fatta tra loro da un’autorità pubblica.
Come ha ben detto il signor Heath, non
dobbiamo avere cittadini “di serie A e di serie B”. Questo non significa che
l’immigrato e il suo discendente debbano essere elevati a una classe
privilegiata o speciale, né che al cittadino debba essere negato il diritto di
discriminare, nella gestione dei suoi affari, tra un concittadino e un altro, e
nemmeno che si debba imporre un comportamento piuttosto che un altro a
chicchessia.
È una mistificazione grossolana della realtà
quella di chi chiede a gran voce una legislazione “contro la discriminazione”
come spesso viene chiamata: essa viene invocata da molti scrittori e
commentatori, nonché da quei giornali che anno dopo anno, nel decennio 1930,
hanno cercato di accecare questo Paese di fronte al pericolo, o da arcivescovi
che vivono chiusi nei loro palazzi, con le coperte delicatamente tirate fin
sopra la testa. Questa gente ha fatto esattamente e diametralmente il contrario
di quel che si doveva fare.
La discriminazione e la deprivazione, il senso
di allarme e il risentimento, albergano non tra gli immigrati, ma tra coloro
che hanno visto e vedono arrivare un numero crescente di immigrati. Per questo,
adottare oggi una legislazione del genere significa gettare un fiammifero sulla
polvere da sparo. La cosa più gentile che si può dire, di coloro che sostengono
simili proposte, è che non sanno quello che fanno.
Non c’è nulla di più fuorviante del paragone
tra l’immigrato del Commonwealth in Gran Bretagna e il negro americano. La
popolazione negra degli Stati Uniti, che esisteva prima che gli Stati Uniti
diventassero una nazione, ha iniziato ad esistere, letteralmente, come una
popolazione di schiavi: è stata successivamente affrancata, ha ottenuto i
diritti di cittadinanza, all’esercizio dei quali è arrivata solo gradualmente e
in forma ancora incompleta. L’immigrato del Commonwealth è venuto in Gran
Bretagna come cittadino a pieno titolo, in un Paese che non concepiva alcuna
discriminazione tra un cittadino e un altro, e ha avuto subito i diritti di
cittadinanza, dal voto all’assistenza sanitaria gratuita.
I problemi cui vanno incontro i nostri
immigrati non derivano dalla legge, né dalle politiche pubbliche, e nemmeno
dall’azione amministrativa, ma da quelle circostanze personali e da quegli
eventi in forza dei quali, oggi come sempre, la fortuna e l’esperienza di un
uomo sono differenti da quelle di un altro uomo.
Ma mentre, per l’immigrato, l’ingresso in
questo Paese ha significato ammissione a privilegi e a opportunità avidamente
ricercate, l’impatto sulla popolazione esistente è stato assai diverso. Per
ragioni che non potevano comprendere, e in virtù di un fatto compiuto sul quale
non sono stati mai consultati, i cittadini si sono trovati a essere stranieri
nel loro stesso Paese.
Hanno scoperto che le loro mogli non riescono
ad avere un letto in ospedale al momento del parto, che per i loro figli non ci
sono posti nelle scuole, che le loro case e e i loro quartieri sono cambiati
fino a diventare irriconoscibili, che i piani e le prospettive per il loro
futuro non si sono realizzati; al lavoro, hanno scoperto che i datori di lavoro
esitano ad applicare anche all’immigrato gli standard di disciplina e di
competenza richiesti al lavoratore nativo; si sentono dire sempre più spesso
che sono loro gli indesiderabili. Vedono che il Parlamento sta per sancire per
legge un privilegio a senso unico; e quella legge che non può e non vuole
proteggerli, né ascoltare le loro rimostranze, sta per essere approvata, e darà
allo straniero e al provocatore il potere di gogna sulle loro azioni private.
Nelle centinaia e centinaia di lettere che ho
ricevuto quando ho parlato l’ultima volta di queste cose, due o tre mesi fa,
c’era un elemento sorprendente e in gran parte nuovo, che trovo inquietante.
Tutti i parlamentari sono da sempre
destinatari di lettere inviate dal classico corrispondente anonimo; ma ciò che
mi ha sorpreso e allarmato è l’alta percentuale di persone comuni, di buon
senso, beneducate, che hanno scritto lettere cortesi e ragionevoli, ma che
hanno scelto di omettere il loro indirizzo perché era pericoloso scrivere a un
parlamentare esprimendo il punto di vista che avevo espresso io: rischiavano
rappresaglie se qualcuno lo avesse saputo. La sensazione di essere una
minoranza perseguitata, che sta crescendo tra la gente comune, è difficile da
immaginare per chi non ha esperienza diretta di questi fenomeni.
Faccio parlare una delle centinaia di persone
che mi hanno scritto: “Otto anni fa, in una strada rispettabile di
Wolverhampton, una casa è stata venduta a un negro. Ora solo una persona bianca
(un’anziana signora in pensione) vive in quella zona”. Questa è la sua storia.
Ha perso il marito ed entrambi i figli in guerra. Così ha trasformato la sua
casa di sette stanze, la sua unica fonte di ricchezza, in una pensione. Ha
lavorato tanto e bene, ha pagato il mutuo e ha cominciato a mettere qualcosa da
parte per la vecchiaia. Poi sono arrivati gli immigrati. Li ha visti, con
sgomento, prendere una casa dopo l’altra. La strada, un tempo così tranquilla,
è diventata un luogo di rumore e confusione. Purtroppo, i suoi inquilini
bianchi si sono tutti trasferiti. Il giorno dopo la partenza dell’ultima
famiglia di bianchi, la signora venne svegliata alle 7 del mattino da due negri
che volevano usare il suo telefono per contattare il datore di lavoro. Lei
rifiutò, come avrebbe fatto chiunque con degli estranei a quell’ora: venne insultata,
ed ebbe paura di subire violenza, nonostante avesse la catena alla porta.
Alcune famiglie di immigrati hanno cercato di affittare delle camere in casa
sua, ma lei ha sempre rifiutato. I suoi modesti risparmi si sono dissolti, e
dopo aver pagato le tasse guadagna meno di 2 sterline a settimana. Quando è
andata a chiedere una riduzione delle tasse ha incontrato una giovane ragazza:
questa, sentendo che la donna aveva una casa di sette stanze, le ha suggerito
di affittare o vendere una parte dell’alloggio. Quando la signora ha risposto
che le uniche persone che potevano acquistarlo o affittarlo erano negre, la
ragazza ha risposto: “Il pregiudizio razziale non la porterà da nessuna parte”.
Il telefono è la sua ancora di salvezza. La sua famiglia paga le bollette, e la
aiuta per quanto possibile. Gli immigrati le hanno offerto di comprare la sua
casa ad un prezzo che il futuro proprietario avrebbe potuto recuperare dai
suoi inquilini nel giro di poche settimane, al massimo di qualche mese. Lei ha
sempre paura di uscire. Le finestre sono rotte. Trova spesso escrementi
depositati nella cassetta delle lettere. Quando va a fare la spesa, viene
seguita regolarmente da gruppi di bambini negretti, belli e sorridenti. Non
parlano inglese, ma una parola la conoscono. “Razzista” cantano. Questa donna è
convinta che finirà in prigione quando il Race Relations Bill sarà approvato.
Sbaglia? Comincio ad avere qualche dubbio.
L’altra illusione pericolosa, di cui soffrono
coloro che non vogliono o non sanno vedere la realtà dei fatti, si riassume
nella parola “integrazione”. Essere integrati in una popolazione significa
diventare a tutti gli effetti indistinguibili dai suoi membri.
Ora, in ogni epoca, quando ci sono marcate
differenze fisiche, in particolare di colore, l’integrazione è difficile, ma
nel medio periodo non impossibile. Molti immigrati del Commonwealth sono venuti
a vivere qui negli ultimi quindici anni, e tra loro vi sono migliaia di persone
il cui desiderio è di essere integrate, e i cui sforzi vanno in questa
direzione.
Ma immaginare che un obiettivo del genere
entri nella testa di una grande e crescente maggioranza di immigrati e di loro
discendenti, è un’idea ridicola e pericolosa.
Siamo alla vigilia di un grande cambiamento.
Finora è stata la forza delle cose a rendere l’idea stessa di integrazione
inaccessibile alla maggior parte della popolazione immigrata: perché questa non
ha mai concepito una cosa del genere, e perché il numero di immigrati e la loro
concentrazione hanno fatto sì che le pressioni verso l’integrazione non
funzionassero.
Ora stiamo assistendo alla crescita di forze
che agiscono contro l’integrazione, che hanno interesse a conservare e a
irrigidire le differenze razziali e religiose, al fine di esercitare un potere,
anzitutto sugli altri immigrati, poi sul resto della popolazione. La nuvola non
più grande di una mano, che può rapidamente oscurare il cielo, è stata ben
visibile di recente a Wolverhampton, ed è capace di diffondersi in fretta. Le
parole che sto per usare, testualmente come apparivano sulla stampa locale il
17 febbraio, non sono mie, ma di un parlamentare laburista che è anche un
ministro del governo attuale: “La campagna delle comunità sikh, finalizzata a
mantenere abitudini inappropriate in Gran Bretagna, è assai deplorevole.
Lavorando in Gran Bretagna, in particolare nei servizi pubblici, queste persone
dovrebbero accettare i termini e le condizioni del loro impiego. Rivendicare
speciali diritti (o dovrei dire riti?) porta ad una frammentazione pericolosa
all’interno della società. Questo comunitarismo è un cancro; e deve essere
condannato, da qualunque colore provenga”.
Massima stima per John Stonehouse per aver
percepito il pericolo, e per aver avuto il coraggio di pronunciare queste
parole.
Per questi elementi pericolosi e divisivi, il
Race Relations Bill è il brodo di coltura di cui hanno bisogno per prosperare.
Ecco il modo per mostrare che le comunità di immigrati possono organizzarsi,
possono agire contro i loro stessi concittadini, possono intimidire e dominare
il resto della popolazione con quelle armi legali che gli ignoranti e i male
informati hanno fornito loro.
Guardando al futuro, sono pieno di
inquietudini; come l’antico romano, mi sembra di vedere “il Tevere schiumare di
sangue”.
Quel fenomeno tragico e ingovernabile, che
guardiamo con orrore al di là dell’Atlantico, sta arrivando da noi, per nostra
volontà e per nostra negligenza. Anzi, è già arrivato. In termini numerici,
avrà proporzioni americane molto prima della fine del secolo.
Solo un’azione risoluta e urgente può
evitarlo, anche ora. Se ci sarà la volontà politica di chiedere ed ottenere
questa azione, non lo so.
Tutto quel che so è che vedere, e non parlare,
sarebbe il peggior tradimento.
Fonte:
John Enoch Powell, speech in Birmingham, meeting of the Conservative Political
Centre, 20 Aprile 1968, pubblicato come John Enoch Powell, Immigration, in John
Wood (a cura di), J. Enoch Powell Freedom and Reality, Elliot Right Way
Books, Kingswoo 1969, pagg. 213-219, ripubblicato online come Enoch Powell’s
³Rivers of Blood² speech, in «The Telegraph», edizione web, 6 Novembre 2007
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