giovedì 19 maggio 2016

Enoch Powell, il Pd (toscano, ma non solo e i migranti) - Sergio Bontempelli

Ho ritrovato fra i miei appunti la traduzione di un famoso discorso di Enoch Powell, politico conservatore inglese, promotore della svolta restrittiva in materia di immigrazione dei primi anni ’70.
Il discorso risale al 1969, ma sembra scritto oggi da un amministratore toscano del Pd o anche da un Veltroni qualsiasi. Gli elementi ci sono tutti: la retorica delle regole, il “non sono razzista ma”, l’appello al senso comune, il riferimento al cosiddetto “vissuto” dei cittadini (l’anziana che non può più vivere nel suo quartiere perché pieno di “negri”, l’onesto lavoratore che si sente “straniero a casa sua”…). Usa persino il termine “divisivo” (divisive in inglese), tipico del lessico veltroniano. Ecco da chi hanno copiato i nostri amministratori luminosi (che tali sono se qualcun altro paga la luce…).
Sotto trovate anche il link all’originale inglese, così se volete potete controllare la traduzione (e magari farla meglio di quanto possa fare io).

Lo scopo più alto dell’arte di governare è quello di prevenire i mali evitabili. Nel cercare di farlo, si incontrano ostacoli profondamente radicati nella natura umana.
Uno di questi ostacoli è che, per loro stessa natura, i problemi non sono evidenti fino a quando non si verificano: e in ogni fase del loro manifestarsi c’è spazio per dubbi e per controversie, reali o immaginarie che siano. Per lo stesso motivo, i problemi futuri attirano poca attenzione rispetto alle difficoltà attuali, ben più evidenti e pressanti: di qui la tentazione costante della politica, di dedicare attenzioni esclusive al presente dimenticando il futuro.
Spesso, le persone fanno confusione, e chi solleva un problema è considerato causa del problema stesso, o comunque fomentatore di guai: “Se nessuno ne avesse parlato”, si dice spesso, “non sarebbe successo”. Forse questo atteggiamento deriva dalle credenze primitive, secondo cui la parola e la cosa, il nome e l’oggetto, sono identici.
Per un uomo politico, la discussione sui problemi futuri, ancorché evitabili, è dunque il lavoro più impopolare e allo stesso tempo il più necessario. Coloro che consapevolmente si sottraggono a questo lavoro meritano, e non di rado ricevono, le maledizioni di quelli che verranno dopo.
Una o due settimane fa, mi è capitato di discutere con un elettore, un normale lavoratore di mezza età impiegato in una delle nostre industrie nazionalizzate.
Dopo qualche frase di circostanza sul tempo, improvvisamente mi ha detto: “Se avessi i soldi per andarmene, non rimarrei in questo Paese”. Ho risposto in modo deciso, spiegando che anche questo governo non sarebbe durato per sempre; ma lui non ci ha fatto caso, e ha continuato: “Ho tre figli, tutti sono andati a scuola e due di loro si sono sposati. Non sarò soddisfatto finché non li vedrò andare all’estero. In questo Paese, nel giro di quindici o venti anni, l’uomo nero diventerà il padrone dell’uomo bianco”.
Sento già i cori della polemica: come si può dire una cosa così orribile? E perché riferire questo scambio di battute, così gravido di risentimenti e foriero di problemi?
La risposta è che non ho il diritto di tenere segreta questa conversazione. Perché qui siamo di fronte a un lavoratore inglese, a una persona normale e beneducata, che in pieno giorno dice a me, parlamentare eletto dai cittadini, che il suo Paese non sarà vivibile per i suoi figli.
Semplicemente non ho il diritto di alzare le spalle e pensare ad altro. Ciò che quest’uomo mi sta dicendo, lo dicono e lo pensano migliaia, centinaia di migliaia di persone: non tutta la Gran Bretagna, forse, ma molti di coloro che vivono nelle zone che stanno subendo una trasformazione epocale, senza precedenti in un millennio di storia inglese.
Nel giro di quindici o venti anni, se le attuali tendenze rimarranno costanti, ci saranno in questo Paese tre milioni e mezzo fra immigrati del Commonwealth e loro discendenti. Non sono io a dirlo: sono i dati ufficiali, presentati in Parlamento dal portavoce dell’Ufficio Generale del Registro.
Non ci sono previsioni ufficiali per l’anno 2000, ma la cifra potrebbe aggirarsi tra i cinque e i sette milioni, circa un decimo di tutta la popolazione, e più o meno il numero di abitanti di tutta la città di Londra. Ovviamente gli immigrati non saranno distribuiti in modo uniforme da Margate a Aberystwyth e da Penzance a Aberdeen.
Intere aree, città e parti di città in tutta l’Inghilterra saranno occupati da immigrati e discendenti di immigrati.
Col passare del tempo, la percentuale dei discendenti di immigrati, cioè di coloro che sono nati in Inghilterra, che dunque sono arrivati qui facendo esattamente il nostro stesso percorso, aumenterà rapidamente. Già nel 1985 i nati in Gran Bretagna saranno la maggioranza. È questo fatto che crea l’estrema urgenza di agire subito, e di agire in un modo che è complicato per i politici, perché le difficoltà nascono dal presente, ma i mali da prevenire o ridurre al minimo si verificheranno diverse legislature più avanti.
Di fronte a una simile prospettiva, la prima domanda naturale e razionale da porre è: “Come possiamo ridurre queste cifre?”. Si tratta di un fenomeno che non possiamo evitare del tutto, ma che possiamo limitare, tenendo presente che i numeri qui sono essenziali: quando in un Paese si introduce un elemento straniero, profondamente diverso dalla popolazione autoctona, l’impatto è assai diverso a seconda che tale elemento rappresenti l’1 o il 10 per cento.
E di fronte a una domanda così semplice e razionale, le risposte sono altrettanto semplici e razionali: dobbiamo fermare, o limitare drasticamente, ogni ulteriore afflusso, e al contempo promuovere un ampio deflusso di immigrati. Entrambe le risposte sono parte della politica ufficiale del Partito conservatore.
È opinione comune che ogni settimana arrivino 20 o 30 bambini immigrati da oltreoceano a Wolverhampton e questo significa che avremo 15 o 20 ulteriori famiglie nell’arco di un decennio o due.
Se gli dei ti vogliono distruggere, prima ti fanno impazzire. La nostra nazione deve essere pazza, letteralmente pazza, se permette l’afflusso annuale di circa 50.000 familiari, che rappresentano la materia prima per la futura crescita della popolazione discendente da immigrati. È come guardare una nazione attivamente impegnata nell’accumulare la propria pira funebre. Siamo così folli che consentiamo alle persone non sposate di emigrare, allo scopo di fondare una famiglia con coniugi e fidanzati che non hanno mai visto.
Non c’è motivo di ritenere che il flusso di familiari sia destinato a ridursi automaticamente. Al contrario, anche con l’attuale tasso di ammissione di soli 5.000 migranti l’anno, c’è materiale sufficiente per 25.000 successivi ingressi di familiari, senza considerare l’enorme serbatoio di relazioni esistenti in questo Paese ­ e non faccio alcun distinguo con chi entra in modo fraudolento. In queste circostanze l’unica cosa da fare è quella di ridurre a dimensioni trascurabili l’afflusso di nuovi immigrati che arrivano per stabilirsi qui, e prendere i necessari provvedimenti legislativi e amministrativi, senza indugio.
Sottolineo “che arrivano per stabilirsi qui”. Il discorso non riguarda l’ingresso di quei cittadini del Commonwealth, e di quegli stranieri, che arrivano per studiare o per migliorare le loro qualifiche, come (per esempio) i medici del Commonwealth che, a vantaggio anche dei loro Paesi, hanno permesso al nostro servizio ospedaliero di essere ampliato più velocemente di quanto sarebbe stato altrimenti possibile. Essi non sono, e non sono mai stati, degli immigrati.
Vengo al tema della ri-emigrazione. Se tutta l’immigrazione si interrompesse domani, il tasso di crescita degli immigrati e dei loro discendenti sarebbe sostanzialmente ridotto, ma la dimensione potenziale dell’elemento straniero nella popolazione lascerebbe inalterato il pericolo. È necessario dunque allontanare una parte consistente delle persone entrate in questo Paese negli ultimi dieci anni.
Di qui l’urgenza di dare applicazione al secondo pilastro della politica del Partito Conservatore: l’incentivo alla ri-emigrazione.
Non è possibile sapere quante persone, se stimolate da generosi incentivi, sceglierebbero di tornare alle loro terre di origine, o di andare in altri Paesi ansiosi di usufruire della manodopera e delle competenze dei nostri immigrati.
Non è possibile saperlo, perché una simile politica non è stata ancora sperimentata. Posso solo dire che, anche oggi, gli immigrati che conosco mi vengono a trovare di tanto in tanto, e mi chiedono un aiuto per ritornare a casa. Se una politica di ritorno venisse adottata e messa in pratica, con la determinazione imposta dalla gravità della situazione, il deflusso di migranti potrebbe cambiare apprezzabilmente le cose.
Il terzo pilastro della politica del Partito Conservatore è che tutti coloro che si trovano in questo Paese in qualità di cittadini devono essere uguali di fronte alla legge, e che non deve esservi alcuna discriminazione o differenza fatta tra loro da un’autorità pubblica.
Come ha ben detto il signor Heath, non dobbiamo avere cittadini “di serie A e di serie B”. Questo non significa che l’immigrato e il suo discendente debbano essere elevati a una classe privilegiata o speciale, né che al cittadino debba essere negato il diritto di discriminare, nella gestione dei suoi affari, tra un concittadino e un altro, e nemmeno che si debba imporre un comportamento piuttosto che un altro a chicchessia.
È una mistificazione grossolana della realtà quella di chi chiede a gran voce una legislazione “contro la discriminazione” come spesso viene chiamata: essa viene invocata da molti scrittori e commentatori, nonché da quei giornali che anno dopo anno, nel decennio 1930, hanno cercato di accecare questo Paese di fronte al pericolo, o da arcivescovi che vivono chiusi nei loro palazzi, con le coperte delicatamente tirate fin sopra la testa. Questa gente ha fatto esattamente e diametralmente il contrario di quel che si doveva fare.
La discriminazione e la deprivazione, il senso di allarme e il risentimento, albergano non tra gli immigrati, ma tra coloro che hanno visto e vedono arrivare un numero crescente di immigrati. Per questo, adottare oggi una legislazione del genere significa gettare un fiammifero sulla polvere da sparo. La cosa più gentile che si può dire, di coloro che sostengono simili proposte, è che non sanno quello che fanno.
Non c’è nulla di più fuorviante del paragone tra l’immigrato del Commonwealth in Gran Bretagna e il negro americano. La popolazione negra degli Stati Uniti, che esisteva prima che gli Stati Uniti diventassero una nazione, ha iniziato ad esistere, letteralmente, come una popolazione di schiavi: è stata successivamente affrancata, ha ottenuto i diritti di cittadinanza, all’esercizio dei quali è arrivata solo gradualmente e in forma ancora incompleta. L’immigrato del Commonwealth è venuto in Gran Bretagna come cittadino a pieno titolo, in un Paese che non concepiva alcuna discriminazione tra un cittadino e un altro, e ha avuto subito i diritti di cittadinanza, dal voto all’assistenza sanitaria gratuita.
I problemi cui vanno incontro i nostri immigrati non derivano dalla legge, né dalle politiche pubbliche, e nemmeno dall’azione amministrativa, ma da quelle circostanze personali e da quegli eventi in forza dei quali, oggi come sempre, la fortuna e l’esperienza di un uomo sono differenti da quelle di un altro uomo.
Ma mentre, per l’immigrato, l’ingresso in questo Paese ha significato ammissione a privilegi e a opportunità avidamente ricercate, l’impatto sulla popolazione esistente è stato assai diverso. Per ragioni che non potevano comprendere, e in virtù di un fatto compiuto sul quale non sono stati mai consultati, i cittadini si sono trovati a essere stranieri nel loro stesso Paese.
Hanno scoperto che le loro mogli non riescono ad avere un letto in ospedale al momento del parto, che per i loro figli non ci sono posti nelle scuole, che le loro case e e i loro quartieri sono cambiati fino a diventare irriconoscibili, che i piani e le prospettive per il loro futuro non si sono realizzati; al lavoro, hanno scoperto che i datori di lavoro esitano ad applicare anche all’immigrato gli standard di disciplina e di competenza richiesti al lavoratore nativo; si sentono dire sempre più spesso che sono loro gli indesiderabili. Vedono che il Parlamento sta per sancire per legge un privilegio a senso unico; e quella legge che non può e non vuole proteggerli, né ascoltare le loro rimostranze, sta per essere approvata, e darà allo straniero e al provocatore il potere di gogna sulle loro azioni private.
Nelle centinaia e centinaia di lettere che ho ricevuto quando ho parlato l’ultima volta di queste cose, due o tre mesi fa, c’era un elemento sorprendente e in gran parte nuovo, che trovo inquietante.
Tutti i parlamentari sono da sempre destinatari di lettere inviate dal classico corrispondente anonimo; ma ciò che mi ha sorpreso e allarmato è l’alta percentuale di persone comuni, di buon senso, beneducate, che hanno scritto lettere cortesi e ragionevoli, ma che hanno scelto di omettere il loro indirizzo perché era pericoloso scrivere a un parlamentare esprimendo il punto di vista che avevo espresso io: rischiavano rappresaglie se qualcuno lo avesse saputo. La sensazione di essere una minoranza perseguitata, che sta crescendo tra la gente comune, è difficile da immaginare per chi non ha esperienza diretta di questi fenomeni.
Faccio parlare una delle centinaia di persone che mi hanno scritto: “Otto anni fa, in una strada rispettabile di Wolverhampton, una casa è stata venduta a un negro. Ora solo una persona bianca (un’anziana signora in pensione) vive in quella zona”. Questa è la sua storia. Ha perso il marito ed entrambi i figli in guerra. Così ha trasformato la sua casa di sette stanze, la sua unica fonte di ricchezza, in una pensione. Ha lavorato tanto e bene, ha pagato il mutuo e ha cominciato a mettere qualcosa da parte per la vecchiaia. Poi sono arrivati gli immigrati. Li ha visti, con sgomento, prendere una casa dopo l’altra. La strada, un tempo così tranquilla, è diventata un luogo di rumore e confusione. Purtroppo, i suoi inquilini bianchi si sono tutti trasferiti. Il giorno dopo la partenza dell’ultima famiglia di bianchi, la signora venne svegliata alle 7 del mattino da due negri che volevano usare il suo telefono per contattare il datore di lavoro. Lei rifiutò, come avrebbe fatto chiunque con degli estranei a quell’ora: venne insultata, ed ebbe paura di subire violenza, nonostante avesse la catena alla porta. Alcune famiglie di immigrati hanno cercato di affittare delle camere in casa sua, ma lei ha sempre rifiutato. I suoi modesti risparmi si sono dissolti, e dopo aver pagato le tasse guadagna meno di 2 sterline a settimana. Quando è andata a chiedere una riduzione delle tasse ha incontrato una giovane ragazza: questa, sentendo che la donna aveva una casa di sette stanze, le ha suggerito di affittare o vendere una parte dell’alloggio. Quando la signora ha risposto che le uniche persone che potevano acquistarlo o affittarlo erano negre, la ragazza ha risposto: “Il pregiudizio razziale non la porterà da nessuna parte”. Il telefono è la sua ancora di salvezza. La sua famiglia paga le bollette, e la aiuta per quanto possibile. Gli immigrati le hanno offerto di comprare la sua casa ­ ad un prezzo che il futuro proprietario avrebbe potuto recuperare dai suoi inquilini nel giro di poche settimane, al massimo di qualche mese. Lei ha sempre paura di uscire. Le finestre sono rotte. Trova spesso escrementi depositati nella cassetta delle lettere. Quando va a fare la spesa, viene seguita regolarmente da gruppi di bambini negretti, belli e sorridenti. Non parlano inglese, ma una parola la conoscono. “Razzista” cantano. Questa donna è convinta che finirà in prigione quando il Race Relations Bill sarà approvato. Sbaglia? Comincio ad avere qualche dubbio.
L’altra illusione pericolosa, di cui soffrono coloro che non vogliono o non sanno vedere la realtà dei fatti, si riassume nella parola “integrazione”. Essere integrati in una popolazione significa diventare a tutti gli effetti indistinguibili dai suoi membri.
Ora, in ogni epoca, quando ci sono marcate differenze fisiche, in particolare di colore, l’integrazione è difficile, ma nel medio periodo non impossibile. Molti immigrati del Commonwealth sono venuti a vivere qui negli ultimi quindici anni, e tra loro vi sono migliaia di persone il cui desiderio è di essere integrate, e i cui sforzi vanno in questa direzione.
Ma immaginare che un obiettivo del genere entri nella testa di una grande e crescente maggioranza di immigrati e di loro discendenti, è un’idea ridicola e pericolosa.
Siamo alla vigilia di un grande cambiamento. Finora è stata la forza delle cose a rendere l’idea stessa di integrazione inaccessibile alla maggior parte della popolazione immigrata: perché questa non ha mai concepito una cosa del genere, e perché il numero di immigrati e la loro concentrazione hanno fatto sì che le pressioni verso l’integrazione non funzionassero.
Ora stiamo assistendo alla crescita di forze che agiscono contro l’integrazione, che hanno interesse a conservare e a irrigidire le differenze razziali e religiose, al fine di esercitare un potere, anzitutto sugli altri immigrati, poi sul resto della popolazione. La nuvola non più grande di una mano, che può rapidamente oscurare il cielo, è stata ben visibile di recente a Wolverhampton, ed è capace di diffondersi in fretta. Le parole che sto per usare, testualmente come apparivano sulla stampa locale il 17 febbraio, non sono mie, ma di un parlamentare laburista che è anche un ministro del governo attuale: “La campagna delle comunità sikh, finalizzata a mantenere abitudini inappropriate in Gran Bretagna, è assai deplorevole. Lavorando in Gran Bretagna, in particolare nei servizi pubblici, queste persone dovrebbero accettare i termini e le condizioni del loro impiego. Rivendicare speciali diritti (o dovrei dire riti?) porta ad una frammentazione pericolosa all’interno della società. Questo comunitarismo è un cancro; e deve essere condannato, da qualunque colore provenga”.
Massima stima per John Stonehouse per aver percepito il pericolo, e per aver avuto il coraggio di pronunciare queste parole.
Per questi elementi pericolosi e divisivi, il Race Relations Bill è il brodo di coltura di cui hanno bisogno per prosperare. Ecco il modo per mostrare che le comunità di immigrati possono organizzarsi, possono agire contro i loro stessi concittadini, possono intimidire e dominare il resto della popolazione con quelle armi legali che gli ignoranti e i male informati hanno fornito loro.
Guardando al futuro, sono pieno di inquietudini; come l’antico romano, mi sembra di vedere “il Tevere schiumare di sangue”.
Quel fenomeno tragico e ingovernabile, che guardiamo con orrore al di là dell’Atlantico, sta arrivando da noi, per nostra volontà e per nostra negligenza. Anzi, è già arrivato. In termini numerici, avrà proporzioni americane molto prima della fine del secolo.
Solo un’azione risoluta e urgente può evitarlo, anche ora. Se ci sarà la volontà politica di chiedere ed ottenere questa azione, non lo so.
Tutto quel che so è che vedere, e non parlare, sarebbe il peggior tradimento.
Fonte: John Enoch Powell, speech in Birmingham, meeting of the Conservative Political Centre, 20 Aprile 1968, pubblicato come John Enoch Powell, Immigration, in John Wood (a cura di), J. Enoch Powell ­ Freedom and Reality, Elliot Right Way Books, Kingswoo 1969, pagg. 213-219, ripubblicato online come Enoch Powell’s ³Rivers of Blood² speech, in «The Telegraph», edizione web, 6 Novembre 2007


Nessun commento:

Posta un commento