Dal primo
gennaio scorso è in vigore la nuova normativa europea sui salvataggi dei grandi
gruppi bancari. Ecco che cosa cambia con le nuove regole
Il 1 gennaio
del 2015 è entrata in vigore la nuova normativa europea Bank Resolution
Recovery Directive o BRRD sui salvataggi dei grandi gruppi bancari. Una
direttiva pensata per evitare che future crisi bancarie possano nuovamente
pesare sulla comunità, dopo che la bolla dei subprime ha comportato un
gigantesco travaso di soldi dal pubblico al privato, o specularmente di debiti
dal privato al pubblico. 167 miliardi di euro il costo per la Gran Bretagna, 144 miliardi per la
“virtuosa” Germania, unicamente per le procedure di bail out, ovvero
il denaro fresco direttamente versato nelle banche. Cifre che si potrebbero mettere
a confronto con le richieste avanzate oggi dalle istituzioni europee alla
Grecia, soprattutto considerando, oltre alle somme in sé, l’assenza di ogni
condizione o richiesta per inondare le banche di soldi, e considerando anche
che i bail out sono unicamente una parte delle risorse messe a disposizione
delle banche per tenerle a galla (dagli oltre 1.000 miliardi di euro prestati a
un tasso dell’1% dalla BCE, ai tassi di riferimento portati praticamente a
zero, al rilancio delle cartolarizzazioni, al quantitative easing e chi più ne
ha più ne metta).
A differenza
del bail out, ovvero “salvataggio esterno”, il nuovo meccanismo previsto è il
bail in, a indicare un salvataggio con risorse interne alla banca stessa.
Semplificando, in caso di crisi saranno gli azionisti i primi a rimetterci per
ripianare le perdite; tocca poi ai detentori di obbligazioni, e in ultimo
eventualmente ai clienti, ovvero a chi ha un conto corrente, anche se
unicamente quelli con maggiori disponibilità, in quanto le normative nazionali
continuano a offrire una garanzia pubblica sui conti correnti fino a 100.000
euro circa. (Per maggiori informazioni sul funzionamento della BRRD scarica il
pdf Too big to fail (TBTF) in the European Union di Finance
Watch) Un’impostazione sicuramente più condivisibile della precedente. Comprare
azioni significa detenere capitale di rischio e diventare proprietario di una
parte – per quanto piccola – di un’impresa; l’acquisto di obbligazioni comporta
un rischio di insolvenza; chi apre un conto corrente ha responsabilità
sicuramente minori, ma decide comunque volontariamente di rivolgersi a un certo
istituto, a differenza di un contribuente che si trovava costretto, con il
precedente sistema, a contribuire suo malgrado ai salvataggi.
Il nuovo
sistema dovrebbe anche ridurre il cosiddetto azzardo morale che
contraddistingue i bail out: se so di avere un paracadute pubblico, il mio
comportamento razionale è quello di assumermi sempre più rischi: finché le cose
vanno bene i profitti sono privati, in caso contrario si socializzano le
perdite. Con il bail in, azionisti, obbligazionisti e clienti, nell’ordine,
dovrebbero invece essere più sensibili e attenti ed esercitare un controllo
informato sull’operato della banca. Tutto bene, quindi? In realtà le
perplessità sono diverse. La prima è legata agli attuali rapporti di forza tra
manager e azionisti: i primi prendono le decisioni, ma sono i secondi a rischiare
in caso di perdite. Questo è vero in particolare per la massa di piccoli
azionisti che non ha nessun potere di controllo o di influenza sull’operato
della banca. Per i gruppi di maggiori dimensioni, gran parte del capitale
azionario e obbligazionario è polverizzato tra centinaia di migliaia o milioni
di piccoli risparmiatori che spesso versano una quota in un fondo pensione o un
fondo di investimento e non sanno nemmeno di detenere un’azione o
un’obbligazione della banca in questione.
Sarebbe auspicabile,
ma è difficile pensare che il nuovo meccanismo possa portare lavoratori e
risparmiatori a informarsi puntualmente e agire di conseguenza, e più in
generale a un nuovo modello di governance in cui venga rimesso in discussione
il rapporto di forza tra piccoli azionisti e top manager. Non saranno forse i
contribuenti a pagare in caso di crisi, ma parliamo comunque di una moltitudine
di lavoratori e di fatto di una socializzazione di eventuali perdite bancarie,
mentre tramite stipendi milionari e bonus gran parte dei profitti rimangono in
poche mani private. In ogni scandalo e truffa recenti (subprime, Libor,
Euribor, mercato delle valute, ecc…) – le multe e sanzioni non sono ricadute su
banchieri e top management ma sulle banche in generale, che ne scaricano poi il
costo su azionisti e risparmiatori. In altre parole, il solo passare dal bail
out al bail in non sposta di molto il problema dell’azzardo morale: chi prende
le decisioni vede i propri profitti aumentare se le cose vanno bene ma non paga
di tasca propria quando vanno male.
In secondo
luogo le banche di maggiori dimensioni non trattano unicamente azioni,
obbligazioni e conti correnti, ma lavorano con una pletora di strumenti e
società collegate. Sono legate a doppio filo a società che di fatto svolgono un
ruolo simile a quello delle banche ma non sono sottoposte alla regolamentazione
e vigilanza bancaria: il cosiddetto sistema bancario ombra. Nel momento in cui
azionisti e grandi clienti rischiano di subire delle perdite, si potrebbe
profilare un incentivo per le banche a dare ai propri migliori clienti una
qualche scappatoia e a spostare sempre più attivi nell’ombra. Più in generale,
in assenza di una severa regolamentazione, con l’introduzione del bail in si
potrebbe verificare un’ulteriore espansione dello shadow
banking che nella sola UE ha raggiunto i 23,5mila miliardi di euro,
una crescita impressionante anche dai 17mila miliardi del 2007, allo scoppio
della crisi. In maniera per alcuni versi analoga preoccupa l’esenzione dal bail
in di alcune tipologie di strumenti finanziari, in primo luogo dei derivati
OTC, ovvero negoziati fuori borsa. Un’esenzione che potrebbe rappresentare un
incentivo per gli investitori a spostarsi su strumenti che non verrebbero
toccati in caso di crisi bancaria. (Per maggiori informazioni su sistema
bancario ombra e derivati OTC rispetto al bail in, scarica il pdf Report on the Bank Resolution Recovery Proposal of the European
Commission di Finance Watch)
Ancora
prima, la questione centrale è che si continua a intervenire a valle: tutta
l’attenzione è concentrata su cosa fare in caso di disastri, mentre su come
prevenirli si va avanti con il freno a mano tirato. Alcune banche sono troppo
grandi per fallire (too big to fail) senza rappresentare una minaccia per
l’insieme dell’economia, o sono troppo interconnesse al resto del sistema
finanziario (too interconnected to fail). In che modo il bail in potrebbe
evitare il rischio di contagio che ha trasformato la bolla dei subprime in una
crisi di fiducia e finanziaria globali? Proposte in in tale direzione nell’UE, dalla
separazione tra banche commerciali e di investimento alla regolamentazione del
sistema ombra a diverse altre, sono però impantanate tra veti incrociati dei
singoli Paesi ed enormi pressioni delle lobby del settore.
Citando la
recente Enciclica di Papa Francesco, “il salvataggio ad ogni costo
delle banche, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma
decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio
assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi
dopo una lunga, costosa e apparente cura.”[5] Il bail in può forse essere un
passo avanti rispetto al bail out, ma non rimette in discussione l’impianto di
base. Servono interventi normativi ex-ante, non ex-post. Discutiamo pure di
come raccogliere i cocci al prossimo disastro finanziario, ma sarebbe forse il
caso di interrogarsi su come evitare che tali disastri si ripetano con una tale
frequenza.
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