giovedì 2 luglio 2015

L’assassino delle vedove – Pavel Kohout

fate un esperimento: si prenda una strada di Praga, Bartolomějská, un poliziotto di nome Jan Morava, un quadro rubato e poi riapparso, due storie d'amore, delle vedove, il cimitero di Vinohrady, ambientate la storia negli ultimi giorni dell'occupazione nazista a Praga, e scrivete un romanzo thriller storico da 400 pagine, con almeno quegli elementi.
se però non avete tanto tempo, o vi spaventa l'impresa, non preoccupatevi, una storia così è dentro questo libro, già (ben) scritta, io ho fatto così.
se poi siete passati a Bartolomějská e al cimitero di Vinohrady siete di casa, ma anche se non siete mai stati a Praga il libro merita lo stesso, è una corsa contro il tempo, muore un'epoca e dalle ceneri nascerà qualcos'altro, qualcuno svolge il suo piccolo lavoro, in tempi quasi impossibili, ma il lavoro va portato a termine.
e quelle 400 pagine non vi peseranno, ne sono sicuro - franz







Una prova stilistica tanto vitale e disinvolta, una penna così perfettamente a suo agio nel padroneggiare le tecniche della suspence moderna non farebbe sospettare che l’autore è un signore di più di ottant’anni, ma la raffinatezza di stampo mitteleuropeo, il gusto d’altri tempi per le frasi memorabili, la cura certosina per le descrizioni di certi momenti sono invece il marchio di fabbrica inconfondibile di un libro che riesce a diventare un ponte tra due letterature: quella dei grandi romanzi europei del dopoguerra (pensiamo a Remarque, Boll, Uhlman) e quella thriller anglosassone, che furoreggia in libreria da poco più di dieci anni. Un’impresa, signora mia, non da poco.

Un libro scomodo, doloroso. Non certo nello stile, nel racconto dei personaggi e nel succedersi degli eventi, guidati con perfetta sicurezza, ma nel suo affrontare, armato di uno humour a tratti addirittura macabro, grandi dilemmi etici senza concedere ai suoi personaggi o al lettore facili vie di fuga. Al termine del libro la liberazione di Praga, sacrificata a Yalta al regime staliniano, sarà soltanto il primo passo di una nuova oppressione consumata nel nome di un sogno ormai sfiorito. Attoniti, i suoi personaggi prendono atto che il tempo non passa e si preparano a ripetere i medesimi sterili errori e a raccontare a se stessi nuove bugie, in fondo poco diverse dalle vecchie.

L’idea dell’indagine ambientata nel Terzo Reich non è ovviamente un’esclusiva di Kohout. Basti ricordare la trilogia Berlin noirdell’ispettore Bernie Gunther di Philip Kerr, o i gialli con l’investigatore Martin Bora scritti dall’italo-americana Ben Pastor. Ciò che rispetto a questi e ad altri autori di genere è decisamente originale, in Kohout, è lo stile. Questo romanzo ha decisamente una marcia in più rispetto a un pur grande thriller. E’ scritto in tono letterariamente alto e dà il senso di una storia vera, e non solo di un brillante marchingegno narrativo. Certe frasi si imprimono a fuoco nella memoria, così come la storia che schiaccia i protagonisti, perennemente sull’orlo del baratro, e che proprio a questa precarietà devono il proprio coraggio e la propria vitalità.
Un critico musicale, definendo l’opera del capitano Tobias Hume, musicista inglese del ‘600 vissuto tra guerre e pestilenze, ha scritto che l’intensità della sua musica derivava dalla precarietà "della vita e dell’amore prima della penicillina". Lo stesso potrebbe dirsi dei due straordinari investigatori creati da Kohout: esseri umani atterriti dal potere impazzito che li sovrasta e dall’orrore che li circonda, ma che non rinunciano ad affermare la prevalenza della vita sulla morte, della giustizia sul caos, del dovere sull’istinto di fuga…
da qui

Come in un discreto film da sabato sera, la narrazione si dipana agevolmente senza scossoni e soprattutto senza rischi interpretativi. Ed è forse proprio questo il punto dolente, Kohout non lascia nulla al caso, non rischia mai di lasciare il suo lettore senza l'attesa esplicazione di moventi, turbe psichiche, slanci emotivi, si perde in prolissi flashback che permettono un inquadramento fin troppo univoco nel casellario dei tipi psicologici e degli stereotipi narrativi: una eccessiva presenza materna trasforma un poveraccio in un assassino di "puttane'', una tremenda tragedia familiare spinge il duro investigatore tedesco alla ricerca del grande amore e al rifiuto del nazismo, un colpo altrettanto duro trasforma il puro ed ingenuo Morava in un perfetto, gelido segugio, il tutto condito dalle prevedibili angherie dei nazisti e dalla sostanziale bontà dei personaggi cechi, che diventano negativi solo nel caso che siano psichicamente deviati o esasperati dall'odio per gli invasori.
Va tuttavia riconosciuto che tutto ciò è in realtà raccontato con una interessante alternanza di focalizzazioni (che rischia però di diventare anch'essa schematica e prevedibile), con begli spunti di discorso interiore e non senza avvincere (almeno per le prime centinaia di pagine) un lettore che pretenda solo di essere intrattenuto con una vicenda complicata quanto basta, ma che non gli faccia doler troppo la testa. Kohout qui sembra non riconoscere diritto di cittadinanza al non-detto, al suggerito, all'ellissi, alla doppia possibilità interpretativa, all'intervento ispirato del lettore: sembra dire "B è causato da A, a questo segue naturalmente quello, così ho scritto, e così, mio caro lettore, devi capirla''. Sintomatico di questo approccio è il trattamento della figura-chiave, quella dell'assassino, il cui passato traumatico l'autore si premura di spiegarci fin nei minimi particolari e ripetutamente, come avviene nei film d'azione in cui balenano dei flashback esplicativi che rammentino allo spettatore assopito chi sia il dato personaggio o cosa lo abbia portato a trovarsi lì nel dato momento.
E proprio quando magari stiamo per riconsiderare in positivo il nostro giudizio complessivo sull'opera perché se ne apprezza l'alternanza virtuosa nella gestione dei gruppi di personaggi, o la riuscita commistione di sfondo storico e vicende private spuntano frasi {\em cheap} come quella del tedesco "convertito'' Buback: "Sempre che un individuo possa porgere le scuse a nome di un intero popolo, ecco le mie'', quello stesso Buback che, illuminato (con ritardo) sulla via di Damasco "reprimeva la propria identità di tedesco a vantaggio della propria identità di essere umano'', o la straziante confessione della sua amante: "Questo è successo: tu col tuo sesso mi hai toccato l'anima''. Sono frasi massimaliste, momenti in cui l'autore vuole strafare, cadute di stile che, nel loro voler essere segno di una veduta ampia e non preconcetta (verso i tedeschi, non tutti "cattivi'') o dimostrazione della forza rigenerante di sesso e amore purtroppo suonano come rubate alla letteratura d'appendice.
Confessiamo in chiusura di non essere affatto esperti dell'opera di Pavel Kohout; è certo però che (per tornare alle contrapposizioni cui accennavamo sopra) lo spessore di un grande romanziere che domina il genere o lo trascende, di un autore non pacificato, si misura anche per quello che riesce a tenere nascosto al suo pubblico, per le domande che lascia senza risposta, per gli stimoli di ricerca e connessione fra le parti che la struttura-romanzo dovrebbe lasciare nel campo del potenziale, e non sminuire costringendoli nella feriale chiarezza del realizzato.


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