mercoledì 28 luglio 2021

povera Elena Mukhina

 

Il salto maledetto di Elena Mukhina - Giuseppe Ottomano

 

“Elena Mukhina sarà la prossima campionessa olimpica. Ha i nervi d’acciaio e la grazia di un’amazzone.
(Nadia Comaneci, a margine dei Campionati Mondiali di Ginnastica di Strasburgo, Ottobre 1978)

 


Il salto Thomas è probabilmente la più spettacolare acrobazia nella disciplina ginnica del corpo libero, e consiste in una rotazione aerea di 540 gradi. In parole più povere, è un salto mortale e mezzo all’indietro. La sua denominazione trae origine dal ginnasta statunitense Kurt Thomas, che lo ha effettuato per la prima volta in una competizione ufficiale nel 1978, durante i campionati mondiali di Strasburgo.

E ancora oggi si può ammirare questo funambolismo durante le gare di ginnastica maschili, mentre da quelle femminili è stato bandito sin dai primi anni ottanta per la sua intrinseca pericolosità. Infatti, per le atlete donne, dotate naturalmente di una  maggiore flessibilità articolare, che rende i loro movimenti più plastici ed eleganti, ma prive della potenza muscolare necessaria, questo può trasformarsi in una trappola micidiale.

Proprio il salto Thomas doveva essere l’asso nella manica di Elena Mukhina per conquistare una medaglia d’oro alle Olimpiadi di Mosca del 1980. E di una vittoria immortale Elena Mukhina, chiamata più amichevolmente Lena, aveva tutte le ragioni per sentirne il bisogno.

Sarebbe stata innanzitutto un’occasione di riscatto per un’esistenza che non era cominciata sotto il segno della fortuna. Nata a Mosca nel 1960, ad appena tre anni aveva smarrito ogni traccia del padre, che se ne era andato via di casa per formarsi una nuova famiglia. E, solo due anni dopo, aveva perso anche la madre, morta nell’incendio del proprio appartamento. Scampata quasi miracolosamente, la piccola Lena era stata cresciuta dalla nonna materna, Anna.

Costituzionalmente predisposta verso lo sport, durante i primi anni di scuola si impegna soprattutto nel pattinaggio su ghiaccio e nella ginnastica, entrambi popolarissimi tra le ragazze dell’Unione Sovietica (le giovani iscritte alla sola federazione nazionale di ginnastica erano 700mila negli anni settanta). Ma la vera svolta nella sua vita arriva nel 1972, quando una delle numerose cacciatrici di talenti sportivi, che battevano in lungo e in largo l’intero paese, si presenta alla sua scuola durante la lezione di educazione fisica.

 

La dodicenne Lena riesce a fare un’ottima impressione sulla selezionatrice, e viene immediatamente ingaggiata dalla Dinamo di Mosca. E, quando nel 1974 il suo istuttore, Alexander Eglit, si trasferisce alla CSKA di Mosca (la rappresentativa dell’Armata Rossa), la porta con sé, per affidarla poi ad uno dei più blasonati esperti di ginnastica artistica dell’URSS, Mikhail Klimenko, fratello del campione olimpico di Monaco 1972, Viktor.

Klimenko, che in anni recenti diventerà noto in Italia come il preparatore dell’olimpionico di Atene 2004 Igor Cassina, fino a quel momento aveva allenato solamente gli atleti delle squadre maschili. E, nonostante con la sensibilissima Lena adotti spesso delle maniere da caserma, crede con convinzione nelle sue capacità. Si dedica così alla sua carriera, mettendo da parte i ginnasti uomini. E, dopo averla sottoposta scientificamente a cicli di esercizi di circa otto ore quotidiane per sei giorni alla settimana, tanto che il circolo sportivo della CSKA diventerà di fatto la nuova casa di Lena, in meno di due anni la trasforma in un’atleta di livello nazionale.

Ma contemporaneamente ai progressi atletici, arrivano a grappolo anche i primi infortuni. Durante il proprio esercizio di corpo libero alle Spartachiadi del 1975 a Leningrado, Lena cade malamente di testa. Viene portata in ospedale, dove le radiografie rileveranno una piccola lesione alle vertebre cervicali. Però, nonostante le venga prescritta una lunga convalescenza, la sua attività sportiva non viene interrotta. E tutti i giorni riceve la visita di Klimenko, che dopo averle fatto togliere il collare ortopedico, la accompagna alla palestra dell’ospedale, per farla allenare fino a sera. Lena è incondizionatamente succube del carattere autoritario del proprio allenatore, e cerca di dare sempre il meglio di sé, anche in condizioni proibitive. Dolorante per l’incidente, non riesce a muovere completamente il collo, e le sue articolazioni sono indolenzite. Ma per non sentire il dolore, annusa dell’ammoniaca, e si ributta a capofitto negli esercizi.

Le Olimpiadi di Montreal 1976 si avvicinano. Ma nonostante quell’anno Elena Mukhina avesse conquistato il titolo sovietico juniores, non verrà selezionata nella squadra olimpica. Infatti, secondo i dirigenti di ginnastica, benché sedici anni non siano più un’età giovanissima per il suo sport, difetta ancora di mancanza di esperienza.

I suoi trionfi, comunque, sono appena rimandati. Nell’estate del 1977 debutta in campo internazionale al meeting di Parigi. E già  nell’agosto dello stesso anno, dopo essere entrata in gara come riserva, conquista tre titoli ai Campionati Europei di Praga: alle parallele asimmetriche, alla trave e al corpo libero. I giornalisti delle principali testate sportive del mondo si interessano a lei. I suoi enormi occhi e la sua corporatura minuta (è alta 152 cm per 41 kg)  la fanno assomigliare più a una bambina che ad una adolescente quale è. E per la sua timidezza e l’espressione malinconica, con cui accompagna le proprie prime esibizioni, gli stessi giornalisti la soprannominano “la ragazza dal viso ghiacciato“. Infatti, il suo volto si apre raramente ad un sorriso, e per ovviare a questo inconveniente, dovrà ricorrere all’ausilio di una insegnante di balletto per assumere una maggiore espressività artistica.

Il 1978 è il suo vero anno di grazia. Sbaraglia prima tutte le avversarie ai campionati nazionali. E durante i Campionati Mondiali di Clermont Ferrand oscura le stelle di Nadia Comaneci e della sua connazionale Nelli Kim, le reginette della ginnastica femminile di quel periodo. Malgrado un altro fastidioso infortunio, questa volta alla caviglia, con la sua plasticità, la sua grazia, e la spettacolarità dei suoi movimenti, conquista il pubblico e la giuria, aggiudicandosi sia il titolo assoluto, che quello nel corpo libero. Alla sua altra specialità delle parallele asimmetriche, invece, deve accontentarsi della medaglia d’argento. Ma, dietro l’ispirazione dell’omnipresente Klimenko, inventa una rotazione acrobatica, che sarà intitolata a suo nome.


Lena comincia a sognare le Olimpiadi di Mosca, per le quali viene data come favorita per la vittoria finale. Ma il 1979 le porta una battuta d’arresto. Infatti, dopo essere stata estromessa dal podio alle Spartachiadi di Mosca, subisce un infortunio più serio del solito durante una tournée autunnale in Gran Bretagna, fratturandosi la caviglia. Per questo, sarà costretta a rinunciare ai campionati del mondo di Forth Worth, negli Stati Uniti, in dicembre. I medici le consigliano di abbandonare lo sport. Ma il suo allenatore non vuole sentire nemmeno pronuciare la parola ritiro. Elena Mukhina è l’unica atleta della CSKA in grado di ambire ad una medaglia olimpica, e come tale, non la si può lasciare andar via. Così, si lascerà convincere a proseguire, e osserverà un severissimo programma di recupero per ritornare in forma prima delle olimpiadi del 1980.

Quando però arriva l’estate olimpica, non è ancora al massimo della condizione, e la frattura alla caviglia non si è ancora perfettamente cicatrizzata. I dirigenti sovietici di ginnastica sono indecisi se convocarla o lasciarla a casa. E Mikhail Klimenko si precipita a Mosca a perorare la sua causa.

Nel frattempo Lena continua ad allenarsi insieme alle altre ginnaste dello squadrone sovietico nel ritiro di Minsk. Il suo umore non è dei migliori, e, come confiderà nel 1990 al quotidiano Sovetsky Sport:

In quei giorni mi sentivo terribilmente stanca. Le interminabili sessioni di allenamento mi estenuavano, e non mi sentivo convinta di partecipare ai Giochi. Il mio allenatore però non tollerava incertezze. E per qualche attimo ho pensato che, se mi fossi infortunata, almeno, tutti quei sacrifici sarebbero finiti.

Ma esteriormente la sua volontà sembra inattaccabile. E il 3 luglio 1980, appena due settimane prima dell’inizio delle Olimpiadi, nel Palazzo dello Sport di Minsk, senza pubblico, senza giornalisti e senza fotografi, come prevedeva il rigido protocollo delle sessioni di allenamento in Unione Sovietica, prova l’esecuzione del Salto Thomas.

 

 

Ma la sua caviglia, non ancora ristabilita, non le permette di staccare con la dinamicità necessaria ad un salto mortale e mezzo all’indietro. La rotazione del corpo a 540 gradi non si completa, e Lena cade rovinosamente con il mento sul tappeto della pedana. Un medico presente interviene immediatamente, e le misura la pressione del sangue. Ma la lancetta dello sfigmomanometro rimane inchiodata sullo zero.

Anni dopo Lena Mukhina ricorderà che prima di perdere conoscenza, aveva sentito un dolore terribile:

Avrei voluto alzarmi e passarmi una mano sulla testa, ma non riuscivo. Avrei voluto gridare, ma non avevo più voce. In quel momento ho pensato che fosse la fine.

Viene portata d’urgenza in ospedale, prima a Minsk e poi all’ospedale militare di Mosca. Ma è il mese di luglio, e tutti i chirurghi sono in ferie. E soltanto tre giorni dopo potrà essere eseguita l’operazione che le salverà la vita. La diagnosi, però, è peggio di una sentenza: frattura del rachide cervicale, ovvero la paralisi dal collo in giù.

Come anche in altre occasioni, lo sclerotico sistema sovietico non fornisce nessuna notizia del suo incidente. Ma in occidente trapela ugualmente qualche confusa informazione. La televisione danese riporta la morte di Elena Mukhina in seguito ad una caduta dalle parallele asimmetriche. E il perseverante silenzio della stampa d’oltrecortina sembra accreditare questa ipotesi, finché, intervistato da una televisione statunitense, il 20 luglio 1980 l’allenatore della squadra sovietica di ginnastica, Yuri Titov, plurimedagliato di Melbourne 1956 e Roma 1960, provvede alla smentita:

Anche se quest’incidente non le permetterà di partecipare alle Olimpiadi,  Elena Mukhina si riprenderà di certo in breve tempo. Proprio questa mattina l’ho chiamata per telefono all’ospedale, e lei mi ha detto di mandare i suoi auguri alle compagne di squadra. Tutte le indiscrezioni di stampa sulla gravità del suo infortunio non sono per niente vere. Infatti lei è viva, e in questi giorni guarda spesso i programmi di sport alla televisione.

Le dichiarazioni di Titov inaugurano una lunga sequenza di bugie e mezze verità sullo stato di salute di Lena, che si trascineranno per un paio d’anni ancora. In realtà Lena non puo parlare al telefono, dato che soltanto un anno dopo recupererà l’uso della parola. E mentre nell’aprile 1981 l’agenzia Tass riferisce di una sua “ripresa quasi miracolosa“, solo un mese dopo, a maggio, il nuovo allenatore della squadra femminile sovietica di ginnastica, Amad Shahijasov, messo alle strette da un giornalista di El Mundo Deportivo, si lascia scappare che l’ex campionessa “è relegata su una sedia a rotelle“.

 Ma neppure la “gaffe” del tecnico (sempre che dire la verità si possa definire una ”gaffe“) riesce a fermare i comunicati sibillini della Tass, che nel luglio 1981, riporta:

Dopo tre mesi di convalescenza in un sanatorio in Crimea, Elena Mukhina, le cui condizioni sono notevolmente migliorate, è ritornata a Mosca, dove sta frequentando l’Istituto Superiore di Educazione Fisica.

Probabilmente gli organi di stampa sovietici avrebbero potuto andare avanti con questo tragico gioco a nascondino fino all’arrivo della Perestrojka, se non fosse stato per il presidente del Cio, Juan Antonio Samaranch, che aveva espresso il desiderio di fare visita ad Elena Mukhina, per consegnarle la medaglia d’argento al merito olimpico. E il 20 dicembre 1982, in presenza di una piccola troupe di giornalisti e fotografi, il velo di omertà sulle sue condizioni viene drammaticamente squarciato. Lena è faticosamente seduta su una sedia a rotelle, ed il suo corpo è completamente immobile, fatta eccezione per un debole soffio di vita che passa ancora attraverso i suoi gomiti. La forzata permanenza a letto la ha fatta crescere innaturalmente di sette centimetri, ed anche il suo viso non dimostra più che una pallida somiglianza con quello della graziosissima campionessa di ginnastica di soli due anni prima.

Ma Lena non si perde d’animo. E continua a sperare di recuperare almeno una parte delle proprie funzioni. Dopo essere riuscita a laurearsi in Educazione Fisica, grazie ad un impegno sovrumano ed all’aiuto degli insegnanti, venuti a darle lezioni a domicilio, a metà degli anni ottanta si affida alle cure di Valentin Dikul, un ex artista circense, diventato poi fisioterapista di discussa fama mondiale. Il sistema Dikul si basava su un lungo ciclo di allenamenti con l’appoggio di pesi sugli sparuti muscoli ancora funzionanti, e una riattivazione graduale di quelli inattivi, mediante una stimolazione continua.

Lena coltiva una grande speranza in questa nuova terapia. Ma pochi anni dopo sarà costretta ad interromperla, in quanto si rivelerà gravemente dannosa nei confronti dei suoi reni. Eppure, nemmeno questa sconfitta le farà perdere la voglia di vivere. E durante i ventisei anni di immobilità (è morta alla fine del 2006, per un attacco cardiaco, conseguente alla propria condizione di tetraplegica), dal proprio nuovo grande appartamento di Mosca, concessole dallo stato, probabilmente gravido di sensi di colpa per la sua situazione, riesce a continuare a vivere un’esistenza relativamente attiva.

Ancora accudita dalla affezionatissima e sempre più anziana nonna Anna, e negli ultimi anni anche dalla sua ex compagna di squadra, Elena Gurina, ha dettato articoli in veste di giornalista esperta di ginnastica; ha condotto, per quanto possibile, una vita sociale, ricevendo pochi, ma fedelissimi amici; si è occupata di parapsicologia, filosofia e astrologia. E poco prima di morire, si è avvicinata anche alla fede religiosa, forse aspettando sempre un miracolo che non sarebbe mai arrivato.

da qui

 

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