mercoledì 13 gennaio 2021

Il tramonto dell'avvenire sulla rotta balcanica

  

Balcani e Mediterraneo: dove fallisce l’umanità - Domenico Gallo

 

«Le immagini che giungono dalla Bosnia sono drammatiche: migliaia di persone abbandonate tra i boschi e sotto la neve per l’incapacità dell’intera Unione Europea di affrontare e governare i flussi migratori. […] I racconti delle violenze subite dai migranti che hanno tentato di varcare il confine con la Croazia sono agghiaccianti: le persone vengono picchiate e poi private dei pochi effetti personali, spesso anche delle scarpe e abbandonati in mezzo ai boschi con temperature sotto lo zero. […] Tutto questo ad opera di forze di polizia europee in un vergognoso scaricabarile sulla pelle di esseri umani disperati a cui dovremmo garantire invece accoglienza e protezione. […] Un perverso “gioco” di polizie in cui da Trieste i migranti che riescono ad arrivare vengono consegnati alla polizia Slovena, poi a quella Croata ed infine respinti in Bosnia, abbandonati in tendopoli fatiscenti tra le montagne e sotto la neve. Sono in prevalenza ragazzi Afghani, Siriani, Iracheni. […] Abbiamo il dovere morale prima ancora che legale di accogliere queste persone, di far valere le leggi che noi stessi abbiamo scritto nelle nostre costituzioni per proteggere chi fugge da guerra, persecuzioni e trattamenti inumani. Lo abbiamo adesso! Per questo chiediamo che i Governi europei coinvolti nelle pratiche di respingimento illegali sul confine orientale interrompano immediatamente ogni attività di questo tipo applicando la legislazione europea ed internazionale in materia di diritto d’asilo e tutela dei diritti umani. Chiediamo alla Commissione ed al Consiglio Europeo che sia istituita una missione umanitaria europea con il coinvolgimento dell’UNHCR sul confine orientale per soccorrere le migliaia di persone rimaste intrappolate nella neve che rischiano di morire. Chiediamo infine che sia predisposto un piano straordinario per l’accoglienza che preveda una distribuzione tra tutti i paesi membri delle persone che arrivano in Europa».

Così si esprime un drammatico appello lanciato dall’europarlamentare Pietro Bartolo, dall’on. Erasmo Palazzotto, dal sen. Gregorio De Falco e da altri politici dotati di cuore e di cervello. Un appello rimasto inascoltato dalle cancellerie degli Stati interessati e dagli organi dell’Unione. È assurdo che l’Alto rappresentante della politica estera Josep Borrell abbia fatto la voce grossa con la Bosnia Erzegovina per non aver garantito una adeguata sistemazione dei profughi, osservando che l’UE ha messo a disposizione della Bosnia 3,5 milioni di euro per l’allestimento di un centro di accoglienza. Secondo Borrell la responsabilità per questa catastrofe umanitaria è della Bosnia, che non costruisce i campi di concentramento per il popolo dei migranti, non degli Stati membri che hanno sbarrato il confine orientale e hanno ricacciato indietro i profughi, in aperta violazione del diritto d’asilo e del divieto di respingimento, proclamato dagli articoli 18 e 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
Ma la rotta balcanica non è l’unica vergogna europea. C’è un’altra rotta, sul cammino del popolo dei profughi, che è stata definita la più letale al mondo: quella che dalla Libia punta verso l’Europa attraverso il Mediterraneo centrale, lungo la quale si consuma la vergogna dell’omissione di soccorso preordinata e dei respingimenti delegati alla Libia. Il 4 gennaio è stata rilasciata una dura nota dell’Arcivescovo di Palermo mons. Corrado Lorefice. Il monsignore ricorda la tragedia del piccolo Joseph, inghiottito dal Mediterraneo.

«Appena un mese fa piangevamo insieme la sua morte, rimasto nel cuore di tutti, in uno dei tanti drammatici naufragi a cui abbiamo assistito nell’anno appena trascorso. Oggi abbiamo la conferma che i quattro bambini i cui cadaveri sono stati ritrovati il 18 dicembre scorso sulle coste libiche, nel silenzio generale, sono morti annegati durante un respingimento, uno dei tanti push-back operati dalla cosiddetta Guardia costiera libica. Gli ultimi report sui fatti avvenuti nel Mediterraneo centrale tra le fine di dicembre e i primi giorni di gennaio fanno stringere il cuore a chiunque avverta ancora il senso della propria umanità: siamo chiamati a reagire da esseri umani e da cristiani».

Secondo gli ultimi report delle organizzazioni umanitarie, infatti, a fronte dei 34.476 migranti giunti sulle coste italiane attraverso il Mediterraneo centrale, in assenza di canali sicuri e legali di accesso in Europa, sarebbero 11.891 i migranti intercettati e riportati in Libia nel 2020 (9.225 nel 2019), mentre 323 corpi sono stati restituiti dal mare e 417 vite risultano tuttora scomparse nel nulla.

«Non ci stancheremo mai di ripetere – ribadisce Lorefice – che i respingimenti costituiscono una grave violazione del principio di non refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra, violano i diritti umani internazionali, calpestano il Vangelo, tradiscono la fraternità universale. E oltre a causare il ritorno di tante persone nei lager libici, portano ad esiti come l’annegamento di questi quattro bambini. È assordante il silenzio e spaventosa l’indifferenza che sta avvolgendo queste notizie. Non possiamo non indignarci anche come cristiani. La Carta costituzionale e il Vangelo ci chiedono di alzare la voce e di coinvolgere i cittadini italiani perché il nostro Paese attraverso quanti lo governano prenda le distanze da questa barbarie che massacra corpi, vite, volti umani, attese, drammi, speranze, e si adoperi anche a livello europeo per una soluzione umanamente sostenibile».

In questa livida alba del 2021, si levi alta la nostra voce contro la barbarie che ci assedia e ci potrebbe travolgere se non sapremo reagire.

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Rotta balcanica: nel 2020 record di respingimenti dall’Italia verso la Slovenia - Duccio Facchini

 

Mentre in Bosnia ed Erzegovina precipita la condizione di migliaia di persone migranti lungo la “rotta balcanica” -abbandonate al freddo, senza cibo e acqua, in particolare dopo la chiusura del campo di Lipa-, emergono le responsabilità in capo all’Italia per i respingimenti condotti al confine sloveno con sempre maggior intensità dalla primavera di quest’anno.

Tra il primo gennaio e il 15 novembre 2020 il nostro Paese ha infatti “riammesso” in Slovenia 1.240 persone, a loro volta respinte a catena fin verso il territorio bosniaco. Si tratta di numeri impressionanti, specie se confrontati con quanto accaduto nello stesso periodo del 2019, quando furono “solo” 237 (significa più 423%). I dati aggiornati sono stati trasmessi il 28 dicembre 2020 ad Altreconomia dal ministero dell’Interno dopo un accesso civico generalizzato e riguardano come detto le “riammissioni attive” effettuate dalla polizia di frontiera a Trieste e a Gorizia a danno dei migranti e richiedenti asilo.

Da metà maggio, con il pretesto del Covid-19, le autorità italiane hanno intensificato le “riammissioni” in forza di precise direttive del governo contenute in una circolare (mai trasmessa alla stampa) a firma di Matteo Piantedosi, già capo di gabinetto del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese (e prima di Matteo Salvini), nominato nuovo prefetto di Roma nell’agosto di quest’anno. Anche i richiedenti asilo sono oggetto dei rintracci e delle riammissioni, come dichiarato da Achille Variati, sottosegretario del ministero dell’Interno, e rimasto agli atti parlamentari del 24 luglio scorso durante la sua risposta a un’interrogazione del deputato Riccardo Magi. L’avvocata Anna Brambilla dell’Asgi, parte della rete “RiVolti ai Balcani”ha inoltre documentato su questo giornale il caso di Ahmed, fermato a Trieste dalla polizia italiana nel luglio 2020, identificato senza la possibilità di formalizzare domanda di protezione internazionale e poi riammesso in Slovenia e infine in Croazia in un susseguirsi di violenze…

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Il silenzio sugli innocenti - Giulio Marcon

 

Da Trieste a Bihac sono migliaia i profughi e i richiedenti asilo al freddo sulla rotta balcanica, fermati e ricacciati indietro da Croazia, Slovenia e Italia nel silenzio dell’Ue. Il nostro governo è coinvolto nei respingimenti illegali e il Parlamento fa finta di niente. Mettere fine a questa vergogna è una priorità.

 

Negli ultimi giorni, finalmente, la stampa italiana (Stella su Il Corriere della Sera, Manconi su la Repubblica, oltre a Internazionale e anche la RAI) si sta occupando della vicenda delle centinaia di richiedenti asilo che in questi mesi sono stati fermati a Trieste e nelle altre località della regione, rispediti in Slovenia e da qui trasportati in Croazia e poi in Bosnia Erzegovina.

Sono stati fermati a Trieste, caricati (rapiti) su furgoni e rispediti indietro senza alcun provvedimento formale e senza possibilità di opporsi a quello che (non) gli è stato notificato. Come dei deportati senza nome, dei fantasmi, dei desaparecidos, di cui non sapremo più niente. Molti scappano dalle milizie dei talebani, altri dalle fazioni siriane in guerra, altri dalla repressione dei kurdi in Turchia, ma anche in questo caso non ne sapremo mai nulla.

Da tempo migliaia di rifugiati fuggono dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iraq seguendo la cosiddetta “rotta balcanica”: arrivano in Serbia e in Bosnia Erzegovina (nella zona di Bihac) e da lì vorrebbero entrare in “Europa”, cioè in Croazia (per poi proseguire in altri Paesi) che fa parte dell’Unione europea, per ottenere asilo e salvarsi dalla persecuzione. Nell’ultimo Rapporto di Migrantes la vicenda viene descritta con grande completezza.

I profughi che attraversano il confine tra la Bosnia e la Croazia, lo fanno in condizioni durissime e spesso sono picchiati, denudati e depredati di ogni bene dalle forze di polizia croate, come hanno testimoniato diverse ONG presenti sul posto, tra queste il Border Violence Monitoring Network. Sono centinaia i profughi maltrattati dalla polizia croata. In Italia e in modo particolare a Trieste questa incredibile e drammatica vicenda viene seguita da ICS-Trieste – organizzazione aderente alla Campagna Sbilanciamoci! – che accoglie oltre mille richiedenti asilo nella città giuliana.

Il governo italiano (che aveva preannunciato nel mese di maggio questa “stretta” e aveva mandato una quarantina di agenti sul confine) per giustificare il suo comportamento si appella ad un accordo di “riammissione” stipulato con la Slovenia nel 1996. Ma quell’accordo non è mai stato ratificato dal Parlamento italiano ed è in contrasto con la successiva normativa dell’Unione europea (di cui Italia e Slovenia fanno parte) che dice cose chiare: il richiedente asilo non può essere respinto quando sia in pericolo di vita o di persecuzione nel Paese da cui proviene e senza un provvedimento formale. Inoltre quell’accordo del 1996 non può essere applicato ai richiedenti asilo: sta di fatto che a chi arriva nel nostro Paese non è data la possibilità di chiedere asilo.

Gianfranco Schiavone, presidente dell’ICS-Trieste e Vice Presidente dell’ASGI ha dichiarato a suo tempo. “È inconcepibile che [i richiedenti asilo, ndr] attraversino tre Paesi e che non ci sia la minima traccia di nessun atto amministrativo. Secondo le testimonianze raccolte, le persone riammesse non avrebbero ricevuto alcun provvedimento e ignare di tutto si sono ritrovate respinte in Slovenia, quindi in Croazia, ed infine in Serbia o in Bosnia sebbene fossero interessate a domandare protezione internazionale all’Italia… Siamo nella più assoluta illegalità, ma sembra che il fatto non interessi a nessuno”.

Nel frattempo a Bihac, la città bosniaca al confine con la Croazia, 6 mila profughi sono accampati al freddo in strutture fatiscenti, in tende, nei boschi, in attesa di potersi dirigere verso l’Italia. Il 23 dicembre scorso il campo temporaneo di Lipa, vicino Bihac, è andato a fuoco. Nel 2019 sono transitati dalla Bosnia più di 30 mila profughi e il flusso è continuato. Il silenzio europeo è colpevole, soprattutto verso tre Paesi membri – Croazia, Slovenia e Italia – che violano le normative internazionali in materia di tutela e rispetto dei diritti dei richiedenti asilo. Anche il silenzio italiano è inaccettabile. Complice quello del governo, coinvolto in prima persona nei respingimenti illegali dei profughi. Subalterno quello del Parlamento, nonostante le interrogazioni senza esito di alcuni deputati.

Mettere fine a questa vergogna – indegna per un paese democratico – è impellente, una priorità per tutti noi.

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Rotta Balcanica: Ai confini della criminalizzazione

 

La testimonianza, pubblicata su InfoAut,  di Francesca, attivista per i diritti umani attualmente presente al confine tra la Serbia e la Croazia dove migliaia di migranti affrontano l’inverno e la pandemia in condizioni di vita disumane. Le responsabilità, come ben descritto nel testo, sono molteplici e ci impongono di non abbassare l’attenzione su quanto avviene sulle rotte migranti balcaniche.

Negli ultimi giorni la Rotta Balcanica è tornata a richiamare l’attenzione della comunità europea a causa dell’incendio nel campo di Lipa, in Bosnia, e per gli innumerevoli appelli da parte di organizzazioni locali e internazionali impegnate nella difesa dei diritti delle persone migranti. La Rotta Balcanica è diventata, negli ultimi anni, l’ennesimo inferno provocato da politiche egoistiche, nelle zone grigie della legalità, che costringono migliaia e migliaia di persone a condizioni di vita e di viaggio inammissibili secondo qualsiasi codice di condotta internazionale. Eppure, nonostante gli appelli incessanti, le dichiarazioni e le denunce, la situazione non migliora, al contrario, sembra peggiorare giorno dopo giorno.

Nel rimbalzarsi le responsabilità, governi e istituzioni continuano a perdere tempo e a procrastinare azioni, urgenti e necessarie, che permetterebbero viaggi regolari e sicuri per chi si trova in transito verso l’Europa.

L’Europa, con i suoi fallimenti istituzionali e morali, è fatta però anche di tante realtà sub e trans nazionali, fatte di singoli individui e organizzazioni che, stanchi e frustrati da questo spettacolo della disumanità, hanno deciso di assumersi quelle responsabilità che i loro governi continuano imperterriti a ignorare e calpestare. Sopperendo alle carenze della politica, questi difensori dei diritti umani si impegnano a portare beni di prima necessità alle persone sulla rotta, che si tratti di cibo, di vestiti e scarpe, o di una chiacchierata intorno a un fuoco, condividendo lingue ed esperienze diverse e cercando di ricreare un po’ di umanità là dove ogni diritto umano sembra aver perso di significato. “Grazie per quello che fate”, ci dicono alcuni ragazzi, ventenni afghani cui abbiamo portato un po’ di acqua e legna, nel loro rifugio tra i cespugli lungo la ferrovia. Intorno è notte, è buio ed è silenzio. Solo le loro e le nostre voci, accompagnate dallo scoppiettio del piccolo falò improvvisato. “Grazie”, ci dicono. E noi gli rispondiamo che è davvero il minimo che si possa fare. Lo è. È davvero il minimo, se si pensa quanto poco costerebbe, economicamente e politicamente, replicare queste piccole azioni di solidarietà ovunque siano necessarie. Ma non è facile. Le donazioni ci sarebbero, ma alle frontiere bloccano qualsiasi carico sia destinato ai migranti. I volontari ci sarebbero, ma alla dogana non possiamo dire quello che stiamo venendo a fare, non siamo i benvenuti.

Basterebbe poco, in realtà, se ci fosse collaborazione tra le parti, se le istituzioni fossero almeno capaci di offrire a volontari e operatori umanitari spazi e strumenti adeguati e garantirgli sicurezza e supporto morale.

Purtroppo, però, non è così.

La criminalizzazione e la repressione della solidarietà in Serbia è un dato di fatto, e di legge, che costringe i volontari ad agire nell’ombra, aspettando il calar del sole per poter distribuire alimenti, acqua, vestiti e altri beni essenziali. Beni che non salveranno certo delle vite, vite che sono state capaci di salvarsi attraverso i continenti e le violenze, ma che si fanno almeno simbolo di un’umanità parallela, resistente e resiliente. Costretti a prendere strade secondarie, a camminare lungo le ferrovie nascosti tra la boscaglia.

Costretti a tenere un occhio e un orecchio sempre allerta, controllando ogni luce e ascoltando ogni rumore sospetti. Persino le strade, per raggiungere i ragazzi, sembrano voler scoraggiare dal portare a termine il proprio lavoro di solidarietà. Dissestate, sporche e piene di buche. Senza indicazioni e senza luci.

L’esercizio della violenza da parte delle forze dell’ordine al confine tra Serbia e Croazia è trasversale.

A volte questa violenza si manifesta verbalmente, con insulti e minacce, a volte fisicamente, con spintoni e ceffoni. Questo è quello che è successo qualche settimana fa a un gruppo di volontari, intercettati dalla

polizia durante una distribuzione. Durante il controllo, condotto al limite della regolarità, i volontari sono stati insultati, sbeffeggiati e minacciati, spintonati e colpiti da uno degli ufficiali, costretti ad accettare una perquisizione non autorizzata e ostacolati nella comunicazione con il proprio assistente legale. Erano accompagnati da un locale, un “amico” della loro organizzazione, che è stato portato in commissariato e trattenuto per quasi tre ore. La criminalizzazione colpisce infatti anche gli autoctoni, che nel farsi tramiti e mediatori mettono in pericolo la propria incolumità e quella delle loro famiglie.

Quando la violenza diretta, verbale o fisica, non è sufficiente a spaventare gli operatori, la repressione si fa ‘legale’. La legge serba, che limita l’attività umanitaria alle organizzazioni registrate nel paese, presenta zone grigie in materia di distribuzioni di pasti e alimenti alle persone sulla rotta. Grazie alla confusione generata dai cavilli legali la polizia trova quindi spazio per perseguitare i volontari, costringendoli a scegliere se abbandonare il campo e la causa o rimanere in modo irregolare sul territorio serbo, compiendo così un atto di resistenza politica e umana. Lo scorso 28 dicembre, una volontaria belga di 23 anni che aveva scelto la resistenza è stata fermata, portata in commissariato e deportata, o meglio, trasportata oltre la frontiera serba e abbandonata nel mezzo del nulla, alle otto di sera, senza che il suo avvocato avesse il tempo di raggiungerla e mediare per lei.

Per chi si occupa di questioni umanitarie il tema della sicurezza impone una riflessione costante, una messa in discussione perenne di se stessi e delle proprie motivazioni, ma soprattutto un compromesso a volte molto faticoso tra queste motivazioni e gli ostacoli politici e sociali dei contesti in cui si lavora. Non è però ammissibile che questi compromessi avvengano a due passi dal cuore della “civilizzazione” occidentale, a due passi dalla terra dell’umanesimo, a due passi dalla terra dei diritti dell’uomo e del cittadino. A due passi da questa Europa che criminalizza i migranti e abbandona chi cerca di aiutarli. Nel frattempo decine, centinaia, migliaia di persone restano nascoste nelle foreste e nei casolari abbandonati. Coperte di vestiti fradici e sporchi. Indossando scarpe troppo piccole o troppo rotte, che lasciano intravedere pezzi di piedi sofferenti. Vivono nascosti, negli spazi di confine delle frontiere europee.

Il problema, allora, non è la Serbia, non è la Bosnia, non sono i singoli paesi. Il problema è l’infrastruttura istituzionale, formale e informale, che nel criminalizzare i migranti delegittima anche l’azione e la voce di chi mette la propria persona accanto a queste persone. La colpa è di chi, non riuscendo o non volendo rendere la migrazione un percorso sicuro, nega anche quegli spazi di azione e di dialogo che cercano di compensare tali carenze.

Questa breve riflessione vuole allora essere un appello alle istituzioni europee e agli stati del continente. Se vi rifiutate di fornire supporto a queste persone che migrano, almeno garantite delle condizioni decenti per chi è disposto ad assumersi questo compito al posto vostro. Un appello alle organizzazioni internazionali, affinché oltre alle dichiarazioni mettano in atto azioni concrete per creare spazi di legittimità e giustizia in questi luoghi dimenticati dalle leggi umane e sovrumane. Questa breve riflessione vuole essere un appello a tutti coloro che credono nella lotta e rivendicano la resistenza. Venite, venite a lottare qui, dove non è rimasto più nessuno a lottare. Venite, venite a inneggiare alla libertà qui, dove ogni diritto a una vita degna e dignitosa viene calpestato quotidianamente. Venite e tornate, a raccontare ciò che potrete vedere, ascoltare, sentire. Venite a vedere i volti sporchi e stremati di questi ragazzini. Venite qui, a vedere coi vostri occhi il fallimento di questa umanità.

Šid, 3 gennaio 2021

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Nella rotta balcanica l'abisso dell'umanità - Gregorio De Falco 

In Europa, nella Ue, ora, sta accadendo qualcosa di orribile, qualcosa che precipita l’umanità ancora di più in un abisso. Alcune migliaia di migranti, infatti, stanno cercando scampo in Europa, attraverso la Rotta Balcanica che si snoda, da Sud verso Nord, dalla Bosnia alla Croazia, dalla Slovenia all’Italia. In ognuna di queste Nazioni, questi poveri disperati vengono respinti, usando anche una violenza feroce, come testimoniano inchieste giornalistiche e prove video, che forniscono immagini impressionanti.

I migranti sono abbandonati nel gelo invernale, senza soccorsi di nessun genere ed anzi, malmenati e talvolta mutilati. Si tratta di una situazione che è nota a tutti e che quindi coinvolge anche l’Italia e non può passare sotto silenzio.

Già nel 2019 i volontari del Border Monitoring Violence Network hanno raccolto moltissime testimonianze di persone respinte da ufficiali della polizia croata che hanno usato le armi contro i migranti inermi, ed è addirittura documentato anche l’uso di cani per aggredire i migranti stessi.

Dunque, si tratta di una vicenda non nuova, ma che va avanti almeno dal 2016, da quando la UE ha chiuso la rotta balcanica. Da allora migliaia di migranti vivono accampati nei boschi bosniaci, o nella zona industriale abbandonata, o ancora nelle case distrutte dalla guerra degli anni ’90 e mai ricostruite.

Ciò accade soprattutto nel cantone di Una Sana, al confine con la Croazia, al confine con l’Unione europea, al nostro confine. Dal 2018 sono stati censiti circa 65 mila rifugiati, ed almeno 3000 vivono fuori dai centri di accoglienza in condizioni pressoché disperate. Questi sono i numeri, e non consentono di usare la scusa della impossibilità di gestione: non è un’“invasione” e nulla può giustificare la crisi umanitaria in atto se non l’inerzia della Bosnia, e la cecità, volontaria, della Ue.

La Bosnia ha ricevuto 60 milioni di euro dalla Commissione europea dal 2018 per l’accoglienza, e altri 25 sono stati stanziati il 16 dicembre di questo anno. Eppure, le autorità bosniache non solo non hanno predisposto nessuna accoglienza, ma, anzi, hanno deciso di chiudere il campo di Bira, che poteva ospitare 2000 persone, mentre il campo fantasma di Lipa, dove 1300 persone vivevano in condizioni tragiche è stato distrutto da un incendio il 24 dicembre.

Nel campo di Lipa le autorità cantonali bosniache avrebbero dovuto intervenire per consentire ai profughi di affrontare il terribile inverno balcanico. Invece, nulla è stato fatto, preferendo i bosniaci smantellare il campo con la scusa del rischio sanitario e migliaia di persone sono abbandonate a loro stesse e cercano fuggire dall’inferno nel quale sono state precipitate.

Sfidando la neve e il gelo, in tanti provano, e riprovano, a superare il confine con la Croazia. Ma qui inizia il secondo atto della tragedia, in quanto la Croazia che è parte della civile UE, non come la Libia, territorio dilaniato da guerra tra bande, non effettua respingimenti illegittimi dei migranti, ma li sottopongono a torture e violenze inaudite che non si può fingere di non conoscere; solo l’indifferenza può dar conto dell’inazione dell’Europa.

E si tenga anche presente che nel 2019 la Commissione ha incrementato di ben 7 milioni di euro i fondi destinati alla Croazia per la gestione delle frontiere. In pratica si sta facendo in Croazia quello che si fa in Libia: l’Europa ha esternalizzato il controllo delle frontiere per fermare i migranti, di fatto consentendo qualunque metodo per svolgere questo compito, anche criminale. E infatti, i migranti vengono aggrediti, spogliati, derubati, a volte mutilati non da bande armate ma da uomini in uniforme nera e passamontagna che hanno ricevuto le consegne dalla polizia croata.

Neppure questa brutalità ferma la disperazione. Il gelo di questi giorni sta mietendo vittime e le testimonianze che riescono ad arrivare a noi fanno venire in mente quelle della terribile ritirata di Russia del 1943. Ma ora non vi sono soldati ma solo disperati che hanno lasciato Paesi devastati da guerre, tirannie, carestie e in molti perdono la vita su quelle montagne, nel gelo e nell’indifferenza ostile.

Eppure quella stessa indifferenza esisteva durante la guerra degli anni ’90, quella dei massacri che vide la stessa Bosnia martirizzata da eccidi etnici e dall’assedio della sua capitale Sarajevo.

Anche allora migliaia di profughi, bosniaci stavolta, si trovarono abbandonati nel gelo e alle crudeltà delle milizie paramilitari che infestavano la zona. Ma allora si costituì un comitato per soccorrere i profughi bosniaci. E ciò avvenne senza pubblicità, senza clamori, “solo” per umanità. La Bosnia era vicina, si disse, ma la Bosnia è vicina ancora, ai confini di quella “Fortezza UE” che si chiude sempre di più, che nega le sue stesse premesse.

E a tutto questo l’Italia non è estranea. La Questura di Trieste, infatti, stima che nel 2020 almeno 4400 migranti “irregolari” sono stati rintracciati con successo dalle forze di polizia impiegate ai confini della Slovenia; e tuttavia, quanto, accade nel campo di Lipa, le violenze croate, le persone abbandonate senza cibo, acqua, coperte, nel gelo, è questa la cifra del successo! Di quel successo in cui la Croazia è solo l’ultimo anello di una catena di respingimenti illegali che parte dall’Italia, passa per la Slovenia, arriva, appunto, in Croazia, e poi di nuovo in Bosnia, o in Serbia dove chi può, però rischierà ancora la vita non avendo altro da perdere.

Lo stesso Viminale ha denominato queste espulsioni, come “riammissioni senza formalità”. Furgoni delle diverse guardie di frontiera si passano, come fossero merce alla rinfusa i migranti catturati (è questo il termine da usare!). L’Italia nasconde la illegittimità di questa pratica facendo riferimento all’applicazione di vecchi accordi bilaterali con la Slovenia del 1996, detti ipocritamente “accordi di riammissione”; ma in realtà si attuano respingimenti illegali.

A maggio 2020 il Viminale ha addirittura mandato 40 agenti sul confine orientale per collaborare a questa operazione, fermando persone che non hanno avuto nemmeno la possibilità di chiedere asilo, e tuttavia, ciascuna singola posizione va esaminata, caso per caso, al fine di riconoscere o meno un il diritto del migrante. 

Ogni domanda di asilo sia registrata alla frontiera o all’interno dello Stato nel quale il migrante si trova e deve essere avviata la relativa procedura, e non si può non considerare che la forma è sostanza. Non si può respingere verso il Paese confinante, innescando una catena perversa e senza fine di respingimenti. Agire come si sta facendo significa non solo trattare le persone come cose, ma distruggere il fondamento umanitario e solidaristico che deve innervare sempre l’azione politica degli Stati civili.

L’Europa e l’Italia non possono continuare a tacere, a essere complici, qui come in Libia, di azioni criminali, siano esse compiute bande paramilitari o, peggio ancora, come sulla Rotta Balcanica dagli stessi Stati membri della Ue che compiono crimini contro l’umanità. 

Non si può accettare l’orrore della Rotta Balcanica come se fosse un abisso necessario dell’umanità, così come quello di un Mediterraneo nel quale si muore da invisibili, come accaduto il giorno di Natale, 13 persone sono scomparse insieme all’imbarcazione che le portava in fuga dalla Libia.

Fuori dalla “Fortezza Europa” c’è morte, ma l’Europa non può essere “Fortezza” se vuole essere qualcosa!

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Migranti al gelo sulla rotta balcanica, fermare la catastrofe umanitaria – Carlo Cefaloni


Migliaia di persone al gelo in Bosnia Erzegovina. Appello del Centro Astalli per attivare “canali umanitari e vie legali di ingresso” in Europa. Rete di solidarietà in Friuli Venezia Giulia

Migranti al gelo. Uomini, donne e bambini intrappolati al freddo e in condizioni disumane in Bosnia Erzegovina, vicino al confine con la Croazia. In pieno tempo natalizio si sta consumando a fine 2020 una catastrofe umanitaria preannunciata nella pressante lettera indirizzata il 10 dicembre alle autorità della Bosnia Erzegovina da Dunja MijatovićCommissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa. Come riporta il centro di ricerca “Osservatorio Balcani Caucaso”, la Mijatović faceva notare che «il numero di coloro che dormono all’addiaccio o in palazzi abbandonati nel Cantone di Una Sana e altrove nel Paese va da 2.000 a 3.500 persone».

Il 23 dicembre, come informa Nicole Corritore dell’Osservatorio, centinaia di migranti sono stati sfollati da Lipa, un accampamento già precario che l’International Organization for Migration (IOM) ha dovuto chiudere per l’opposizione delle autorità locali e di gruppi di cittadini della città di Bihac, che hanno rimandato indietro i minibus di migranti organizzati dal Ministero della sicurezza nazionale.

Ogni anno si ripetono queste scene tragiche sulla rotta balcanica dei migranti, che riescono ad arrivare nonostante gli accordi conclusi tra l’Unione europea e la Turchia per fermarne il flusso.

Il Centro Astalli per i rifugiati, espressione del servizio internazionale promosso dalla Compagnia di Gesù, chiede di non perdere tempo e di «attivare subito piani di ricollocamento e redistribuzione in Europa» delle persone migranti in grave pericolo di vita.

Come precisa il Centro Astalli, «Quella nei Balcani, al confine con l’Italia, è una situazione di violazione dei diritti umani ai danni di persone in fuga da contesti di guerra e crisi umanitarie come Iraq, Siria e Turchia. I Balcani sono oggi teatro di fatti gravissimi documentati dalla stampa europea e dalle principali organizzazioni umanitarie: una situazione che rischia di divenire una catastrofe umanitaria».

Come nota la Rete per i Diritti, l’Accoglienza e la solidarietà Internazionale del Friuli Venezia Giulia (Dasi Fvg), «senza nemmeno una capanna e asini e buoi per riscaldarsi a poche centinaia di chilometri dal nostro confine, ora dopo ora si fa concreto il rischio di morte per stenti e assideramento di un numero imprecisabile, ma enorme di giovani afghani, iracheni, pachistani, siriani, ma anche africani già bloccati, da anni, sulla Rotta balcanica».

La rete Dasi Fvg, che sta organizzando raccolte di aiuti da portare sul posto, denuncia il fatto che «l’Unione Europea anziché organizzare programmi di reinserimento dei rifugiati ha finanziato (come già fa in Libia in Turchia e in Grecia) le diverse istituzioni bosniache per bloccare i migranti e confinarli in condizioni disumane dentro luoghi inabitabili».

Da inizio dicembre 2020 il quotidiano Avvenire per 3 domeniche ha messo in evidenza in prima pagina l’emergenza umanitaria mostrando anche le foto dei rifugiati malmenati e feriti chiedendo verità sulla «via della vergogna, sulla rotta balcanica, dove le violenze delle polizie lasciano segni permanenti, e anche l’Italia respinge chi avrebbe diritto alla protezione».

Non è quindi un fatto sconosciuto quanto rimosso e che necessita dell’impegno di tutti per urgenti scelte politiche a livello europeo.

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Rotta balcanica, così i migranti arrivano in Italia - Marianna Di Piazza

Un viaggio di migliaia di chilometri che dalla Turchia arriva nel cuore dell’Europa. Da quando nell’estate del 2015 si è aperta la rotta balcanica, milioni di migranti hanno percorso la penisola per raggiungere i Paesi dell’Unione europea. Un flusso che è diminuito in seguito all’accordo tra l’Ue e la Turchia a inizio 2016, ma che non si è mai esaurito del tutto. Nuovi percorsi interni, dopo la chiusura dei confini da parte dell’Ungheria di Viktor Orbàn, hanno portato i migranti più a ovest attraverso Bosnia-Erzegovina, Croazia e Slovenia. E da lì, l’Italia è ad un passo.

Secondaria rispetto a quella del Mediterraneo, la rotta balcanica è tornata ad animarsi con forza dopo la decisione del presidente turco Recep Tayyip Erdogan di aprire le frontiere e lasciar passare i migranti intenzionati a raggiungere l’Europa. E così, dallo scorso febbraio, la tensione al confine tra Turchia, Grecia e Bulgaria è aumentata: migliaia di afghani, pachistani, iraniani e siriani ammassati alla frontiera si sono scontrati con le forze dell’ordine greche. Molti migranti sono però riusciti a superare le barriere e ad iniziare la risalita lungo la rotta balcanica. Secondo gli ultimi dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite, al 30 giugno sono oltre 15mila gli immigrati bloccati alle porte dell’Unione europea tra Bosnia, Serbia e Macedonia. Così i migranti si accalcano ai confini dell’Europa che già deve fare i conti con l’esplosiva situazione sulle isole greche dove sono stipate oltre 30mila persone in condizioni precarie.

Dopo essersi lasciati alle spalle Macedonia, Albania e Montenegro, i gruppi di migranti cercano di attraversare il confine che divide Bosnia e Serbia dalla Croazia. Una frontiera sempre presidiata dalle forze dell’ordine di Zagabria che, per dimostrare all’Europa di essere in grado di difendere i confini esterni dell’Unione, non esita ad adoperare la forza contro i migranti. Sostenuti da numerose Ong, i richiedenti asilo hanno più volte denunciato l’uso sistematico della violenza da parte della polizia croata. Picchiati, minacciati di morte, rimandati indietro con la forza, i migranti restano spesso bloccati per mesi nelle zone di confine. Ma c’è anche chi riesce ad attraversare illegalmente il Paese e, dopo aver superato la Slovenia, si ritrova in Italia.


Italia, dove arriva la rotta balcanica

I numerosi sentieri carsici che iniziano oltre il confine sboccano in Friuli Venezia Giulia. E gli arrivi, negli ultimi mesi, non hanno conosciuto sosta. Gruppi di venti, trenta, cinquanta migranti, spesso anche minorenni, vengono rintracciati ogni giorno dalle forze dell’ordine di Trieste sulle strade di confine. Molti di loro sono subito riconsegnati alla polizia slovena, ma i frequenti respingimenti hanno portato la rotta balcanica ad allungarsi fino a Udine. Stipati a bordo di camion o camper, i migranti vengono lasciati dai passeur lontani dal confine in modo da non poter essere rimandati indietro. “I migranti hanno cambiato strategia. Prima arrivavano attraverso i sentieri carsici: se li trovavamo nel retro-valico entro 24 ore potevamo farli riammettere in Slovenia. Ora l’hanno capito e si fanno portare da camion e furgoni nei centri abitati”, ha spiegato a Libero il governatore del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, chiedendo al premier Giuseppe Conte “di chiudere tutti i valichi minori e intensificare i controlli di polizia in quelli principali”.

L’emergenza immigrazione torna così ad esplodere al nord-est. A metà luglio, il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese aveva spiegato che “la rotta balcanica sta andando abbastanza bene. Sono numeri che non corrispondono a quelli che abbiamo sul versante mediterraneo”. Mentre il ministro minimizzava così la situazione, in regione, in dieci giorni, entravano illegalmente quasi 300 migranti. E se i numeri sembrano bassi, basta pensare ai 15mila pronti a partire dai Balcani. “Effettivamente i flussi stanno andando molto bene e hanno raggiunto cifre ragguardevoli. La questione immigrazione in questi territori è un’emergenza e come tale deve essere sostenuta dall’esecutivo”, avevano subito replicato dal Sindacato autonomo di Polizia del Fvg. “Ho scritto al ministro Lamorgese – ha fatto poi sapere il sindaco di Udine, Pietro Fontanini -: il Friuli Venezia Giulia sta diventano come Lampedusa, una zona in cui arrivano centinaia di richiedenti asilo da Paesi che non sono in guerra”. Così, dopo numerose sollecitazioni, il ministro dell’Interno ha preannunciato ieri l’imminente rafforzamento del contingente di militari già destinato alla vigilanza della frontiera italo-slovena. Ma nessuna chiusura dei confini. “Il Governo Conte non vuole chiudere i valichi minori, di fatto permettendo che l’ingresso di immigrati clandestini prosegua. Se si dovessero riscontrare contagi provenienti dall’immigrazione irregolare della rotta balcanica ognuno si prenderà le proprie responsabilità anche dal punto di vista sanitario”, ha tuonato subito dopo su Facebook il governatore Fedriga.

Mentre gli arrivi dalla rotta balcanica non accennano a ridursi, cresce la paura di nuovi contagi da coronavirus. I tre casi positivi al Covid-19 individuati a luglio tra i 500 richiedenti asilo ospiti dell’ex caserma Cavarzerani di Udine avevano portato il sindaco della città a trasformare l’edificio in una zona rossa. In Friuli Venezia Giulia “l’80% dei casi sono importati. La situazione al momento è sotto controllo, il territorio sta lavorando molto bene, ma sono comunque preoccupato. Continuano ad arrivare persone da Paesi dove i controlli sanitari sono blandi se non inesistenti”, aveva spiegato Fedriga pochi giorni fa. A inizio agosto, nuovi casi di coronavirus tra gli ospiti della Cavarzerani hanno spinto il primo cittadino a prolungare la quarantena di altre due settimane. La notizia ha fatto subito scattare la rivolta nell’ex caserma con i richiedenti asilo che hanno bruciato materassi e lanciato pietre alle forze dell’ordine e alla Protezione civile (guarda il video). “Entrano illegalmente in Friuli Venezia Giulia e si permettono pure di fare rivolte se chiediamo la quarantena per tutelare la salute pubblica – ha tuonato il governatore Fedriga -. I nostri cittadini sono stati chiusi a casa per settimane con grande senso di responsabilità, mentre immigrati entrati clandestinamente si ribellano. Faccio un appello al Governo sperando che ascolti: cacciateli subito al di fuori dei confini nazionali”.

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Rotta balcanica. L’inferno nel cuore dell’Europa - Lorenzo Rinaldi (*)

 

Siamo stati consegnati dalla polizia slovena alla polizia croata. Siamo stati picchiati, bastonati, ci hanno tolto le scarpe, preso i soldi e i telefoni. Poi ci hanno spinto fino al confine con la Bosnia, a piedi scalzi. Tutti piangevano per il dolore e per essere stati respinti”. È la testimonianza di uno dei migranti della rotta balcanica, che dalla Grecia porta a Slovenia, Austria e Italia, dunque nell’Unione europea, passando dalla ex Jugoslavia. Una via aperta da anni per il transito di profughi in arrivo prevalentemente dal Medio Oriente (pensiamo alla Siria) o da Afghanistan e Pakistan ma che è meno nota all’opinione pubblica.

Siamo stati consegnati dalla polizia slovena alla polizia croata. Siamo stati picchiati, bastonati, ci hanno tolto le scarpe, preso i soldi e i telefoni. Poi ci hanno spinto fino al confine con la Bosnia, a piedi scalzi. Tutti piangevano per il dolore e per essere stati respinti”. È la testimonianza di uno dei migranti della rotta balcanica, che dalla Grecia porta a Slovenia, Austria e Italia, dunque nell’Unione europea, passando dalla ex Jugoslavia. Una via aperta da anni per il transito di profughi in arrivo prevalentemente dal Medio Oriente (pensiamo alla Siria) o da Afghanistan e Pakistan ma che è meno nota all’opinione pubblica.
Non ci sono barconi in mezzo al mare, non ci sono scafisti: si marcia a tappe forzate, spesso in territori montani, sottoposti alle minacce delle polizie locali e della criminalità organizzata. A rendere più complessa la situazione, dal febbraio scorso, è la pandemia, che ha portato i paesi di transito a isolare ancor di più i profughi, a collocarli in campi distanti dai centri abitati, per ridurre il rischio della diffusione del contagio. È avvenuto la scorsa primavera in Bosnia, a Lipa, località di montagna distante circa trenta chilometri dalla città di Bihac e al confine con la Croazia. La versione ufficiale è che questo nuovo campo profughi è stato aperto per svuotare il vecchio campo allestito nel 2019 in una ex fabbrica di Bihac e in questo modo contenere il rischio della pandemia. In realtà il trasferimento di circa 1200 persone tra i monti di Lipa è servito a placare la protesta montante a Bihac contro la presenza dei migranti: spostare il problema, nasconderlo agli occhi dei cittadini e in questo modo evitare tensioni nell’opinione pubblica.
In montagna, a Lipa, mancano corrente elettrica, riscaldamento, acqua corrente e il campo è costituito da un insieme di tende nel quale vengono collocate le famiglie. L’inverno però sulle montagne della Bosnia porta le temperature sotto zero e la neve fa crollare alcune tensostrutture. In quel momento, poche settimane fa, l’opinione pubblica internazionale apprende il dramma umanitario che si sta consumando, grazie alle denunce delle Ong e dalla Organizzazione mondiale delle migrazioni.
Lipa è un luogo inadatto all’accoglienza e viene chiuso tra Natale e Capodanno. Subito dopo, un incendio distrugge ciò che la neve non aveva abbattuto. A quel punto 1200 persone non hanno più un riparo, non possono stare a Lipa e non possono tornare nella ex fabbrica di Bihac, a causa delle proteste dei cittadini. Siamo in pieno inverno, sulle montagne bosniache, in Europa, a mille chilometri dall’Italia.
Alla fine la soluzione adottata dalle autorità è la riapertura del campo di Lipa, i cui lavori vengono affidati all’esercito, nonostante quel luogo non sia adatto a ospitare famiglie fragili.
La storia di Lipa è l’ultima in ordine di tempo che arriva dalla rotta balcanica. Pochi mesi prima, a settembre 2020, si era registrata la tragedia del Campo di Moria, sull’isola greca di Lesbo, nella quale andarono distrutte tutte le strutture di accoglienza, già fatiscenti.
Chi si sta occupando di queste persone? Le Ong, l’Organizzazione mondiale delle migrazioni, il volontariato locale, la Caritas. Fin dal 2015 Caritas italiana è presente lungo tutta la rotta balcanica a fianco dei migranti e a supporto delle Caritas locali. Le autorità statali e locali di Grecia, Serbia, Bosnia, Slovenia e Croazia vedono invece la rotta principalmente come un problema da contenere. La Chiesa – e più in generale le persone di buona volontà, qualsiasi fede professino – devono continuare a far sentire la propria voce. Come ha fatto pochi giorni fa monsignor Franjo Komarica, vescovo di Banja Luka: “Ho ricordato e continuo a ricordare alle autorità locali che molte persone in Bosnia Erzegovina hanno sperimentato il pane amaro dei rifugiati e dei profughi nella recente guerra. Pertanto, come politici, dovrebbero essere ben consapevoli del dramma che stanno vivendo gli attuali rifugiati in Bosnia Erzegovina”.

(*) direttore “Il Cittadino” (Lodi)

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Migranti e rotta balcanica: a piedi nudi nella neve - Francesco Battistini

 

Nei 25 anni passati dagli accordi di Dayton, la Bosnia Erzegovina s’è rivelata essere poco più di un’espressione geografica. Bosgnacchi, serbi e croati fingono d’essere uniti, ma sono divisi su tutto. Tranne che su una cosa: non volere i migranti. «Difendiamo la nostra città!». I profughi di ieri contro i profughi di oggi. La gente che un tempo veniva sfollata e che ora usa lo sfollagente. Nel gelo di fine anno, nella glaciale indifferenza che il Covid fa calare su qualunque altra emergenza globale, alle porte dell’Europa c’è un problema migranti che si sta trasformando in una guerra fra poveri, in una “vera catastrofe umanitaria” – dice l’ONU – che nessuno sa affrontare: almeno tremila mediorientali, nordafricani, asiatici da giorni vagano in ciabatte a venti sottozero per le foreste della Bosnia nord-occidentale, al confine con la Croazia, arrivati lungo la rotta dei Balcani e rimasti senza un campo dove rifugiarsi e respinti dalle guardie di frontiera croate e infine rifiutati dai cittadini bosniaci di Bihac. Che non li vogliono ospitare. Che presidiano la vecchia fabbrica dismessa di Bira, dove s’è provato a reperire un rifugio.

«Difendiamo la nostra città!», il grido di battaglia lanciato su Facebook da un gruppo di “patrioti” fra migliaia di follower e di like, fra politici e media locali che descrivono gli intrusi come criminali, terroristi, portatori di malattie.

Da Sarajevo, il Governo lascia fare e si volta dall’altra parte, nonostante abbia ricevuto 60 milioni dall’UE (più altri 25 in arrivo) proprio per tamponare questo disastro migratorio. Solo UNHCR e OIM, le organizzazioni mondiali per i rifugiati e i migranti, hanno rotto il silenzio con parole molto dure: «Nevica, siamo sotto zero, non c’è riscaldamento, niente», ha twittato spazientito il responsabile OIM per la Bosnia, Peter Van der Auweraert, ormai a fine mandato. «Non è così che dovrebbero vivere le persone. Servono coraggio politico e azione. Adesso».

Il caso esplode ora perché sabato scorso, alla notizia che la loro tendopoli di Lipa sarebbe stata chiusa, i disperati hanno incendiato il campo. Ma nessuno può dirsi sorpreso da quel che succede: è da mesi che molte ONG denunciano le condizioni di Lipa, 30 chilometri da Bihac, un campo temporaneo in mezzo al nulla, impiantato ad aprile per fronteggiare la pandemia. Le tende dovevano sbaraccare in settembre, ma nessuno ha fatto granché, per paura delle proteste degli abitanti della regione.

E il 9 dicembre, quando l’OIM ha deciso di non voler finanziare più un campo così inadeguato per l’inverno, concordando con le autorità locali una sistemazione nei container di Bira, la crisi è precipitata: 400 migranti hanno preso le loro quattro cose e hanno provato a entrare in Croazia, come al solito respinti dalla polizia di Zagabria con modi ruvidi (sono numerose le accuse di violenze); qualcuno esasperato ha dato fuoco alle tende; a tutti gli altri non è rimasto che vagare nei boschi innevati. Congelati, in un Paese pietrificato. Coi piedi violacei, la febbre alta, poche coperte, qualche pasto offerto dalla Croce rossa bosniaca: «Viviamo come animali», ha detto ai microfoni d’una tv Kasim, un giovane pakistano. «Anzi, gli animali vivono meglio di noi. Se non ci aiutate, moriremo. Per favore, aiutateci!».

Non dicano che non si sapeva. I Balcani sono l’area d’Europa a maggior concentrazione d’organizzazioni internazionali, militari e umanitarie, ma da quando è stata chiusa la rotta Turchia-Grecia-Macedonia-Serbia-Bosnia, le migrazioni sono continuate e poco s’è fatto: solo dal 2018, il governo di Sarajevo ha dovuto gestire 60 mila rifugiati e ora ne ha 6.500 in campi fatiscenti, oltre a questi 3.000 a spasso. La Croazia ha alzato un muro invisibile, sessanta respingimenti al giorno, e un dossier presentato la settimana scorsa alla commissaria UE per gli Affari interni, Ylva Johansson, censisce 12.654 abusi subiti dai migranti finiti in mano alle mafie o alle (spesso corrotte) polizie balcaniche.

Sono stati documentati da Amnesty International autentici casi di tortura: profughi sequestrati in cambio di riscatto, un marchio a fuoco sulle braccia a titolo del pagamento avvenuto. Da più di due anni c’è una coraggiosa maestra elementare bosniaca di Bihac, Zehida Bihorac, che in totale solitudine porta medicinali, vestiti, cibo e racconta sui social quel che patiscono i migranti nella Krajina, in fondo a quei 1.600 chilometri di cammino, di paura, di fame, di torture che li portano da Lesbos alle frontiere dell’Europa. Zehida ha ricevuto minacce, ha chiesto (spesso inutilmente) la protezione della polizia e il suo caso, come quello di tutti i volontari bosniaci che aiutano gli immigrati, ha spinto perfino le Nazioni Unite a protestare, chiedendo un’indagine sulle violenze xenofobe.

Tutto questo, a 25 anni da Dayton. E da quegli accordi di pace che nel dicembre 1995 liberarono gli stessi bosniaci dalla guerra, dal genocidio, dai campi profughi in cui erano stati cacciati, dall’incubo di dover vagare in cerca d’un destino migliore. Mai più, si diceva allora. In questo quarto di secolo, la Bosnia Erzegovina s’è rivelata essere poco più di un’espressione geografica, congelata in una pace vuota e fredda. Bosgnacchi, serbi e croati fingono d’essere uniti, ma sono divisi su tutto. Tranne che su una cosa: non volere i migranti.

L’articolo è tratto dal Corriere della Sera del 30 dicembre 2020

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LA ROTTA BALCANICA E “IL GIOCO”



 

CHE COSA È LA ROTTA DEI BALCANI.

Gli Stati della penisola balcanica sono: Croazia, Serbia, Bosnia ed Erzegovina,  Montenegro, Bulgaria, Kosovo, Albania, Macedonia del Nord, Grecia e Turchia europea; per alcuni autori anche Ungheria, Slovenia, Romania e Moldavia.

La Rotta dei Balcani è la rotta che percorrono le persone migranti che vogliono raggiungere i paesi europei attraversando, appunto, alcuni paesi balcanici.

La maggior parte delle persone che cercano salvezza con la rotta dei Balcani fuggono da Paesi dove si rischia la vita.

La principale rotta balcanica è quella che dalla Turchia passa per Grecia, Macedonia, Serbia, Bosnia e, quindi, Croazia.

 

LA ROTTA DEI BALCANI IN NUMERI.

Specialmente in Italia, quando si parla di migranti si pensa a persone che arrivano via mare.

In realtà la Rotta dei Balcani è la principale via migratoria verso l’Unione Europea.

i Paesi europei meta del viaggio sono soprattutto i Paesi del Nord Europa, la Germania, l’Austria.

I dati dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), mostrano che  tra gennaio e settembre 2019  30.800 migranti sono arrivati in Europa via mare.

A fine 2019  migranti arrivati in Grecia, porta di ingresso della Rotta Balcanica. sono stati circa 75mila.

Daniele Bombardi, coordinatore Caritas Italiana nei Balcani, in un’intervista ha spiegato che i migranti scelgono questa via perché è più sicura della via per mare.

 


immagine tratta da meltingpot.org

 

LA ROTTA DEI BALCANI E “IL GIOCO”.

I migranti chiamano la Rotta dei Balcani il Gioco.

Pensiamo ad esempio al Gioco dell’Oca o altri giochi da tavolo.

Le regole del gioco possono costringere i giocatori a tornare indietro, a stare fermi alcuni turni, a pagare multe, ad affrontare prove o pene.

Questo è ciò che accade a chi cerca di arrivare in Europa attraverso la rotta dei Balcani.

La persona migrante spesso è respinta alla frontiera e deve tornare nel Paese da cui arriva (torna indietro alla casella…).

Oppure può rimanere bloccata per mesi in un campo profughi (stai fermo 3 giri…).

Da notare che nei Paesi balcanici i campi profughi sono molto improvvisati e sono con servizi igienici, cibo, cure mediche insufficienti: pensiamo ad esempio al caso del campo di Lipa.

Oppure il migrante deve pagare chi lo aiuta ad attraversare un confine (devi pagare…)

…E poi la cosa peggiore deve affrontare prove dolorose.

Tutte le inchieste riportano infiniti casi di violenza, tortura, stupri che la polizia, ad esempio della Croazia, infligge ai migranti che cattura.

  


Ecco alcune immagini apparse in un articolo de L’Avvenire quotidiano di ispirazione cattolica.

 

L’EUROPA E “IL GIOCO”.

Nel 2015  oltre 800mila  migranti – in larghissima parte siriani in fuga dalla guerra – usarono la Rotta dei Balcani per arrivare in Germania, Austria, Belgio e Paesi Scandinavi e chiedere asilo.

Nel 2016, per bloccare i migranti, entrarono in vigore accordi internazionali tra l’Unione Europea e la Turchia. 

Da allora le frontiere dei Paesi balcanici sono diventate sempre più difficili da superare, difese con muri, filo spinato e respingimenti brutali.

L’obiettivo dell’Unione Europea è chiaro: pagare Turchia e Paesi balcanici perché funzionino da confine esterno.

L’Europa, in sostanza, paga questi Paesi e “appalta” loro la difesa delle frontiere.

Turchia e Paesi balcanici vogliono entrare nell’Unione Europea e quindi si assumono il compito di guardiani delle frontiere per trarne vantaggio.

 

L’ITALIA E “IL GIOCO”.

I migranti della rotta dei Balcani non vogliono restare in Italia, ma preseguire verso Germania e Nord Europa.

Passare per il Nord-Est dell’Italia è, però, spesso inevitabile.

Anche l’Italia partecipa al “gioco”: restituisce i migranti alla Slovenia, che li restituisce alla Croazia, che li restituisce alla Bosnia e il gioco infernale continua…

I migranti, intrappolati nel gioco, continuano a provare.

da qui

 

 

Dossier - La rotta balcanica

Lungo la “rotta balcanica” arriva in Italia e in Europa una parte rilevante dei rifugiati del nostro continente. Sono principalmente siriani, afghani, iracheni, iraniani, pakistani che fuggono da persecuzioni e conflitti pluriennali. Lungo tutta la rotta continuano a verificarsi misure che mettono a rischio le persone migranti come violenze, torture, respingimenti e restrizioni arbitrarie.

Questo dossier rompe il silenzio sulla “rotta balcanica”, denunciando quanto sta avvenendo in quei luoghi e lanciando chiaro il messaggio che i soggetti vulnerabili del “game” non sono più soli.

Lo ha curato la neonata rete “RiVolti ai Balcani”, composta da oltre 36 realtà e singoli impegnati nella difesa dei diritti delle persone e dei principi fondamentali sui quali si basano la Costituzione italiana e le norme europee e internazionali.

Hanno contribuito al dossier:
Matteo Astuti, Caterina Bove, Anna Brambilla, Anna Clementi, Duccio Facchini, Carlotta Giordani, Silvia Maraone, Paolo Pignocchi, Diego Saccora, Ivana Stojanova

Un ringraziamento al team di Border Violence Monitoring

Foto di Michele Lapini, Valerio Muscella

 

Scarica il Dossier

https://www.meltingpot.org/IMG/pdf/la-rotta-balcanica-rivolti_ai_balcani.pdf

 

da qui

 

 

LA ROTTA BALCANICA: I MIGRANTI CHE NON VOGLIAMO VEDERE - Maurizio Ermisino

 

Chiusi in strutture inadeguate o addirittura costretti a sopravvivere nei boschi, vittime di violenze di ogni tipo, senza speranza. I diritti umani sono morti sulla rotta balcanica

 

Siamo stati per anni a litigare sui migranti e sugli sbarchi in Sicilia. Ma nessuno vuole vedere che le migrazioni seguono anche altre rotte. Una di queste, di cui si parla pochissimo, è la cosiddetta “rotta balcanica”, su cui il 27 e 28 novembre scorsi si è tenuto un convegno internazionale, “Sulla rotta balcanica”, organizzato dalla Rete nazionale Rivolti ai Balcani, composta da oltre 36 organizzazioni, in collaborazione con il Festival S/Paesati e con il patrocinio dell’Università degli Studi di Trieste. Parlarne vuol dire provare a far luce su un fenomeno quasi completamente ignorato dai media.

La rotta balcanica – che poi non è una sola ma sono più rotte – è il percorso che i migranti fanno per arrivare in Europa, passando per la Turchia, la Grecia, l’Albania, la Bosnia, a volte la Serbia e il Montenegro, e la Croazia, dove spesso si interrompe bruscamente. Arrivati alle porte dell’Europa, intesa come Unione Europea, quasi sempre i migranti, che spesso sono intere famiglie con bambini, vengono bloccati e lasciati in un limbo, in campi profughi. Questo quando non vengono picchiati, torturati, privati dei loro beni, dai cellulari fino alle scarpe, dalle forze di polizia.

 

I campi in Bosnia, dove manca l’aria

Aprire gli occhi sulla rotta balcanica significa davvero spalancare un Vaso di Pandora. Tra le tante voci, tutte interessanti, che abbiamo ascoltato da Trieste ci siamo soffermati su quella di Silvia Maraone, project manager dell’Ong Ipsia-Acli, che con le sue parole ci ha fatto vivere le condizioni di chi si trova nei campi di accoglienza in Bosnia Erzegovina, un paese complesso e frammentato – in seguito alle decisioni politiche del 1995 dopo la fine del conflitto – il che rende la presa di ogni decisione lunghissima. Tutti i migranti sono persone che poi registrano la loro posizione di richiedente asilo all’interno del Paese – anche se spesso vengono chiamati illegali e clandestini – e hanno tutto il diritto di stare nel paese e di poter usufruire dei sistemi di accoglienza che sono stati creati per i richiedenti asilo.

«La verità è che i centri, seppure in maniera diversa, sono ai livelli minimi degli standard di accoglienza», racconta Silvia Maraone. «Le persone che vivono nei campi lamentano problemi come sovraffollamento, condizioni igieniche sanitarie inadeguate, inadeguato numero dei servizi igienici, cibo scarso e a volte immangiabile.  Ci sono costanti problemi con l’elettricità e internet che funziona a singhiozzo». «Posso dire dalla mia diretta esperienza, che entrare in un campo profughi significa entrare in un mondo a parte, fatto di un rumore di sottofondo costante, generato dal mix delle lingue diverse che si parlano nel campo, e dalla musica – sempre in lingue diverse – che viene fatta sentire attraverso le casse Bluetooth» continua la rappresentante della Ong. «Poi ci sono le suonerie e gli avvisi di messaggi dei cellulari, che sono costantemente accesi a qualunque ora del giorno e della notte, perché le persone sono in contatto con i loro cari, con le loro famiglie, con altre persone che sono in viaggio».

«Un’altra sensazione fortissima, stando nei campi profughi, è quella di un luogo nel quale manca sempre l’aria» racconta Siliva Maraone. «L’aria è viziata e campi sono sovraffollati, per cui manca l’ossigeno. Le luci sono sempre accese e un altro impatto fortissimo è dato dall’odore che c’è all’interno del campo: un odore fatto di umanità misto a quello dei gabinetti, che non sono sufficienti per il numero di persone. Le persone che vivono di questi centri di accoglienza perdono ogni possibilità di avere una propria privacy. I single men vivono in container, o in baracche o nelle vecchie caserme, in grandi tendoni con dentro 250 letti a castello, sono situazioni in cui non esiste più nessuna possibilità di stare anche da soli, anche per poco».

 

Dipendenze e abusi sui minori

Si può facilmente immaginare quale sia lo stato di depressione generale, che aleggia tra le persone all’interno dei campi. «I giorni passano tutti uguali, si deve fare la fila per ogni cosa, dalla distribuzione del cibo ai prodotti igienici ai vestiti», racconta la project manager di Ipsia -Acli.

 

«Ci sono spesso tensioni e violenze che scoppiano tra le fila dei migranti, a volte diversa nazionalità. Ma, soprattutto, spesso sono state segnalate violenze e abusi anche da parte delle compagnie di sicurezza private che operano nel campo. C’è anche il problema dei traffici illegali: le persone sono in viaggio da anni e sono bloccate alla porta di questa Europa che non li vuole, e alcuni di loro hanno come unica uscita da questo limbo l’abuso di sostanze come alcol e droghe, che non mancano sul mercato bosniaco. C’è stato un caso di un ragazzo, un anno fa, che è morto al campo di Bihac, era un minore non accompagnato che lamentava lancinanti dolori addominali: solamente dopo ore hanno chiamato l’ambulanza per portare questo ragazzo in ospedale ma è morto. Sul referto c’è scritto che è morto di polmonite, ma la verità, parlando con i suoi compagni di container, è che aveva preso troppe pastiglie ed è morto per un’overdose». Sono infatti molto diffusi pericolosi mix di medicinali e psicofarmaci mischiati agli energy drink o alcolici, perché non è difficile trovare della droga o andare in farmacia e farsi dare farmaci senza ricetta».

Ma capita anche che ci siano degli abusi che i minori non accompagnati subiscono all’interno nei campi in cui vengono tenuti insieme agli adulti, all’interno delle stesse strutture. Ci sono minori che viaggiano da soli che, in cambio di protezione o a volte anche per soldi, sono costretti a vendere l’unica cosa che è rimasta loro, ovvero il proprio corpo».

 

Manca il personale qualificato

Ma c’è un altro grande problema che viene evidenziato dagli addetti ai lavori: è il fatto che nelle organizzazioni che lavorano all’interno dei campi, grandi o piccole che siano, non sempre ci sono le persone adatte per il lavoro che dovrebbero fare. «Nei Balcani manca il personale qualificato, con una formazione adatta per lavorare con i richiedenti asilo» spiega Silvia Maraone. «Questo perché purtroppo la società civile e l’associazionismo qua sono molto deboli e quindi è difficile trovare persone qualificate in grado di fare questo lavoro». Come se non bastasse, a partire dall’autunno del 2018 i primi gruppi di cittadini xenofobi hanno cominciato a organizzare le prime proteste di piazza contro i migranti, dando vita, nell’estate del 2020, a una caccia ai migranti.

 

Il Covid non aiuta

Un altro effetto di queste ondate di migrazione è una sorta di “criminalizzazione della solidarietà” che è stata legittimata anche con le misure anti Covid. Nella tarda primavera di quest’anno è arrivato il divieto da parte del governo di far arrivare aiuti nei campi, se non con le organizzazioni come la Croce Rossa; per evitare che si formino assembramenti si è pensato di fermare anche i volontari che distribuivano loro aiuti.

«Con il Covid i migranti non si possono spostare liberamente, perché rappresentano un pericolo in quanto potenziali portatori del virus», spiega Silvia Maraone. «La direttiva impone totale divieto di movimento dei migranti al di fuori delle strutture di accoglienza temporanea, in treno, auto, furgoni, taxi, e su tutti gli altri mezzi di trasporto.  Queste persone si sono trovate a non poter uscire per comprare banalmente le sigarette o qualcosa per i bambini. Ma, soprattutto, si sono viste intrappolate nei campi, senza la possibilità di mantenere le distanze, senza mascherine, senza igienizzanti, senza bagni e quindi con un rischio di contagio elevatissimo».

Con la chiusura dei campi non sono state accettate nuove registrazioni, e sono rimaste fuori nei campi almeno 3000 persone, che dormono nei boschi e negli edifici abbandonati e vivono di quello che riescono a trovare.

 

Il sadismo e la tortura

Massimo Moratti, vice direttore dell’ufficio per l’Europa di Amnesty International, ci illustra il perché, nei paesi ai confini dell’Europa, stiano accadendo queste cose. «Sono politiche di esternalizzazione delle politiche migratorie dell’Unione Europea», spiega. «L’Europea chiede ai Paesi che stanno fuori di gestire i flussi. E, mentre con la Libia e con la Turchia avviene attraverso accordi formali, con i Paesi della regione balcanica non ci sono accordi per la gestione delle migrazioni. Croazia e Ungheria sono paesi che rappresentano le frontiere esterne dell’Unione Europea, in mezzo ci sono Bosnia, Serbia, Macedonia, Montenegro: questi Paesi si trovano in una posizione subordinata rispetto all’Unione Europea, perché chiedono di entrare, quindi non è un negoziato alla pari».

Tutto questo incide sulle modalità di intervento delle diverse forze di polizia di questi stati lungo la rotta balcanica. «Sembra che le forze di polizia si stiano quasi passando gli appunti» riflette Moratti. «Le modalità di operazione della polizia sono quasi un “cut and paste”, un copia e incolla dall’una all’altra: quello che facevano gli ungheresi hanno fatto i poliziotti croati e questo questa primavera l’hanno fatto anche i poliziotti greci. Sono trattamenti disumani e degradanti che non abbiamo esitato a definire anche tortura. L’impunità delle forze di polizia continua e addirittura cresce: gli ultimi episodi, a ottobre, hanno ancora una volta in alzato l’asticella della violenza. Addirittura vediamo episodi di vero e proprio sadismo che vengono perpetrati nei confronti di coloro che cercano di entrare in Europa. Che Amnesty International ha denunciato».

da qui

 

 

Rotta balcanica: la de-umanizzazione e la realtà del confine - Rossana Conti

 

Una tesi di master che pone l'attenzione sulla costruzione dei significati relativamente alla “rotta balcanica" tra Bosnia Erzegovina e Croazia -  

Un graduale processo di securitizzazione e l’accordo del marzo 2016 tra Unione Europea e Turchia ha comportato la progressiva deviazione delle rotte migratorie lungo la penisola balcanica. La Bosnia Erzegovina, in particolare, ha registrato solo nella prima metà del 2018 un flusso migratorio venti volte maggiore rispetto all’anno precedente. Retoriche di una nuova “crisi dei rifugiati” e di una seconda “Rotta Balcanica” hanno presto raggiunto l’attenzione di media locali e internazionali. In questo contesto geopolitico, la tesi ha l’obiettivo di analizzare lo sviluppo dei discorsi legati alle migrazioni che hanno raggiunto il confine bosniaco-croato tra il 2018 e il 2019.

In principio, l’analisi comparata di reports e articoli delle principali organizzazioni internazionali e ONG presenti nel territorio permette di delineare gli aspetti cruciali che definiscono la concreta realtà del confine. Il quadro teorico e metodologico in cui l’analisi dei discorsi sulla migrazione viene sviluppata si basa sulla teoria critica del discorso formulata da Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, secondo cui le dinamiche di una realtà sociale vengono interamente dettate dalle articolazioni politiche di discorsi egemonici e controegemonici. Inoltre, i concetti di potere, biopolitica e resistenza elaborati da Michel Foucault vengono qui integrati per approfondire le modalità attraverso cui la dimensione discorsiva ha un ruolo capitale nello stabilimento dei rapporti di potere dominanti, nonchè nel loro potenziale sovvertimento.

 

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L’analisi critica dei discorsi che costituiscono la “Border Reality” impiega principalmente le 343 testimonianze di pushbacks dalla Croazia (o dalla Slovenia, in caso di pushbacks a catena) alla Bosnia-Erzegovina raccolte da Border Violence Monitoring Network tra il 2018 e il 2019. Le testimonianze orali offrono infatti un immediato punto di accesso ai discorsi impiegati dalle forze dell’ordine (discorsi egemonici), permettendo così di comprendere come le dinamiche socio-politiche che regolano la realtà del confine vengono direttamente influenzate dalle articolazioni retoriche che la dominano.

L’analisi dei discorsi riprodotti dalle testimonianze dimostrano infatti i diversi livelli discorsivi che hanno portato alla costante violazione di fondamentali diritti umani e d’asilo. Qui, alla periferia dell’Unione Europea, la retorica di un’ “immigrazione illegale” e la conseguente criminalizzazione del rifugiato, ampiamente riprodotta anche dall’ex Presidente croata Kolinda Grabar-Kitarović, implica la necessarietà di metodi estremi per proteggere l’UE dalla minaccia del fenomeno migratorio. La frontiera geografica tra la Croazia e la Bosnia Erzegovina rispecchia dunque un’organizzazione degli spazi sociali in un “dentro” europeo e civilizzato ed un “fuori” pericoloso e orientalizzato. L’umanità al confine viene quindi suddivisa secondo linee che rispecchiano una retorica del “noi” contro “l’Altro”, imbevuta di islamofobia, brutalizzazione e disumanizzazione. La gerarchizzazione degli esseri umani, come concepita dalla filosofa Judith Butler, viene portata alla luce dall’analisi nelle sue violente conseguenze: il perpetuo lavorio discorsivo svuota le vite al confine della loro umanità, le rende invisibili e non degne di essere preservate.

La decostruzione dei discorsi che si impongono come assoluti e oggettivi rivela tuttavia la possibilità di articolazioni differenti e affermative. Dall’ibridità dei margini di questa Europa che non è ancora Europa, emerge allora la resistenza di retoriche e soggettività, il cui orizzonte mira a una realtà di confine umana e solidale.

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Migranti torturati lungo la rotta balcanica - Andrea Oskari Rossini

 

Le denunce di Amnesty e di altre organizzazioni per i diritti umani fanno scattare l’indagine del difensore civico europeo, mentre la rete “Rivolti ai Balcani” denuncia il coinvolgimento dell’Italia in respingimenti illegali

 

Le immagini più recenti delle violenze contro migranti e richiedenti asilo sono state pubblicate dal Border Violence Monitoring (BVM), una rete di associazioni che monitora lo stato dei diritti umani lungo la rotta balcanica. Provengono da Poljana, un villaggio di campagna al confine fra Bosnia Erzegovina e Croazia. Ci sono uomini mascherati, armati di bastoni e fruste, che respingono con violenza alcuni migranti verso la Bosnia. I picchiatori, secondo l’inchiesta del BVM, apparterrebbero alle forze di polizia e di sicurezza della Croazia.

Sono mesi che diverse organizzazioni per i diritti umani accusano la polizia croata di pestaggi nei confronti dei migranti, pratiche umilianti, come dipingere una croce sulla testa dei  richiedenti asilo, finte esecuzioni e, in un caso, di stupro. Crimini contro l’umanità secondo la parlamentare europea Clare Daly. Il vice direttore dell’ufficio per l’Europa di Amnesty International, Massimo Moratti, ha invece usato la parola “tortura” per descrivere quello che sta avvenendo lungo la rotta balcanica. Intervenendo al convegno Sulla rotta balcanica, organizzato a fine novembre dalla rete Rivolti ai Balcani, che riunisce 36 diverse associazioni per i diritti umani, ha dichiarato che “diventa sempre peggio. Nonostante le denunce, l’impunità delle forze di polizia continua e addirittura cresce. Gli ultimi eventi hanno alzato l’asticella e vediamo episodi di vero e proprio sadismo che vengono perpetrati nei confronti di coloro che cercano di entrare in Unione Europea.”

 

La risposta della Croazia

Per il governo della Croazia, paese entrato nell’Unione nel 2013 ma non ancora ammesso allo spazio Schengen, si tratta però di “accuse infondate”. Il ministro dell’Interno Davor Božinović, nel replicare alle denunce, ha inoltre lanciato un monito alle istituzioni europee e ai paesi del nord Europa, quelli che i migranti vorrebbero raggiungere: “I paesi verso cui questi migranti sono diretti, e le istituzioni europee, devono decidere se queste persone sono benvenute o no. La polizia croata è sempre più criticata, perché se questi attraversano illegalmente il confine, allora non difendiamo bene le frontiere esterne dell’Unione Europea. Se invece non passano, dobbiamo far fronte a questi attacchi delle associazioni per i diritti civili. Noi facciamo rispettare le nostre leggi e le leggi europee, non c’è nessuna violenza e non ce ne sarà, ma non ci sarà neppure alcun cedimento sulla difesa dei confini della Croazia.”

 

L’ombudsman europeo

Di fronte al muro di gomma di Zagabria e Bruxelles, Amnesty ha però deciso di percorrere le vie legali, chiedendo conto dei soldi (europei) spesi. L’Unione ha assegnato alla Croazia, per il Fondo asilo, migrazione e integrazione, 108 milioni per il periodo 2014-2020, cui si sono aggiunti circa 25 milioni di fondi di emergenza. Sette milioni sono stati dati a Zagabria per “istituire un meccanismo di monitoraggio e garantire che tutte le misure applicate alle frontiere esterne dell’Ue siano nel pieno rispetto dei diritti fondamentali e delle leggi dell’Ue in materia di asilo”. Questo monitoraggio esiste? Se non esiste, dove sono andati i soldi? Sono stati spesi fondi europei in procedure che violano i diritti umani? La Commissione europea non ha vigilato?

Queste domande sono state rivolte all’ombudsman europeo, l’ufficio preposto a supervisionare sui casi di cattiva amministrazione delle istituzioni di Bruxelles. L’ombudsman ha subito aperto un’indagine, che si concluderà il 31 gennaio. Il procedimento non è contro la Croazia, ma è rivolto alla Commissione Europea, per accertare eventuali inadempienze. Si tratta di un procedimento tecnico, che però potrebbe avere conseguenze importanti sul sistema di gestione dei flussi migratori da parte di Bruxelles.

 

Respingimenti coordinati dall’Italia verso la Bosnia Erzegovina

La rotta balcanica non esiste più dal 2016. Al suo posto si sono create tante rotte balcaniche, che traversano il sud est Europa cambiando continuamente direzione, anche in base al grado di violenza esercitato dalle diverse forze di polizia. Al confine tra Serbia e Macedonia del Nord, ad esempio, l’organizzazione non governativa Legis, di Skopje, ha denunciato recentemente violenze brutali della polizia serba, analoghe a quelle segnalate in Croazia. Quanto avviene in Croazia, però, coinvolge molto più direttamente l’Italia. Secondo la rete Rivolti ai Balcani, infatti, i respingimenti operati dalle forze di Zagabria sarebbero spesso l’ultimo anello di una catena coordinata fra le forze di polizia di Italia, Slovenia e Croazia, organizzata tramite accordi bilaterali di riammissione che violerebbero le regole di Dublino e la più generale normativa sull’asilo.

Per Anna Brambilla, avvocata dell’ASGI – Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, questi accordi, in particolare, sono uno strumento creato per “aggirare e violare il diritto di non respingimento e di espulsioni collettive”. Circa un migliaio di persone sarebbero state respinte dall’Italia alla Slovenia solo nel 2020 con questi accordi, incluse persone appartenenti a gruppi vulnerabili e minori non accompagnati. Dalla Slovenia, il viaggio a ritroso prosegue.

Obiettivo degli accordi di riammissione tra Italia, Slovenia e Croazia sarebbe infatti quello di riportare i migranti fuori dai confini europei, in particolare in Bosnia Erzegovina, nel cantone di Una Sana. Nella cittadina di Bihać ci sono circa duemila migranti, accampati in condizioni di fortuna in campi gestiti dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni o in accampamenti informali. Una delle poche associazioni umanitarie presenti sul posto è l’Ipsia-Acli. Da settimane, con l’approssimarsi dell’inverno, la responsabile di Ipsia a Bihać, Silvia Maraone, denuncia le condizioni drammatiche in cui vivono centinaia di persone ammassate nel campo di Lipa, un recinto che avrebbe dovuto essere solo temporaneo, dove non ci sono allacciamenti a elettricità e acqua corrente e dove le temperature, ormai, sono sotto lo zero.

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L’orrore della porta accanto. Un rapporto sulla rotta balcanica - Marinella Salvi

 

Arrivano a Trieste piagati, affamati, terrorizzati. Lungo la rotta balcanica hanno subito pestaggi e ruberie, sono stati riportati in Bosnia una due tre dieci volte; adesso sono qua. A piccoli gruppi, ogni giorno, alla ricerca di un treno che li porti più dentro all’Europa, al nord, via, dove forse c’è una vita possibile anche per loro. I corpi martoriati, solo negli occhi quella scintilla che non si spegne: la speranza, la voglia di vivere.

A Trieste non c’è nulla per chi arriva a piedi, per chi vuole continuare il viaggio, solo i volontari davanti alla Stazione che, ogni pomeriggio, offrono un pasto, una coperta, un paio di scarpe e un primo intervento per curare le ferite. Il Comune, quest’anno, non ha nemmeno organizzato il solito “piano freddo”: chiuso da un anno l’Help Center, chiusi tutti i centri diurni, chi non ha un tetto dorme in strada. O sotto le enormi arcate dell’ex Silos, tra immondizie, ratti, fango ghiacciato.

Quel che succede lungo il confine è ben documentato: migranti restituiti alla Slovenia che li riporta in Croazia che li riporta in Bosnia.

Poco importa se hanno diritto alla protezione internazionale, se fuggono dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iraq. Nessuno permette loro di presentare una domanda, nessuno chiede loro chi siano. 

Quel che succede in Croazia si conosce da anni: brutalità, sevizie, sequestro di qualsiasi cosa, dal cellulare alla bottiglia d’acqua, persino le scarpe e sono documentati i casi di morti con necrosi ai piedi. Dormono nei boschi, mangiano quel niente che trovano, bevono dalle pozzanghere. A decine annegano nei fiumi che tentano di attraversare.

Pare che molti non vedano, nonostante le foto, i video, i tanti documenti. Pare che a molti non interessino le pesanti responsabilità occidentali che hanno determinato questo esodo di popoli.

Si è tanto discusso sui pullman che avevano riportato in Italia gruppi di migranti a Ventimiglia ma ben poco sulle centinaia di persone che l’Italia riconsegna nelle mani dei carnefici sul confine orientale. “Si cerca di nasconderli sotto il tappeto, come se questi esseri umani fossero polvere” ha detto ieri Nello Scavo alla conferenza stampa di Grei250, rete di ong medici giornalisti avvocati per i diritti dei migranti. Sono anni che Scavo, dalle pagine di Avvenire, documenta le violazioni dei diritti umani e le situazioni disumane in cui si trova chi si mette in viaggio e sta per uscire una nuova puntata della sua inchiesta “per sensibilizzare le autorità italiane e l’opinione pubblica”.

Perché quel che succede sul confine orientale è addirittura più grave di quel che sappiamo della Libia e della rotta mediterranea: perché qui è Europa, qui si parla di Paesi europei, questo avviene dentro la nostra civile Europa.

Sembra indigeribile eppure l’Italia viola consapevolmente qualsiasi legalità, in modo duraturo e strutturato e, di più, lo dichiara apertamente. “Non era mai successo ed è la parte più inquietante di questa orribile realtà: l’Italia ammette l’illegalità anzi la rivendica” dice Giancarlo Schiavone per Asgi ricordando la risposta scritta fornita dal Ministero dell’Interno l’estate scorsa: i migranti rintracciati entro dieci chilometri dalla fascia confinaria vengono respinti in Slovenia. E non può la ministra Lamorgese, né alcun altro, sostenere di non essere a conoscenza che questo vuol dire poi Croazia e poi Bosnia e piena violazione dei diritti umani.

Bosnia! Dove persino il capo missione dell’organizzazione intergovernativa OIM ha annunciato di ritirarsi dal campo di Lipa perché ingestibile. Vede solo due scenari possibili: “Il primo è che all’ultimo minuto Sarajevo prenda la decisione che le persone vengano spostate in luoghi dove poter accedere a condizioni di vita adeguate e che si trovi un centro aggiuntivo per le 1500 persone che dormono ora all’aperto”. Altrimenti, aggiunge, c’è da aspettarsi solo una catastrofe umanitaria. Perché le migliaia di migranti ammassati in Bosnia sono in tende addossate a una discarica, perché troppi dormono all’addiaccio, perché il Governo vuole spostarli da un campo senza assistenza ad un altro dove non c’è nemmeno l’acqua.

Onoriamo il Natale, ormai è vicino, ascoltiamo Papa Francesco ha chiesto don De Robertis di Fondazione Migrantes, nella consapevolezza che la Notte Santa è stata una notte di angoscia: una giovane coppia che non trovava un posto dove riposare, costretta a deporre il proprio neonato dove mangiavano gli animali. “Non può dirsi cristiano chi chiude la porta in faccia a un fratello”

E parliamo, denunciamo, non smettiamo di indagare. “Sulla rotta balcanica va acceso un faro, i giornalisti devono andare in quei luoghi e vedere dove si consuma la violazione dei diritti umani, Facciamo rete per impedire bavagli e oscurità” le parole di Beppe Giulietti.

Marinella Salviil manifesto18.12.2020

 

 

Flussi triplicati sulla rotta balcanica Così l’Italia ha blindato i confini - Marianna Di Piazza

Arrivano in Grecia su piccoli gommoni che fanno spola da una costa all’altra del Mediterraneo. E da lì iniziano la risalita verso il cuore dell’Europaattraverso la rotta balcanica. La maggior parte dei migranti si muove a piedi, percorrendo tutta la penisola. Chi invece ha ancora possibilità economiche paga ingenti somme ai passeur per oltrepassare gli stati dell’ex Jugoslavia. Viaggi che durano settimane, mesi, in molti casi anche anni.

Da quando si è aperta la rotta balcanica nell’estate 2015, centinaia di migliaia di migranti hanno percorso la penisola per raggiungere l’Europa centrale e settentrionale. Un flusso che è diminuito in seguito all’accordo tra l’Unione europea e la Turchia a inizio 2016, ma che non si è mai esaurito del tutto. Neanche dopo la chiusura dei confini da parte dell’Ungheria di Viktor Orbàn. I migranti hanno infatti aperto una seconda rotta, più a ovest, che dalla Grecia attraversa Albania, Montenegro e Bosnia-Erzegovina. Solo da gennaio a maggio 2018, le autorità dei tre Paesi hanno registrato oltre 6.700 migranti e richiedenti asilo, più del doppio di quelli arrivati in tutto il 2017.

Ed è in particolare la Bosnia che si trova ad affrontare una vera emergenza. Mentre Albania e Montenegro sono Paesi di passaggio, nei centri bosniaci di Bihać e di Velika Kladuša la situazione sta diventando sempre più drammatica. Da mesi migliaia di persone sono bloccate nelle due cittadine al confine con la porta d’Europa, la Croazia. Qui, scontri e tensioni tra forze dell’ordine e migranti sono all’ordine del giorno.

Attraverso la Croazia

Polizia sempre schierata alla frontiera, barriere e politiche di respingimento: l’approccio della Croazia al fenomeno migratorio si fa sempre più duro. Un modo per dimostrare all’Europa di essere in grado di difendere i confini esterni dell’Unione e di essere così pronta a entrare a far parte dell’area Schengen. A farne le spese, i migranti che, sostenuti da diverse Ong, hanno più volte denunciato l’uso sistematico della violenza da parte della polizia di frontiera croata. Profughi picchiati, minacciati di morte, derubati di telefoni cellulari e denaro, rimandati indietro con la forza.

Ma c’è anche chi, in gruppo o con “l’aiuto” di passeur, è riuscito a sfuggire alle forze dell’ordine e attraversare illegalmente il Paese del primo ministro Andrej Plenković fino alla Slovenia, inizio dello spazio Schengen. Sono soprattutto afghani, pachistani, siriani e iraniani a risalire i Balcani dopo aver raggiunto le isole greche. Secondo gli ultimi dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite, durante i dodici mesi del 2018 sono sbarcati in Grecia oltre 50mila migranti che hanno poi percorso la rotta balcanica cercando di entrare in Europa.

L’arrivo in Italia

Dopo aver attraversato la Croazia e la Slovenia, nascondendosi di notte tra la folta vegetazione, l’Italia è a un passo. “Ho impiegato tre mesi per arrivare a Trieste dalla Grecia. Ho attraversato Macedonia, Serbia, Bosnia e Croazia, dove la polizia mi ha rimandato indietro più volte. Ma io, insieme ad altri ragazzi, ho provato a oltrepassare di nuovo la frontiera e, alla fine, ho raggiunto l’Italia”. Hamed ha 29 anni e viene dal Pakistan. Lo abbiamo incontrato nei pressi del valico di Fernetti. Dopo aver percorso la rotta, Hamed è entrato in Italia imboccando uno dei sentieri carsici che partono da oltre confine e finiscono nel capoluogo del Friuli Venezia Giulia. “Abbiamo seguito i sentieri tra i boschi. Correvamo in silenzio per non farci notare e siamo arrivati così fino in città senza che nessuno ci fermasse”, spiega un altro ragazzo.

Il ministro dell’interno Matteo Salvini e il governatore della Regione Massimiliano Fedriga hanno messo in campo un piano per incrementare i pattugliamenti. Contro l’immigrazione clandestina il Viminale ha deciso di usare il pugno duro e, dopo un periodo di prova, ha reso permanente il presidio dei confini. Per sorvegliare gli oltre 200 chilometri che dividono Italia e Slovenia, nei territori di Trieste e Gorizia sono stati schierati diversi reparti delle forze dell’ordine. E i controlli a tappeto hanno dato importati risultati.

I numeri

1.494. È il numero (più che triplicato) dei migranti irregolari rintracciati e arrestati dalla Polizia di frontiera di Trieste nel corso del 2018. Di questi, 300 sono stati immediatamente riammessi in Slovenia, mentre gli arresti sono stati 95. Oltre mille gli indagati in stato di libertà. I dati sono emersi dal bilancio dell’attività dell’anno scorso tracciato dalla Polizia di frontiera.

Intanto migliaia di migranti continuano a essere bloccati alle porte dell’Europa. Il confine tra Bosnia e Croazia continua a pulsare e le autorità sono sicure: dopo il rigido inverno la rotta balcanica si risveglierà. 

da qui

 

 

Sulla via balcanica dei migranti morta anche la pietà per i disabili - Nello Scavo

 

inviato a Malljevac (Croazia)

 

Secondo le autorità di Sarajevo nel corso del 2020 sono entrate in Bosnia poco più di 16mila persone, altre 11mila sono state bloccate lungo i confini a sud

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Farid si è svegliato senza una gamba. Eppure era sicuro di averla ancora dopo l’incidente stradale capitato al camion sotto al quale si era nascosto per sfuggire alle guardie di confine. Soprattutto Farid non riusciva a capire come fosse possibile che un mutilato potesse addormentarsi in un pronto soccorso in Slovenia per poi risvegliarsi a Sarajevo, in Bosnia.

I respingimenti dai Paesi Ue alla Bosnia non conoscono sosta, e nemmeno pietà. Anche della famiglia di curdo–iraniani catturati e portati via sotto i nostri occhi non c’è notizia. Erano riusciti a superare i crinali innevati e i campi minati in Croazia. Nell’Hotel Porin, l’unico centro di permanenza ufficiale del Paese, nelòla periferia di Zagabria, nessuno li ha visti ancora arrivare.
Di là della foresta, nei campi di confine bosniaci, la condizione non migliora. Un primo gruppo di circa duecento migranti rimasti senza riparo dopo l’incendio al campo di Lipa, presso Bihac, è stato provvisoriamente sistemato sotto a grandi tendoni riscaldati allestiti dalle forze armate bosniache. Gli stranieri sono rimasti per giorni esposti alla neve e al gelo, senza un riparo neanche per la notte. Secondo le autorità di Sarajevo nel corso del 2020 sono entrate in Bosnia poco più di 16mila persone, altre 11 mila sono state bloccate lungo i confini a sud. Nei miseri centri d’accoglienza bosniaci sono registrati 6.300 migranti. Secondo le stime del Ministero dell’Interno altri 1.500 soggiornano in sistemazioni private o vagano all’aperto, nei boschi o in edifici abbandonati. Tra questi c’era proprio Farid, il ragazzo afghano rimasto senza la gamba destra. La sua testimonianza è stata raccolta proco prima di Natale da “Infokolpa”, una delle organizzazioni del network “Border violence monitoring”. Farid aveva cercato di attraversare il confine con la Slovenia alcuni mesi prima. Si era acquattato sotto a un tir, agganciandosi al telaio, ben nascosto tra gli pneumatici. Una volta in Slovenia il mezzo ha avuto un incidente, così Farid si è gravemente ferito. Per la sua gamba non c’era più niente da fare. Dopo tre interventi, mente era tenuto in coma farmacologico, i medici hanno amputato l’arto fin sopra al ginocchio.

Da subito Farid aveva espresso la volontà di ottenere protezione internazionale. Invece è stato caricato su un’ambulanza e scaricato come accade a chi viene acciuffato lunga la traversata dalla Croazia all’Italia. Non sono bastati 17 giorni in uno degli spedali di Lubiana per guadagnare almeno la speranza di una riabilitazione motoria in Europa. Dalla capitale slovena è stato “riammesso” in Croazia, da cui non ricorda neanche di essere transitato con il camion, e da qui in Bosnia Erzegovina, dove era stato consegnato a un campo profughi ufficiale. Lì, però, non c’erano cure adeguate a un caso grave come il suo. Ora si trova in un appartamento preso in affitto da un amico con cui attende la guarigione e qualcuno che si decida a fornirgli una protesi.

Zagabria, intanto, le autorità continuano a ripetere che ogni segnalazione di abusi commessi dalle forze dell’ordine viene presa sul serio ed esaminata. E così si viene a sapere che a Karlovac, città a sud della capitale, nota per la confluenza di quattro fiumi e per la produzione di birre e pistole, a ottobre il tribunale ha respinto le accuse della polizia contro un presunto trafficante iraniano e quattro migranti orientali. Gli agenti avevano spiegato le circostanze dell’arresto, a cui gli stranieri si erano opposti, sostenendo che la violenza era venuta dagli iregolari e non dalla polizia.

Il tribunale non ha creduto a questa versione e ha rimesso in libertà i migranti, che avevano manifestato l’intenzione di chiedere asilo. La polizia li aveva accompagnati fuori dal tribunale facendoli salire a bordo di un furgone. Alcuni giorni dopo, i cinque sono riapparsi in Bosnia. Respinti. Il commissariato, intanto, aveva presentato ricorso contro l’assoluzione dei migranti. Ma anche la corte d’appello ha confermato il verdetto di non colpevolezza.

Gli episodi ricostruiti da Avvenire nell’ultimo mese saranno oggetto di diverse interrogazioni parlamentari in Italia e a Bruxelles. Pina Picierno (Pd) ha presentato un’istanza urgente «alla Commissione Ue e a Ursula von der Leyen perché si faccia chiarezza». Nei giorni scorsi altri esponenti dell’europarlamento, tra cui Pietro Bartolo, vicepresidente della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni, ha chiesto risposte rapide ed esaustive davanti alle accuse di respingimenti a catena e a ritroso dall’Italia alla Slovenia, da qui alla Croazia e infine in Bosnia.

Le copiose nevicate delle ultime ore fanno però del territorio bosniaco, fuori dalla giurisdizione Ue, il proscenio di una nuova tragedia umanitaria. Se pare tramontata l’ipotesi di adeguare l’accampamento incendiato a Lipa, nemmeno un trasferimento a Bihac pare al momento un’opzione praticabile sempre per l’opposizione del sindaco della cittadina e delle autorità del Cantone di Una Sana, che a fine settembre avevano chiuso il campo di Bira, allestito in una ex fabbrica e si erano opposti ad ogni tentativo di riapertura. Uno scontro tutto interno alla politica bosniaca che secondo l’Organizzazione Onu per le migrazioni (Oim) lascia almeno 3 mila persone allo sbando e in pieno inverno.

Se Zagabria, nonostante le accuse di respingimenti, non ha intenzione di costruire barriere. La Slovenia, al contrario, procede nell’istallazione di un “muro” che dovrebbe coprire una quarantina di chilometri lungo le zone maggiormente porose. Opere realizzate grazie a finanziamenti dell’Unione europea.

da qui

 

 

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