sabato 23 gennaio 2021

Identità e affidabilità della scienza in tempi di Covid-19 - Gianni Tognoni

 

I ritardi di Pfizer che occupano le nostre cronache e mandano in tilt i piani, già molto precari, della grande campagna vaccinale sono, giustamente, oggetto di scandalo e denuncia, anche a livello europeo. Di fatto il problema chiave sta ‒ ed è stato chiaramente confermato ‒ nella (incredibile!) segretezza dei contratti firmati dai Governi e dall’Europa con Pfizer e la sua associata tedesca: per quanto riguarda sia i termini precisi delle consegne che i prezzi. A conferma esplicita, in un modo che se non fosse drammatico sarebbe ridicolo, di politiche di completa soggezione della responsabilità pubblica agli interessi di mercato di una multinazionale: una di quelle più note (anche in Italia, oltre che negli USA) per aggressività, spregiudicatezza, politiche provocatorie di violazione anche delle regole commerciali più elementari. In attesa che il “segreto” venga risolto con un colpo di trasparenza, è forse utile guardare più a fondo al rapporto tra promesse, proprietà, responsabilità delle conoscenze scientifiche, sottolineando che quanto segue nasce dall’interno della “comunità scientifica”: non come critica ma come esercizio di normale trasparenza. Il patentino HI (indice di autorevolezza scientifica internazionale dei ricercatori, ndr) di chi scrive è sempre stato rispettabile, così come il suo contributo anche internazionale nei campi della sperimentazione innovativa di farmaci, delle politiche della loro valutazione, della epidemiologia (di cittadinanza, al di là delle malattie).

Non c’è dubbio che, tra i tanti protagonisti degli scenari (concreti e di immaginario) che ormai da un anno occupano nei modi più diversi tutti gli orizzonti, il ruolo delle conoscenze scientifiche è stato, ed è, determinante. Trasversalmente. Dalla biologia, all’economia, alla salute pubblica, alla sicurezza, alla politica… Dietro tutte le decisioni ci si assicura che ci siano una o più commissioni, e tanti, diversi, esperti. Il tempo dei vaccini che stiamo vivendo riassume e rappresenta alla perfezione l’intreccio stretto e ambiguo delle conoscenze scientifiche più specifiche per la gestione di una pandemia ‒ quelle biologico-mediche e quelle epidemiologiche e di salute pubblica ‒ con i processi decisionali che le prendono come criterio di riferimento e di legittimità. Un’ultima notazione importante: al di là di qualsiasi discussione, più o meno finta, l’unico mantra che non si discute e che è fondante di tutta la fiducia in un futuro diverso dice: il Covid-19 ha dimostrato al di là di ogni dubbio che la scienza ha fatto la differenza tra questa e le altre pandemie della storia, con la sua capacità di produrre rimedi che ci porteranno fuori dal tunnel in tempi che non ci saremmo mai potuti neppure sognare.

Una griglia di analisi-valutazione

Come tutti i processi che producono conoscenze complesse e strategiche per la vita della società, i “percorsi” di ricerca delle scienze che qui interessano sono inscindibili dai loro contenuti puntuali: osservazione ovvia, ma che è bene esplicitare per motivare connessioni o affermazioni che potrebbero suonare come pessimistiche, se non irriverenti.

Vaccini. È bene partire da qui, visto che siamo nel pieno di una vera e propria guerra mondiale, oltre che nazionale ed europea. Il mantra sopra citato come indiscutibile è stato applicato specificamente e in modo messianico ai vaccini. Fake news? Di fatto i vaccini sono in giro in tempi rapidi. Ma quale è stato il loro percorso? Le conoscenze e le tecnologie che li hanno permessi erano parte ben consolidata del know how e delle possibilità operative della “comunità scientifica” (privata e pubblica). La novità è stata la comparsa di un mercato inaudito che ha fatto mettere a disposizione capacità di sviluppo applicativo attraverso politiche di finanziamento come quelle di tempi di guerra (non si esagera: i dati sono ben disponibili). Nulla di scientificamente nuovo. E perfetta conferma che la logica dello sviluppo non è stata quella della cooperazione tra vari attori, ma della competizione più secretata e senza esclusioni di colpi: “reclutando” popolazioni sperimentali con criteri che sarebbero risultati inaccettabili in termini di informazione e di gestione, annunciando risultati solo con un occhio alle quotazioni in borsa, promuovendo campagne di massa senza neppure aver messo a punto una politica collaborativa almeno nel monitoraggio della effettività oltre che della sicurezza dei diversi vaccini.

Eppure la “novità”, il vero risultato scientifico che porterebbe fuori dal tunnel sarebbe il sapere modalità, intensità, durata della difesa immunitaria: si richiede tempo, certo! Ma, soprattutto, una collaborazione molto trasparente tra i diversi attori, per mettere insieme dati, garantirne una analisi indipendente, tempestiva, con una forte interazione tra ricerca di base ed epidemiologia… Tracce, anche solo informative, di questo processo? Segnali critici della intollerabilità (etica? di normale civiltà democratica?) professionale, metodologica, culturale di un silenzio comunicativo che sembra raccogliere nella connivenza su interessi e politiche strettamente di mercato, privato e pubblico, di ricercatori “indipendenti” e produttori industriali?

Salute pubblica e diritti umani

I termini di riferimento di questo secondo punto di riflessione sembrano, a prima vista, essere più lontani dal tema che ci interessa. Ma di fatto ne sono il cuore: la priorità data ai vaccini è dovuta al loro carattere più esemplare. E il messaggio è chiaro: il mercato ha ancora una volta travestito la scienza di bontà e di futuro, per avere mano libera nel farne un uso ottimale a suo vantaggio. Non è una denuncia “specifica” per il Covid-19: la pandemia, prima ancora che la guerra vaccinale divenisse evidente, ha purtroppo documentato che il primo fallimento della “comunità scientifica” globale è stato, e continua ad essere, quello dell’assenza di una cultura di condivisione di dati sulla vita delle persone in vista di una comprensione dei rischi e di una ricerca di soluzioni mirate alla specificità dei bisogni.

La non-risposta della comunità scientifica globale ha coinvolto tutte le più alte autorità. Non per aver fatto qualcosa di male ma per la loro assenza e incapacità (o impossibilità programmata) nel farsi carico in modo tempestivo e collaborativo di un problema preannunciato da tempo, ma la cui causalità multipla poteva essere bloccata solo toccando “tradizioni” ed equilibri di potere che da tempo la scienza mainstream ha rinunciato a mettere in discussione: è da questi centri (pubblici e privati), conniventi, che derivano infatti le quote più importanti di finanziamento. Questo “fallimento per assenza” è stato diagnosticato in modo molto preciso, dall’editore di una delle riviste scientifiche più prestigiose e globali, come “catastrofe”. Con la conseguenza esplicita che per una diagnosi che è culturale e politica potrebbe solo rispondere un cambiamento di paradigma rispetto alle cause della catastrofe. La risposta messa in evidenza dallo scenario “vaccini” non va certo in quella direzione. L’opposizione, senza clamore ma molto fattuale, di tutti i poteri che contano all’ipotesi anche solo di una sospensione (eccezionale, come è eccezionale la gravità della pandemia) del regime dei brevetti, promossa dalle reti dei diritti umani e dei popoli, afferma che la unica “scientificità” che si deve garantire è quella della arbitrarietà-segretezza degli algoritmi economici.

Contare i morti o esserne responsabili per esplorarne-comprenderne l’evitabilità?

I bollettini che puntualmente, da ormai un anno, in Italia e a livello globale, pretendono di raccontare l’andamento della pandemia, con descrizioni che oscillano tra quelle metereologiche (le ondate!) e quelle restrittive-accusatorie (assembramenti, centri culturali chiusi, scuole chiuse o aperte), sono un altro dei segnali drammatici della inesistenza di una scientificità responsabile della “scienza dei big data”.  In un tempo che assicura (e fa vedere come concreta nei campi più diversi) la possibilità di “tracciare”, di spiegare, di utilizzare i flussi di tutte le transazioni, i movimenti, le interazioni tra gli umani e le merci, non esiste a tutt’oggi un solo esempio di confronti epidemiologici che permettano di comparare e comprendere (lungo i tempi o nei diversi territori) le incredibili diversità degli andamenti dei contagi e delle popolazioni più colpite. Nel piccolo dell’Italia i colori si modificano seguendo la vignetta di Altan, che sull’Espresso del 15 gennaio indica la strategia dell’estrarre a sorte i biglietti di una lotteria, più che spiegazioni ragionevoli e riconoscibili. Il Veneto virtuoso diventa come la Lombardia della prima ondata, per ritornare virtuoso contro ogni aspettativa. La Svezia che si affida alla fiducia nella responsabilità della sua popolazione si rivela un disastro rispetto alla sostanziale “assenza di problemi” delle nazioni contigue e simili come la Norvegia e la Finlandia. Le scuole si aprono, si chiudono, si confondono in tutti i paesi senza che ci sia un solo dato di confronto sulla contagiosità, diretta o indiretta, attribuibile alle popolazioni giovani e/o alle loro famiglie. La Germania e l’Olanda fanno lockdown durissimi, dopo essere passate per essere virtuose. Senza parlare, in un mondo globale che produce statistiche economiche puntuali e puntigliose sulla povertà e le diseguaglianze su tutti i paesi, di stime credibili sulla pandemia in interi continenti come Africa, America Latina, India, Cina…. Il monitoraggio, globale e locale, che invoca senza mai poterlo applicare, il “tracciamento dei percorsi-gruppi a rischio”, sembra riprodurre la storia della “spagnola” in tempi che non potevano neppure immaginare la nostra società digitalizzata.

La scientificità della epidemiologia comunitaria e di cittadinanza da anni si era applicata a rendere visibili ed evitabili i diritti violati delle minoranze più a rischio attraverso un lavoro “di prossimità e partecipazione” con le popolazioni interessate: l’epidemiologia mainstream, specializzata nelle descrizioni dall’alto e da lontano della distribuzione della malattia, ne impone la cancellazione. La sua scientificità è quella dei bollettini sopra citati: i numeri e le percentuali travestono il non-sapere in una pretesa conoscenza oggettiva garantita da commissioni che non si confrontano pubblicamente (non solo in Italia) sulle loro incertezze. Dimenticando che l’informazione condivisa dell’incertezza e della parzialità è la conditio sine qua non di una scienza che voglia essere una fonte indipendente e responsabile di informazione al servizio di una civiltà democratica.

Guardare avanti

I punti che si sono toccati non hanno evidentemente la pretesa di essere completi né tanto meno “veri”. Esplicitano semplicemente il rischio ‒ e l’imbroglio ‒ dell’affidarsi a un potere che si pretende indipendente da una verifica trasparente perché espressione di una conoscenza “scientifica”. Ma soluzioni lineari di situazioni che hanno messo in discussione tutti i modelli di società e di scienza che hanno portato a una “catastrofe” non possono essere credibili. Il ruolo primario della “comunità scientifica” dovrebbe essere quello di mettere in evidenza e farsi carico, con la stessa forza, del proprio sapere e del tanto non-sapere: per coerenza con la sua identità e responsabilità culturale, metodologica, di democrazia. Il “dopo-pandemia” affidato all’attuale politica dei vaccini esprime tutta la cecità di una scienza che sa benissimo (e programmaticamente non ricorda) che pandemie ancor più mortali di quella che viviamo dipendono dal mantenimento della logica proprietaria e competitiva del mercato dei brevetti, dei prezzi, delle diseguaglianze. È ovvio che ciò è responsabilità primaria dei Governi. Ma fa parte della credibilità della scienza essere dalla parte di chi dice tutta la verità sul come stanno le cose, e prendere partito. Un editoriale autorevole di un giornale scientifico come il New England Journal of Medicine lo diceva, prima ancora della diagnosi sopra citata di “catastrofe”: la sfida ‒ culturale ed etica, e perciò scientifica, identitaria ‒ della scienza per un dopo “diverso” passa per un allearsi tra coloro che, senza illusioni o demagogia, sul lungo periodo, assumono e rispettano, come criterio di legittimità, il produrre conoscenze che non siano strumento di inequità.

da qui

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