mercoledì 13 gennaio 2021

i danni della didattica a distanza

La didattica a distanza fa male – Carlo Tecce 

La didattica a distanza fa male. Si ha paura a dirlo, per non sovrapporre i drammi. Al ministero dell’Istruzione, però, lo sanno da mesi che quel rito digitale conosciuto con la sgradevole sigla di “dad”, nel lungo periodo, fa male agli studenti, riduce l’apprendimento scolastico, amplifica il disagio sociale, genera disturbi psicologi.

Al ministero dell’Istruzione lo sanno perché da mesi, da agosto soprattutto, sono sopraffatti da tabelle, ricerche, documenti riservati che provengono anche dalla collaborazione col Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi. L’ultimo aggiornamento è di gennaio, riguarda un dettagliato sondaggio fra gli studenti. Così il ministero di Lucia Azzolina insiste fra le mura sorde del governo: a distanza, ma se necessario, se la pandemia infierisce ancora, non per pigrizia intellettuale, non per impreparazione amministrativa. Non sarebbe perdonabile. Il ministero dell’Istruzione, solo, si muove con ostinazione per i diritti degli studenti in un momento di doveri e il governo giallorosso, mai tanto compatto su un punto, reagisce infastidito. Come se non sopportasse questa ragionevole ostinazione. Allora si litiga e ci si confonde.

Qualcuno ha pensato alle conseguenze. «Il virus fa chiudere la scuola. La prevenzione non si contesta. Però la scuola chiusa apre nei ragazzi grosse ferite. Quelle invisibili, le più insidiose. Non facciamo finta che non esistano», racconta il dottor David Lazzari, presidente del Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi. Lazzari cura le ferite invisibili, scandisce concetti pietrosi con quel tono lieve dei professionisti che illustrano un evento medico ai neofiti, storditi al primo assaggio di dolore.

Sin da agosto gli psicologi italiani supportano il ministero dell’Istruzione e con la solita fatica, per l’irreversibile lentezza della burocrazia, aiutano presidi e docenti a scovare e sanare le ferite invisibili degli studenti che siedono in aula con la mascherina chirurgica oppure alla scrivania della cameretta per la “dad”: «Il nostro compito è intervenire in tempo sugli studenti per scongiurare le cicatrici e tutelare l’apprendimento. I dati che abbiamo raccolto – anche per il ministero di viale Trastevere – ci svelano che fra i ragazzi costretti a casa c’è un senso diffuso di stress, nervosismo, irritabilità e depressione», afferma Lazzari.

Gli adolescenti, i più colpiti, hanno messo in pausa completa l’esistenza e ogni annuncio del tal ministro o tal governatore di rientro in classe, più o meno attendibile, una volta anticipato, una volta posticipato, non fa che accrescere un sentimento di estrema precarietà. La scuola come luogo di trasmissione del contagio, o forse no, non troppo. Tutto è vago. Tutto è vario. Le conseguenze non lo sono.

Il Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, assieme a una società di indagini demoscopiche, a dicembre ha svolto per il ministero un’analisi trasversale alla popolazione scolastica con una serie di quesiti preparati dal proprio centro studi. Lazzari e colleghi hanno coinvolto gli alunni dalla materna alle superiori e anche i genitori: «Le nostre paure sono confermate: la pandemia ha scatenato disagi che velocemente si trasformano in disturbi. La didattica a distanza acuisce i pericoli, non ne abusiamo con leggerezza».

Nascondere l’evidenza

Chissà se il governo di Conte pensa alle conseguenze, mentre colora le regioni, sparge tappeti igienizzanti per le suole e scomodi banchi a rotelle. Chissà se le regioni ci pensano, soprattutto quando invocano poteri e con fiera autorità serrano le scuole, come esclusiva e valida soluzione ai mali del virus. Il ministero di Lucia Azzolina un po’ ci ha pensato e dallo scorso agosto ha intensificato i contatti con gli psicologi.

Il 9 ottobre il ministero ha firmato un protocollo d’intesa con il Consiglio nazionale e lì ha esposto, in forma chiara, ignorata ai più, i suoi indicibili timori: «Si intende realizzare una serie di attività rivolte al personale scolastico, a studenti e a famiglie, finalizzate a fornire supporto psicologico per rispondere a traumi e disagi derivanti dalla pandemia. Si ritiene necessario predisporre un servizio di assistenza psicologico. Si intende avviare azioni volte – si legge ancora nel documento ufficiale – alla formazione dei docenti, dei genitori e degli studenti, in maniera da affrontare, sotto diversi punti di vista, le tematiche riguardanti i corretti stili di vita e la prevenzione di comportamenti a rischio per la salute nonché avviare percorsi di educazione all’affettività».

Queste premesse, firmate da Azzolina e controfirmate da Lazzari, si sono tramutate in un fondo di 40 milioni di euro per gli oltre 8 milioni di studenti distribuiti in 8.290 istituti. Più un timido approccio che un progetto ponderoso. Di certo più di niente. Il 26 ottobre il ministero ha inviato una circolare ai dirigenti scolastici per le indicazioni sui bandi da attivare entro il 31 dicembre. Alla vigilia di Natale ne ha spedita un’altra per convincere i più scettici: «Circa l’ottanta per cento degli istituti scolastici ha aderito. Alcuni hanno già iniziato a novembre, altri avranno presto lo psicologo a scuola per operazioni individuali o collettive», commenta Lazzari, che sul tema si è confrontato con Agostino Miozzo, il capo dell’ormai noto Comitato tecnico scientifico (Cts), il gruppo di consulenti sulla pandemia del governo.

Internet non è il sapere

«Imparare da remoto è una sfida. I ragazzi generalmente imparano quando sono coinvolti attivamente e in ambienti in cui si sentono al sicuro e socialmente connessi. Imparare a distanza richiede un livello di attenzione sostenuta e un grande controllo emotivo. La richiesta è per tutti: studenti, insegnanti e genitori», ha spiegato alla rivista della Harvard Chan School la ricercatrice e psicologa americana Archana Basu, istruttrice della divisione di psichiatria infantile e dell’adolescenza al Massachusetts General Hospital, assai stimata dagli psicologi italiani. Questo era il preambolo. Questa è la conclusione di Basu: «La nostra sicurezza fisica e sociale è messa a dura prova. L’abbiamo chiamata scuola da casa, ma è una scuola di “crisi” a casa. Le preoccupazioni per la sicurezza sollecitano il sistema limbico, che può interferire con l’apprendimento». Lazzari insorge: «Per favore smettiamola di parlare di didattica a distanza. Nessuno ha preparato le famiglie, gli studenti, gli insegnanti a un’esperienza così pesante. Non basta un abbonamento gratuito a internet per espletare il compito. Qui si tratta di lezioni seguite davanti a uno schermo senza alcun coinvolgimento. L’aula di una scuola è lo spazio di eccellenza per la crescita psicologica e non abbiamo surrogati. Noi siamo indotti a credere che la scuola sia un contenitore di informazioni e nozioni. Se fosse così, sarebbe obsoleta. Invece la scuola ha una funzione fondamentale per strutturare le competenze psicologiche che ci offrono flessibilità, credibilità, maturità, capacità di fronteggiare le varie situazioni che la vita ci pone. E lo Stato non ha altre leve per allenare al meglio la sua società di domani».

L’associazione degli psicologi americani ha diffuso un prontuario per tentare di semplificare una missione improba degli insegnanti: decifrare i segnali di malessere che arrivano dagli studenti attraverso un collegamento a una piattaforma digitale e non alla tradizionale lavagna e poi rivolgersi agli specialisti. «La pandemia ha causato molta preoccupazione. Questi fattori di stress – scrivono – possono provocare problemi di salute mentale a chiunque e la comparsa di sintomi acuti per chi ne soffre già». Lazzari fa un’osservazione: «Non mi spendo in una lotta di categoria, sarebbe immorale, ma vorrei precisare che la rete psicologica pubblica italiana è insufficiente: abbiamo 8,4 dottori su 100.000 abitanti contro i 49 dei francesi».

La commissione paritetica composta da funzionari ministeriali e psicologi dell’Ordine ha ricevuto molte segnalazioni di criticità dagli insegnanti e dagli esperti che operano nelle scuole; tant’è che il 24 novembre, dopo un incontro di Azzolina con Lazzari al dicastero di Viale di Trastevere, si è deciso di accelerare i buoni propositi del protocollo d’intesa.

In fondo alla lista

Il Comitato tecnico scientifico è consapevole dei rischi generati da un massivo (eccessivo) utilizzo della cosiddetta didattica a distanza per gli adolescenti. Il Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi ha sempre riferito al Cts di Miozzo che la scuola è una priorità delle ripartenze, anche se non si tramuta in immediati benefici sul prodotto interno lordo, semmai sul futuro capitale umano dell’Italia. Il Cts annuisce, il governo pure, ma soltanto per la capienza degli autobus si è discusso senza esiti per mesi. Ci sono condizioni generali e oggettive che impediscono l’ingresso a scuola in alcuni periodi di particolare virulenza della pandemia, ma da subito, dal 3 marzo 2020, la scuola è stata spinta ad arrendersi al virus. E non si è più riavuta. I ragazzi dai 13 ai 19 anni, che da marzo non sono riusciti più a mettere piede a scuola, tranne chi ha fugacemente partecipato all’esame di Stato, rapido come i tamponi antigenici, in un sondaggio di settembre promosso dagli psicologi, per la maggior parte si sono dichiarati ottimisti sul ritorno alla normalità dopo la fine della pandemia. Poi le speranze, e anche le sensazioni positive, come dimostra l’ultima rilevazione, si sono rarefatte. Chiosa Lazzari: «I ragazzi adolescenti sono palazzi in costruzione, sono i più facili da riparare, ma anche quelli che patiscono i danni maggiori da un fenomeno avverso. La pandemia gli ha sottratto un pezzo di mondo come al resto della popolazione, ma la loro specifica fragilità ci obbliga a una reazione migliore, più efficiente. Un modo per non avere rimpianti è valutare ciò che accade quando li lasciamo al computer per una lezione di matematica e l’altro modo è dirsi la verità». Pensare alle conseguenze.

da qui


A volte ritornano - Chiara Valerio

 

Non esiste la classe docente ma il docente, da solo

 

11 gennaio, ore 16

Non se ne può più di queste/i studenti delle superiori che scrivono lettere in cui dicono di voler tornare a scuola, e mi manca la compagna di banco, e quanto mi manca la ricreazione, e quanto mi piaceva sentire suonare la campanella, e quanto erano belle le verifiche, e di qua, e di là. Fatevene una ragione: LA-SCUOLA-SUPERIORE-È-CHIUSA-FINO-A-DATA-DA-DEFINIRE

 

2 gennaio 2021
Il rumore dei botti di Capodanno mostra che il nuovo anno nasce tra aspettative esagerate. Intanto, tra pochi giorni gli studenti delle scuole superiori rientrano a scuola. Questa nuova pagina si intitola «A volte ritornano» perché si basa sulla previsione di come sarà la scuola di qui (in realtà da settembre del 2020) ai prossimi due-tre anni: lunghi periodi di confinamento domestico (e didattica a distanza) interrotti da periodi più brevi di scuola in presenza, a singhiozzo, con percentuali variabili, banchi monoposto che si spostano per i corridoi, tanta isteria collettiva.

3 gennaio
Trascrivo quello che si diceva riguardo alla riapertura delle scuole superiori intorno al 3 gennaio 2021. E mancavano ancora quattro giorni. Bisognava prima vaccinare il personale scolastico. Se va bene il personale scolastico sarà vaccinato entro luglio, prima i soggetti a rischio e poi tutti gli altri. Si riapre a settembre. Se va bene. Ma rendiamoci conto. La curva dei contagi è maggiore rispetto a settembre (Ci sono anche dei grafici a supporto di questo argomento, con le casette più alte, più alte, sempre più alte). C’è questa ostinazione sulla riapertura per il 50% degli studenti il 7 gennaio nonostante il parere contrario degli scienziati, nonostante l’evidenza. Non si riapre, non ci sono le condizioni. I presidi questa volta sono con noi. Il ritorno a scuola, in queste condizioni, resta un’incognita: chiediamo dunque che venga ascoltata anche la voce di noi docenti. Far entrare i ragazzi alle 10 e uscire alle 18 sconvolgerebbe il loro equilibrio psicofisico. I ragazzi tornerebbero a casa nel tardo pomeriggio, senza aver consumato un pasto vero, senza il tempo adeguato per lo studio, lo sport e il riposo (quanto è sano mangiare un veloce pasto freddo, seduti alla cattedra o al banco?). Tenere docenti e discenti fermi dietro banchi e cattedre in aule mal riscaldate e con le finestre aperte è una pura assurdità. Non sembra proprio che gli estensori del piano per la riapertura in presenza si rendano conto delle insormontabili DIFFICOLTÀ ORGANIZZATIVE. Non sembra proprio che si rendano conto delle CARENZE STRUTTURALI DI FONDO. Erano anni che i docenti non producevano una così gran mole di documenti, lettere aperte e appelli. Per continuare a fare lezione in ciabatte. Anzi in pantofole perché nel frattempo è arrivato l’inverno.

4 gennaio
Riassumendo: non si può tornare a scuola (alle superiori) per: la curva dei contagi, la variante inglese del coviddi, la distanza tra le rime buccali, l’inefficienza dei trasporti, i tagli all’istruzione, le strutture fatiscenti (carenze strutturali di fondo), le classi pollaio, gli orari scaglionati (chi fa l’orario ne sa qualcosa), il sabato io faccio le lavatrici, fare lezione con la finestra aperta non è didattico, un pranzo freddo durante una ricreazione non è didattico, fare lezione con sciarpa e cappello non è didattico, lo faccio per i ragazzi (va sempre bene), il vaccino non è pronto, e, last but not least, LA NEVE!!!!

5 gennaio
A volte ritornano non più il 7 gennaio ma l’11, e in alcune regioni a febbraio. È la strategia di Don Abbondio. Vedi cosa scrive Alessandro Manzoni nei «Promessi sposi» (cap. 2): «Quello che, per ogni verso, gli parve il meglio o il men male, fu di guadagnar tempo, menando Renzo per le lunghe. Si rammentò a proposito, che mancavan pochi giorni al tempo proibito per le nozze; — e, se posso tenere a bada, per questi pochi giorni, quel ragazzone, ho poi due mesi di respiro; e, in due mesi, può nascer di gran cose».

6 gennaio
La narrazione sulla DaD in 5 passaggi.
A marzo-aprile si diceva che la DaD non è scuola, poi si è cominciato a dire che la scuola in presenza è meglio però la DaD ha salvato molte vite umane, a giugno c’è stato l’intermezzo dell’esame e hanno cominciato a piovere appelli contro l’inutilità dell’esame, ora si dice che la scuola non è mai stata chiusa, basta con la retorica della scuola in presenza meglio della DaD (d’altra parte noi lavoriamo lo stesso), la DaD è relazione e empatia (come l’orgasmatico di un noto film di Woody Allen), che si può continuare finché non sarà passata l’emergenza (due anni? Tre?). Tra un po’ si dirà che la DaD è meglio della scuola in presenza, che non abbiamo capito nulla, siamo vecchi dentro, continuiamo a difendere una civiltà arcaica che non esiste più.

Epilogo: tra un po’, non subito, non ci sarà più nessuno a dire che la DaD è relazione, che è come la scuola in presenza, basta con la retorica, perché l’insegnante, ormai inutile, sarà stato sostituito da una banca dati.

11 gennaio
La DaD fa venire il mal di pancia a qualcuno di Confindustria (e fondazioni collaterali). Scrivono gli ideologi della scuola tecno, che la didattica a distanza provoca buchi nell’apprendimento fino al 50 per cento, ne certificano il fallimento, chiedono persino di riformulare il calendario scolastico per permettere alle/agli studenti di recuperare il tempo perduto. «Un danno enorme», scrive il Sole 24 ore, e chissà perché: «Le carenze maggiori si sono registrate in studenti dal background più svantaggiato». E persino: «L’ampio ricorso alla DaD, oltre che sulle competenze, avrà effetti negativi sui comportamenti e l’emotività dei nostri giovani che stanno perdendo in relazioni e socialità». Si dirà: Confindustria misura i buchi di apprendimento con i propri sistemi (anche se noi possiamo toccarli con mano, e fare finta di non vederli), e ha i propri scopi, ma il messaggio è chiaro: il ministro dell’istruzione non sta facendo nulla per evitare «l’ampio ricorso alla DaD».

Gli unici veri sostenitori della didattica a distanza, ormai, sono gli insegnanti che non vedono possibile tornare a scuola a nessuna condizione, e discutono se sia più didattico fare lezione in classe con il cappello e la sciarpa o a casa con la felpa e le pantofole.

da qui



Didattica, presenza e distanza - Leonardo (Dino) Angelini

 

1. Secondo il vocabolario Zingarelli per “didattica” s’intende il «settore della pedagogia che ha per oggetto lo studio dei metodi per l’insegnamento». Quindi la didattica è un metodo di lavoro che ogni docente apprende lungo il proprio percorso di crescita professionale.

L’atteggiamento teoreticista che ha caratterizzato per un lungo tratto di tempo larga parte dell’università italiana ha favorito il consolidarsi di una didattica che fino a poco tempo fa ha sottovalutato l’importanza di una formazione dei docenti incentrata sul rapporto fra apprendimento teorico ed esperienza pratica.

Ciò non ha impedito ai docenti di acquisire sul campo, cioè a partire dalla propria esperienza, una sensibilità alle questioni di metodo d’insegnamento. Da varie analisi svolte sul campo nel ventennio scorso emerge con chiarezza che nella storia individuale di ciascun docente sia la vocazione all’insegnamento, sia il processo di interiorizzazione della didattica che poi saranno alla base dei loro metodi d’insegnamento, avviene su base individuale, per ispirazione o in opposizione a modelli derivanti dalla propria storia personale di discenti, di figli, di lettori, etc. E poi embricando ciò che deriva da queste “primitive” esperienze con la propria pratica quotidiana e, almeno per molti docenti, in base ai precetti forniti dai vari gruppi di mutuo-aiuto presenti sia a livello locale, sia a livello nazionale.

Questo personalissimo lavorìo dà luogo a una vera e propria foresta delle didattiche che sarebbe riduttivo vedere solo come il tentativo di riparare alle carenze che su questo piano mostrano da sempre il nostro legislatore e la nostra accademia. Guardando al fenomeno più da vicino, infatti, si nota innanzitutto che tutti i docenti ‒ anche coloro che sono capitati a scuola per caso ‒ nel momento in cui si ritrovano a insegnare scoprono di essere abitati da sempre da individualissimi “personaggi della formazione”, cioè dall’insieme degli introietti e delle proiezioni che derivano da coloro che hanno fatto da modello lungo il percorso di crescita individuale e professionale di ognuno, e che fra l’altro ‒ come dicevamo prima ‒ costituiscono la base di partenza dei loro metodi d’insegnamento. Ciò da una parte permette loro di non aderire a un cliché e di costruirsi un modello sentito come proprio. Dall’altra li espone alla de-idealizzazione e al burnout più facilmente di quanto lo siano coloro che aderiscono a un modello standard di didattica.

Da queste considerazioni sulla didattica discende un importante corollario: ogni docente nel momento in cui insegna una qualsiasi materia a un discente contemporaneamente lo “segna di sé” contribuendo fra l’altro, insieme alle persone più importanti che nel proprio percorso di vita il discente incontrerà, alla definizione del profilo del suo specifico “personaggio della formazione”.

2. La stragrande maggioranza dei docenti oggi tende a contrapporre la didattica in presenza a quella digitale. La natura difensiva di questa improvvisa opposizione manichea appare evidente laddove si consideri da una parte l’elemento di straordinarietà rappresentato da questo oggi pervaso in maniera funerea dalla pandemia; dall’altra la pulsione al riduzionismo cui per le stesse funeree ragioni è sottoposta la parola “presenza”.

Prima che calasse su di noi la pandemia c’è stato infatti sul campo un insieme di riflessioni e di sperimentazioni intorno al rapporto fra operatività scolastica in presenza e nuove opportunità offerte dal digitale. Protagonisti di questi dibattiti e di queste sperimentazioni sono stati ricercatori e docenti appartenenti all’ultima generazione di “nativi Gutenberg”, preoccupati delle difficoltà derivanti dal fatto di rivolgersi alla prima generazione dei “nativi digitali” elaborando una didattica nuova, capace di sfruttare appieno le nuove opportunità comunicative legate alla digitalizzazione. Nel frattempo l’Istituzione Scolastica centrale (il Ministero e i suoi derivati) per lo più si era limitata a informatizzare uniformemente le amministrazioni scolastiche, in un’ottica di standardizzazione delle procedure, utilissima sul piano amministrativo, ma ovviamente basata su criteri opposti a quelli della sperimentazione.

L’arrivo della pandemia non solo ha imposto all’improvviso di superare a piè pari la logica sperimentale che aveva caratterizzato negli ultimi decenni l’azione dei docenti sul campo ma, sulla spinta dell’emergenza, ha prodotto una specie di invasione di campo, attraverso l’imposizione da parte dell’istituzione scolastica di quelle logiche standard che sul piano amministrativo avevano un senso, sulla definizione delle linee di una didattica digitale ne hanno uno opposto. Ciò ha provocato un irrigidimento dei docenti e l’assunzione di una posizione difensiva che potrebbe condurre alla dispersione di tutto il patrimonio di sperimentalità che aveva caratterizzato finora l’azione di molti docenti e sperimentatori sul campo.

3. Ho lavorato come psicologo dal 1974 al 1985 in un luogo ‒ Correggio, Reggio Emilia ‒ in cui in quel tempo c’erano molte madri che lavoravano a domicilio. La spirale dell’autosfruttamento che facilmente alligna dovunque ci sia lavoro a domicilio remunerato a cottimo, le spingeva ad ampliare ad libitum il tempo dedicato al lavoro anche quando in casa c’erano dei figli piccoli da accudire. Per cui era facile in questi casi trovarsi di fronte a una scena in cui nella stessa stanza c’erano i figli piccoli della madre lavorante a domicilio e lei di fronte a loro presa totalmente dal proprio lavoro. Lo scarso spessore di questa presenza traspariva dai vari problemi psicologici che emergevano sia in lei che nei suoi figli.

Questo è quanto mi viene in mente allorché si contrappone la didattica in presenza a quella in distanza. Lo spessore della presenza, infatti, non è legato alla compresenza fisica quanto alla complanarità psicologica, cioè al fatto che ci sia uno scambio basato su quel “ricevere mentalmente” (dek) che è alla radice sia della parola “docente” che a quella “discente”. Per cui nulla può impedire a un docente di disporsi nei confronti dei propri discenti come una presenza assente (come accadeva nei famosi doposcuola del maestro di Vigevano!). Così come nulla impedisce di pensare che, prima o poi, possano scaturire mille didattiche capaci di dare spessore e profondità alla “presenza in distanza” (come del resto sta affannosamente avvenendo in questi mesi attraverso webinar, conferenze online etc.).

Certo è che noi per ora conosciamo bene solo la didattica in presenza; siamo capaci di darle un timbro personale che abbiamo introiettato e che poi abbiamo fatto nostro in itinere; sappiamo come trasmettere in presenza il nostro sapere alle generazioni che vengono dopo di noi; e a volte siamo coscienti che non è solo questo sapere che passa, ma anche qualcosa di noi stessi che si trasmette attraverso l’esempio. Ma non credo assolutamente che questo, prima o poi, non possa essere riprodotto attraverso una messa a punto di una didattica basata sulla “presenza in distanza”. Ci sarà sicuramente bisogno di tempo. Probabilmente la cosa sarà facilitata allorché questa prima generazione di nativi digitali sarà diventata adulta e per-ciò capace di passare dal terreno della discenza a quello della docenza. Ma spero che, passata la pandemia, coloro che fanno scuola oggi sappiano riprendere una posizione critica e sperimentale nei confronti del digitale.

Post scriptum: sicuramente la didattica a distanza è profondamente classista! Non dimentichiamo però che ciò non fa altro che confermare il crogiolo classista presente in classe e nella società.

da qui

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