domenica 17 gennaio 2021

“I NOSTRI AMICI SONO DEGLI SPETTRI: LA VERA VITA È NEI ROMANZI DI BALZAC” - Oscar Wilde

Era tornato da Parigi coi capelli ricci, corti, aveva trent’anni, spendeva troppo, per lo più per cose futili, e cercava, in modo esagitato, cinico, mondano, una via nella letteratura. Per il momento, aveva scritto qualche poesia – tra cui, Ravenna – e un paio di pièce, Vera o i nichilisti e La duchessa di Padova.  Nel 1884 si era sposato con Constance Lloyd, donna di lampeggiante leggiadria. Ebbe due figli, a raffica, Cyril, che nelle foto, abbracciato alla madre, è di celestiale bellezza: morirà nel 1915, in guerra, freddato da un cecchino tedesco; e Vyvyan, nel 1886. Quell’anno, in settembre, Oscar Wilde pubblica l’articolo “Balzac in English”, qui tradotto, sulla “Pall Mall Gazette”. Quell’anno, Wilde, che aveva i toni di Amleto e sognava di essere Antinoo, incontrò Robert Ross, con cui, è storia, scoprì la sua omosessualità. La “Pall Mall Gazette”, rivista di pregio – vi pubblicavano Arthur Conan Doyle e H.G. Wells, Bram Stoker vi pubblicherà Dracula – fu palestra efficace in cui Wilde, spigliato in ogni ‘genere’, gran dandy della provocazione culturale, raffinava le proprie idee estetiche. Il pezzo su Balzac, in questo caso, è fondamentale. Wilde ci spiega le tre regole che reggeranno l’edificio della propria opera: a) in letteratura non esiste il ‘realismo’ ma la realtà costruita dal talento furibondo dello scrittore; b) per natura lo scrittore, che affonda nell’inquieto della vita, è detto ‘immorale’ da chi la vita la subisce; c) l’artista dà la vita: le sue creazioni, cioè, sono più autentiche del creato in cui siamo gettato. Fino al paradosso (sugoso): una serata con i personaggi di Balzac è molto più fruttuosa di quella passata con un amico d’infanzia. Da un lato sorbiamo il genio, dall’altra soltanto il tedio. Wilde, come si dice, stava ‘spiccando il volo’: nel 1888 pubblica The Happy Prince and Other Tales; due anni dopo è la volta del “Dorian Gray”. A quel punto, la finzione fu la sola verità. (d.b.)

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Qualche anno fa, su un numero di “All the Year Round”, Dickens si lamentava del fatto che Balzac fosse poco letto in Inghilterra: sebbene il pubblico abbia ormai acquisito una certa familiarità con i capolavori della narrativa francese, è possibile che “La Comédie Humaine” non sia ancora apprezzata e compresa a dovere. Peccato, perché è il grande capolavoro che la letteratura ha prodotto in questo secolo, e Mister Taine non esagera dicendo che, dopo Shakespeare, Balzac è il nostro più eccellente repertorio di documenti sulla natura umana. In effetti, Balzac voleva fare con l’umanità ciò che Buffon ha fatto con il regno animale. Come il naturalista ha studiato leoni e tigri, così il romanziere ha osservato uomini e donne. Eppure, Balzac non era un semplice giornalista. Fotografia e processi verbali non sono gli elementi essenziali del suo metodo. L’osservazione gli ha concesso i fatti, il suo genio ha convertito i fatti in verità e la verità in rivelazione. In una parola: Balzac è una mirabile combinazione di temperamento artistico e spirito scientifico. Quest’ultimo lo ha lasciato in eredità ai suoi discepoli; il primo era interamente suo. La differenza tra L’Assomoir di Zola e Illusioni perdute di Balzac è la stessa che c’è tra realismo privo di fantasia e realtà immaginata. “Tutti i personaggi di Balzac”, ha detto Baudelaire, “sono dotati dello stesso ardore vitale di cui era animato il loro autore. Le sue finzioni hanno il colore dei sogni. Ogni mente è un’arma carica di volontà: anche i suoi sguatteri hanno del genio”.

Naturalmente, è stato accusato di essere immorale. Pochi scrittori che si occupano visceralmente della vita sfuggono a questa accusa. La sua difesa fu rotonda, concisa, esatta: “Chi contribuisce con la sua pietra all’edificio delle idee, chi denuncia un abuso, chi pone gli occhi su un male da abolire, passa sempre per immorale. Se sei autentico nei tuoi ritratti, se, faticando ogni giorno e ogni notte, riesci a scrivere la lingua più difficile del mondo, la parola immorale ti viene scagliata in faccia”. La morale dei personaggi della “Comédie Humaine” è semplicemente la morale del mondo che li circonda. Fanno parte del soggetto dell’artista, non del suo metodo. Se occorre la censura, è la vita, non la letteratura, che dev’essere censurata. Balzac, inoltre, è essenzialmente universale. Vede la vita da ogni punto di vista. Non ha preferenze né pregiudizi. Non vuole dimostrare nulla. Sa che lo spettacolo della vita contiene in sé il suo segreto. “Ha creato un mondo – e tace”.

E che mondo! Che panorama di passioni! Che intrigo di uomini e donne! Si diceva di Trollope che aumentasse il numero dei nostri conoscenti, pur senza averli mai visti: dopo aver letto la “Comédie Humaine” si comincia a credere che le uniche persone realmente vive siano lì dentro. Lucien de Rubempré, Papà Goriot, Ursule Mirouët, Marguerite Claës, il barone Hulot, Madame Marneffe, il cugino Pons, De Marsay: tutti portano con sé una contagiosa illusione di vita. Hanno una feroce vitalità: la loro esistenza è fulgida, ha i colori del fuoco; non ci limitiamo a provare sentimenti per loro, li vediamo, dominano la nostra fantasia, sfidano le nostre convinzioni. Una regolare frequentazione di Balzac riduce i nostri amici viventi a delle ombre e le nostre conoscenze a ombre di ombre. Chi vorrebbe sprecare una sera con Tomkins, l’amico d’infanzia, se possiamo sedere di fianco a Lucien de Rubempré? È più piacevole sorbire l’antipasto nella società di Balzac che giocare a carte con la duchessa di Mayfair.

Nonostante ciò, in molti dichiarano indigesta la “Comédie Humaine”. Forse lo è: ma allora, che dire dei tartufi? L’editore di Balzac non voleva essere scocciato da simili critiche. “Indigesto?”, ha detto, con raro buon senso, “Beh, ci credo: chi ha mai pensato che una cena così sontuosa non lo sia?”.

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