venerdì 29 gennaio 2021

Nawal con i migranti sulla rotta balcanica - “Qui l’umanità è perduta”

“Immaginate di avere una madre, una sorella, un figlio, un neonato su una strada del genere, percorrere chilometri e chilometri, per poi essere respinti da una polizia di frontiera che, senza alcuna pietà, si arroga il diritto di togliere tutto ai migranti, anche di spogliarli, denudarli, privandoli delle scarpe e costringendoli a tornare verso l’opposto valico, quello che hanno attraversato prima”.

Nawal Soufi, mediatrice culturale e attivista per i diritti umani italo-marocchina, da giorni sta seguendo con i migranti la rotta balcanica. Dopo aver prestato loro soccorso nei campi profughi greci, ha deciso di farsi corpo che affianca altri corpi, per capire da dentro cosa significhi tentare la via della salvezza, The Game, e subire le vessazioni di un Occidente sempre più al tramonto.

Il suo, di corpo, è esile, eppure fortissimo, messo alla prova duramente, perché non si può condividere a pieno una condizione se non sulla propria pelle. Il rischio è grande, ma vale la pena correrlo, se questo gesto può servire a mantenere desta l’attenzione e preservare quella scintilla di umanità che alberga in ognuno di noi. Nawal fa pensare alla filosofa Simone Weil, la quale assunse su di sé la condizione operaia nel modo più onesto di farlo, diventando a sua volta operaia. I suoi scritti sono quindi lucidissimi, puliti, affidabili, e il rispetto che si prova nel leggerli è enorme. Da dentro, al fianco di chi soffre, le cose acquistano tutto un altro senso. Quelle parole, pronunciate da Nawal mentre camminava lungo una rotaia, sono inappellabili: tutti siamo messi al muro, chi non ha fatto nulla, chi non ha fatto abbastanza. Il paesaggio circostante è innevato, eppure sembra un inferno, perde tutta la sua oggettiva bellezza. Lei comunica attraverso i social ed è disponibile a parlarti, se la contatti. Ogni tanto scrive che non potrà collegarsi per qualche giorno, e allora capisci che le cose non si mettono bene. Poi ricompare, più attiva di prima, e ti chiede di aiutare i migranti facendo loro una ricarica telefonica, inviando un contributo, oppure ti fa sapere che hanno bisogno di indumenti, cibo, scarpe. Dovendo attraversare luoghi inospitali e montuosi, soprattutto in inverno, cerca piccoli consigli per ridurre al minimo i danni collaterali. A questo punto, la sua “famiglia” virtuale, come ama definirla, interviene consigliando la tipologia di scarponi, di portare con sé coltellino o forbici per tagliare rametti e spine, facendo attenzione a memorizzare il posto, nell’eventualità di dover tornare indietro, di avere con sé acqua in borraccia, cibo energetico, accendino, una torcia e buste vuote, quelle nere della spazzatura possono servire ai migranti per ripararsi dalla pioggia e dal vento.

L’anima gela

Nawal nel cammino non è sola, ci sono i suoi compagni e i migranti, profughi di guerra, che avrebbero diritto alla protezione internazionale, “ma non li vuole nessuno”, sottolinea. Quando fa sosta, risponde ai messaggi e documenta ogni cosa con foto e video. Piegata su se stessa sulla rotaia, a volte, la sera, finalmente si lascia andare: “Tutti i binari portano verso Auschwitz. Quando arriva la notte, l’anima gela. Le labbra smettono di pronunciare parole, vibrano… A quest’ora tutto tace. Non senti più il bisogno di urlare il tuo dolore al mondo, perché per il momento tutti dormono, e tu devi tentare di trovare la posizione migliore per riscaldarti, mentre la tua anima continua a gelare”.

Delinquenti di frontiera, trafficanti di merce umana, i cani, la polizia, e poi la fame, la sete, il gelo, la stanchezza, queste sono per i profughi le prime avvisaglie di un’Europa che li respinge. “La chiusura delle frontiere non favorisce la legalità. Servono corridoi umanitari che accompagnino milioni di essere umani fuori dalle guerre che abbiamo generato”, afferma Nawal. E intanto cammina, “100 passi contro tutte le mafie”, dice, verso la libertà. La pandemia ha peggiorato le cose, adesso l’esclusione sembra quasi d’obbligo e l’isolamento un imperativo. Qualcuno di loro manifesta i sintomi del covid, ma scongiurare il contagio è difficile. Ed è difficile anche distinguere questo virus da una normale influenza: impossibile non ammalarsi, quando si rimane tutto il giorno all’aperto, sotto la pioggia o la neve, con diversi gradi sotto zero, e si trascorre la notte in ricoveri di fortuna o sotto una sottospecie di tenda. In questa condizione, simile a quella in cui vivono i profughi di ogni latitudine, si riesce comunque a trovare momenti di convivialità, quando, ad esempio, ci si prepara a consumare un pasto frugale, una scatoletta di carne o tonno, delle aringhe affumicate, su una busta di plastica nera per tovaglia, attorno a un fuoco, insieme, a condividere, uno stretto all’altro, quegli istanti. Nawal Soufista prestando il suo corpo in questa missione, lo porta allo stremo, sapendo che la pietà da sola non è sufficiente. “La capacità di prestare attenzione a uno sventurato è cosa rarissima, difficilissima; è quasi un miracolo, è un miracolo”, scriveva nel secolo scorso Simone Weil. Oggi, oltre al miracolo compiuto dai singoli, occorrono azioni compiute dalle istituzioni ai diversi livelli, basterebbe anche solo applicare i regolamenti e le convenzioni. Il cammino che fa Nawal, quindi, la sua denuncia, sono il nostro cammino e la nostra denuncia. Bisogna decidersi, insomma, tutti insieme, da che parte stare.

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