domenica 10 gennaio 2021

Friedrich Dürrenmatt, i cento anni del Kafka svizzero tra letteratura, pittura e cinema - Eusebio Ciccotti

 


Ha proiettato un prisma di luci e ombre sulle vicende quotidiane del nostro novecento esistenzialista. Abile nel romanzo come nel testo teatrale e nella pièce radiofonica, lo svizzero Friedrich Dürrenmatt (5 gennaio 1921 – 14 dicembre 1990), ci ha lasciato una poetica tra assurdo quotidiano e giallo filosofico, in cui sovente la giustizia, asfissiata dalla logica, fa fatica a trovare la luce nel contraddittorio mondo degli uomini. E se talvolta pare che il ragionare stia diradando le nebbie ecco che inaspettatamente la logica va in blocco: è arrivato, inatteso, il caso, come poi nel cinema di Krzysztof Kieślowski, a risolvere tutto con un finale accettabile ma illogico (La promessa, romanzo del 1957).

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Dalla contestazione al successo

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Ad una gioventù affidata alla contestazione, con alcol e droghe, e ad un forte impegno politico, farà seguito, per il giovane intellettuale svizzero, una brillante laurea in filosofia, il ritiro dalla scena pubblica, e la prorompente passione per la scrittura, con cui riuscirà a mantenersi. Due romanzi ricevono una accoglienza entusiasta: Il giudice e il suo boia (1950) e La promessa (1957). Anche le sue pièces teatrali s’impongono tra il pubblico e la critica, tanto da divenire uno degli autori più rappresentati sin negli anni sessanta. I suoi testi (La panneI fisiciOperazione Vega, ed altri) che raccontano vicende logicamente illogiche lo hanno fatto porre, dallo studioso Martin Esslin, accanto ai grandi autori del teatro dell’assurdo (Samuel BeckettHarold PinterEugène IonescoArthur Adamov). Trasposizioni dei suoi romanzi in film, a partire dagli anni settanta, lo hanno reso ancora più conosciuto tra il pubblico. A completare il felice eclettismo di Dürrenmatt va aggiunto che è stato pittore e, occasionalmente, sceneggiatore e attore di cinema.

Il giudice e il suo boia (Der Richter und sein Henker, 1950): dal romanzo al film

Se il “teatro dell’assurdo”, come lo definì Martin Esslin nel 1962, si fa iniziare con l’opera teatrale La cantatrice calva (1950) di Eugène Ionesco, tale primato, a nostro parere, andrebbe condiviso, sul versante della “narrativa dell’assurdo”, con il romanzo Der Richter und sein Henker (1950) di Dürrenmatt: un romanzo pienamente kafkiano, nel senso più letterale del termine. Scovare l’assassino di un giovane vicecommissario Schmidt, sarà il compito del vecchio e malato commissario Barlach. Investigatore che, nel film-tv Rai del 1972, Il giudice e il suo boia (Daniele D’Anza) è un calmo e raziocinante Paolo Stoppa (memore della recitazione in Il Gattopardo, 1963, di Luchino Visconti, 1963). Il film accolto positivamente dal pubblico di allora, oggi, naturalmente, mostra i limiti delle molte riprese in interni (il budget degli “originali televisivi” era limitato). Il racconto, si fa, però, più plastico negli esterni, Berna e la provincia montana, grazie al ricorso a panoramiche e zoom, come l’estetica del decennio richiedeva.

Decisamente più cinematografica e coinvolgente nel ritmo (anche grazie al colore e ai brevi esterni girati in Turchia) è Il giudice e il suo boia (1975) di Maximilian Schell. Qui Barlach è un eccellente, introverso e aristotelico, Martin Ritt (anche a lui si ispirerà Jack Nicholson); il giovane poliziotto assassino è l’antipatico Jon Voigt, mentre la fidanzata vedova di Schmidt è Jacqueline Bisset, disinvolta nell’elaborare il lutto in camera da letto con l’assassino del suo uomo. La sceneggiatura è firmata anche da Friedrich Dürrenmatt: egli si riserva una bella scena. È il professore di storia medievale presso cui si reca il commissario Barlach per le sue indagini. Sta giocando a scacchi da solo, con “un altro da me che si sente superiore a me”. Nello studio del professore (è quello di Dürrenmatt), alle pareti si possono ammirare suoi grandi dipinti espressionisti.

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La promessa (Das Versprechen, 1957): dal romanzo al cinema

Das Veshprechen irrompe sulla scena della letteratura di lingua tedesca due anni prima di Il tamburo di latta del berlinese Günther Grass, ma non ottenne la stessa eco. Solo anni dopo il romanzo di Dürrenmatt verrà considerato un capolavoro, alla stregua del romanzo di Grass, pur essendo confinato nel sottogenere del “giallo esistenzialista”. Alla fine degli anni settanta contribuisce a una rivalutazione piena del testo il film-tv italiano La promessa (1979) di Alberto Negrin, sotto silenzio il primo adattamento, Il mostro di Mägendord (1958), del bravo Ladislavo Vajda (quello di Marcellino pane e vino, 1955). Con la terza trasposizione, piuttosto libera, firmata da Sean Penn (The Pledge, 2001), con Jack Nicholson, le copie disponibili in libreria del romanzo andranno a ruba in pochi giorni. Il film di Negrin, fedele al romanzo, gode di un adattamento letterario sincopato nei tempi a firma dello sceneggiatore Gianfranco Calligarich.

Negrin alterna esterni ed interni con i giusti tempi; la ricostruzione della trama nel paesaggio alpino trasporta lo spettatore tra i boschi, nelle locande di montagna, e contestualizza il passato e il presente con accenni preziosi tramite comparse, figuranti e la musica. Eccellente la direzione della bambina, Anna Maria, l’eventuale vittima del maniaco, soprattutto quando è pressata dall’improvviso interrogatorio di Matthäi e del procuratore. La promessa deve la sua felice trasposizione soprattutto alla superba prova di Rossano Brazzi. Restituisce in pieno il personaggio profondo, riflessivo e misterioso, creato da Dürrenmatt. Ci pare che Sean Penn, nella sua versione, abbia tenuto conto del film di Negrin. Infatti, Nicholson mantiene lo sguardo indagatore e, a volte, perduto nel vuoto, di Brazzi; purtroppo, in alcuni momenti, in accordo con lo stile recitativo hollywoodiano, l’attore accentua il lato psicologico a discapito di quello esistenziale. Avremmo voluto vederci, nella parte, Clint Eastwood, che ha vissuto in Europa.

L’assurdo del teatro

L’assurdo teatrale di Dürrenmat, come anticipato, di altissima resa narrativa e scenica, da esser paragonato al teatro di Beckett, Ionesco e Pinter, sarà messo in scena in diversi paesi. Qui ci limitiamo a ricordare I fisici (Die fisiker, 1963) e In panne (1956, prima racconto e poi radiodramma). Nel primo dramma abbiamo la storia di Jobam Möbius, fisico, che si rifiuta di rivelare la sua scoperta a chi ne farebbe un cattivo uso, e, fingendosi matto, si fa ricoverare in un manicomio. Ma lì è inseguito, segretamente, da due spie, anch’esse si fingono folli: qui c’è tutto il dadaismo svizzero e il surrealismo di un Luis Buñuel. Esilarante la scena in cui Jobam Möbius riceve in manicomio la moglie: la donna gli presenta il suo nuovo marito, un pastore, felice di allevare i tre figli di Möbius, più i suoi tre, senza che Möbius fosse a conoscenza di aver subito un divorzio.

Nella pièce La panne, Traps, un agente di vendita in viaggio di lavoro, ha un problema con l’auto, mentre attraversa un villaggio alpino. Deve lasciare la vettura. Qualcuno gli propone di accompagnarlo alla stazione, ma decide di prendersi un po’ di svago, e accetta l’ospitalità in una signorile casa da parte di un rispettabile anziano proprietario. Più tardi sopraggiungono due amici dell’ospite: i tre, giudici in pensione, giocano a inscenare processi storici (a Gesù, a Marx, ecc.). La loro teoria è dimostrare, attraverso un logico dibattimento, che tutti siamo colpevoli. Così, per gioco, Traps (in inglese significa “trappole”) si ritrova a recitare l’imputato, sicuro della propria innocenza. Pian piano, riconoscerà una colpa morale nei confronti del suo capo, e, andato nella sua stanza, anche annebbiato dall’alcol, si impiccherà. Il tema squisitamente kafkiano è reso con perfetta originalità nella trama e nei tempi narrativi. Ettore Scola, con Alberto Sordi, nei panni del malcapitato, ne trasse un film, purtroppo non all’altezza del testo dürrenmattiano: La più bella serata della mia vita (1972).

da qui



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