venerdì 5 aprile 2024

Domande di oggi sul sindacalismo di base a partire da oltre 30 anni addietro - Cosimo Scarinzi

 

 

Credo sia necessario, quando ci si interroga sul sindacalismo di base oggi, tenere presente il fatto che si tratta di un assieme di organizzazioni, di militanti, di lavoratrici e lavoratori che esiste ormai dall’inizio degli anni ’90 e di una vicenda per molti versi complicata.

Ovviamente il sindacalismo di base non sorge dal nulla, già negli anni precedenti vi erano alcune organizzazioni sindacali alla sinistra dei sindacati istituzionali e, soprattutto, vi sono stati negli anni ’80 importanti movimenti di massa fuori dal controllo di questi sindacati nella scuola, nei trasporti, nella sanità; ma un’ipotesi consistente di sindacalismo alternativo data, appunto, dall’inizio degli anni ’90.

È bene domandarsi quali siano le condizioni sociali e politiche che determinano questa situazione.

In primo luogo si deve partire da quello che è stato definito la fine del compromesso socialdemocratico e cioè dall’assieme di privatizzazioni, taglio dei servizi e quindi del salario indiretto, taglio delle pensioni, accrescimento del peso del lavoro precario.

Questa deriva rendeva credibile l’ipotesi che l’offensiva del capitale avrebbe provocato una ripresa della lotta di classe a livello delle condizioni che le lavoratrici e i lavoratori vivevano. Nei fatti la crisi del capitale ha determinato, a livello planetario, risposte che hanno, quanto meno, spostato in avanti le contraddizioni rendendole, nello stesso tempo, più radicali come rileva Riccardo Bellofiore in “La caduta del saggio di profitto in Paul Mattick” (1).

In secondo luogo la scelta dei sindacati istituzionali di accettare lo scambio fra peggioramento delle condizioni della classe e salvaguardia del loro diritto di gestire la contrattazione e dei finanziamenti che ricevevano, e ricevono, dal padronato e dal governo suscitava tensioni fra i lavoratori, i militanti sindacali, parte degli stessi gruppi dirigenti, culminate con la cosiddetta “settimana dei bulloni” (2).

Di conseguenza, in realtà, entrambe le ipotesi si sono realizzate in misura, a essere generosi, decisamente limitata. Di fronte alla pesantezza dell’offensiva capitalistica e alla necessità per ribaltare la situazione di un livello di scontro di straordinaria radicalità, la reazione della classe in particolare in Italia è stata, anche nei momenti più alti, come gli scioperi contro la riforma delle pensioni, assolutamente limitata e difensiva.

Per certi versi si potrebbe sostenere che il livello di integrazione sociale della classe ne aveva frenato la capacità di iniziativa autonoma.

Per quel che riguarda il quadro politico sindacale è sin evidente che la costruzione di un vero e proprio sindacato richiedeva una massa critica di militanti, quadri, organizzatori, dotati di esperienza e fortemente radicati nei posti di lavoro.

Ed è proprio dopo la settimana dei bulloni che questa condizione non si realizza.

La gran parte dei militanti radicati nei posti di lavoro e, in particolare, nelle fabbriche aderisce alla FIOM CGIL, molti vengono dall’esperienza dei gruppi della nuova sinistra e dei movimenti e delle lotte degli anni ’70, sono soggettivamente radicali e fortemente ostili alle scelte della burocrazia sindacale e lo hanno dimostrato con la dura contestazione alle loro dirigenze. Nello stesso tempo l’ipotesi di una rottura organizzativa con le organizzazioni a cui appartengono, in particolare alla FIOM CGIL non li convince.

Si tratta di un’attitudine comprensibile, una cosa è fare una battaglia politica contro le decisioni del proprio gruppo dirigente, un’altra è costruire un’organizzazione, un’impresa complessa e piena di difficoltà a cui, con ogni evidenza non si sentono attrezzati.

Per di più, di regola, i militanti della sinistra CGIL si sono formati in una cultura politica che prevede una divisione fra:

sfera sindacale in cui centrale è l’unità sindacale ed è normale il dare per scontato che il sindacato tende alla mediazione;

sfera politica in cui le posizioni radicali, laddove vi siano, sono appannaggio dei gruppi della sinistra, appunto, radicale.

D’altro canto, anche ma non principalmente a causa della scelta di molti militanti di aderire al sindacalismo di base, nei decenni seguenti la sinistra CGIL si ridurrà a un ruolo marginale schiacciata da un apparato solido e, per un verso, impermeabile alle pressioni della base e capace, all’occorrenza, di svolte “estremiste” tali da recuperare lo scontento di settori di lavoratori che pure, a più riprese, emerge.

Una riprova a contrario di quanto affermo è che l’unica esperienza di rottura organizzativa consistente con il sindacalismo istituzionale si dà nella FIM CISL milanese e lombarda che in larga parte era uscita dall’organizzazione a cui apparteneva dando vita alla FLMUniti che sarà uno dei principali gruppi che fonderanno la Confederazione Unitaria di Base.

Vi è nella scelta del gruppo che da vita a FLMUniti un mix di continuità e discontinuità della sua cultura politica, per un verso il coraggio di fare una scelta difficile che io stesso, poco prima, ritenevo improbabile e, per l’altro, il riferimento a una visione del sindacato come soggetto autonomo assente o debole nella sinistra CGIL.

Con la CUB si ha un tentativo di creare un sindacato caratterizzato da una forte e rivendicata autonomia dal padronato e dal governo, il che se vogliamo è ovvio, ma anche dai partiti e, in genere, dai soggetti politici che si vogliono espressione del movimento operaio.

In concreto un modo di proporsi volto a favorire un’aggregazione larga, cosa che, entro certi limiti, si dà ma che comporterà negli anni tensioni interne, in particolare fra l’area di provenienza FIM e quella delle Rappresentanze Sindacali di Base, un sindacato preesistente alla CUB, che porteranno in seguito all’uscita di RdB dalla CUB e alla nascita di USB.

D’altro canto, il fatto che non vi sia UN sindacato alternativo talmente forte e radicato da determinare una deriva centripeta favorisce la scelta di altri gruppi di militanti di creare organizzazioni caratterizzate da ipotesi politiche e sindacali diverse.

Ricostruire una vicenda decennale di nascita di nuovi soggetti, scissioni e aggregazioni eccede l’intento di questo testo.

Basta rilevare che l’esistenza, a seconda dei periodi, di tre o quattro sindacati di una qualche consistenza e di una piccola galassia di organizzazioni a base locale o, comunque, di dimensioni modestissime è un fattore di debolezza sul terreno propriamente sindacale che peserà sulla credibilità dell’intero sindacalismo di base.

Torniamo alle domande poste in premessa.

In primo luogo non vi è stato alcun ciclo di lotte di dimensioni e durata tale da mettere in crisi, per un verso, il padronato e il governo e, per l’altro, l’apparato dei sindacati istituzionali.

Certamente vi sono state mobilitazioni importanti ma su singoli temi o di singole categorie e, in particolare, nell’industria raramente si è andati, e si va, oltre le lotte di difesa degli operai delle aziende in crisi.

Basta pensare alle importanti mobilitazioni delle lavoratrici e dei lavoratori della scuola, alle prime lotte dei driver, a quelle dei lavoratori in gran parte immigrati della logistica ma, con la parziale eccezione della logistica in cui si sviluppa il SI Cobas e, in misura minore, anche AdL Cobas, CUB e USB, non hanno avuto un impatto tale da ottenere vittorie importanti e da favorire lo sviluppo del sindacalismo di base.

Di conseguenza, mentre la generazione militante formatasi negli anni ’70 è andata in gran parte in pensione, non si è formata in misura adeguata una nuova generazione militante.

Ovviamente non mancano giovani compagne e compagni spesso capaci e generosi ma, per non dilungarci, limitiamoci a rilevare che non bastano.

Per chiudere su questi punti, ritengo che un giudizio liquidatorio sia sbagliato e ingeneroso. Ha svolto un ruolo importante in diverse lotte altrettanto importanti, ha condotto iniziative significative in rapporto con importanti movimenti sociali quali quello NO TAV, Non Una di Meno, contro la spesa militare ecc.. Soprattutto ha mantenuto un rapporto vivo con settori della nostra classe, il problema è che, con ogni evidenza, ciò non basta e che o si troveranno nuove ed efficaci modalità di azione e di organizzazione, o il rischio è la routine.

Provo adesso ad aggiungere alcune schematiche considerazioni su uno specifico problema che molte compagne e molti compagni si pongono e pongono e cioè su in che misura il sindacalismo di base sia effettivamente di base.

Una serie di fatti è assolutamente evidente e proverò a riassumerli in una forma, per certi versi, brutale e persino eccessiva:

1. i militanti del sindacalismo alternativo, di norma, non hanno affatto elaborato un’identità comparabile a quella dei sindacalisti d’azione diretta dell’inizio del secolo scorso, in particolare per quel che riguarda la critica del parlamentarismo e del ceto politico. Si potrebbe far rilevare che lo stesso sindacalismo d’azione diretta era, da questo punto di vista, contraddittorio ma è bene tener presente che la visione generale della questione sociale che caratterizza la parte più consistente dei “sindacalisti alternativi” è, al massimo, welfarista radicale e che la rottura con i sindacati istituzionali verte principalmente sul fatto che questi ultimi sono completamente subalterni alle politiche statali e padronali;

2. le organizzazioni sindacali alternative che hanno tenuto bene e sono cresciute si caratterizzano per la presenza di un numero, certo limitato in assoluto e in proporzione rispetto ai sindacati istituzionali, ma discreto, di funzionari e distaccati. Vi è, in altri termini, una piccola ma consolidata burocrazia che si è stabilizzata e consolidata nel tempo. Uso, in questo caso, il termine burocrazia non in un’accezione polemica, ma per indicare un dato di fatto e un gruppo sociale i cui membri possono essere persone di grande onestà e capacità di lavoro, ma che hanno, inevitabilmente, un modo di affrontare i problemi che parte, in primo luogo, dalla necessità di crescita organizzativa;

3. la stessa attività quotidiana di tutela individuale e collettiva che i sindacati alternativi garantiscono non potrebbe esservi senza questo piccolo apparato. I lavoratori che si organizzano con un sindacato, con qualsiasi sindacato, si attendono, almeno, la tutela legale, la consulenza sul salario, le tasse, la previdenza, la malattia ecc. e questo lavoro, superata una certa consistenza, richiede competenze specialistiche e una disponibilità di tempo che non è facile richiedere a militanti che spendono la loro giornata in produzione. Naturalmente quanto dico non esclude che molta di questa attività possa essere garantita da lavoratori e delegati aziendali ma il volontariato in primo luogo deve esserci e deve caratterizzarsi per una certa competenza e, in secondo luogo, ha dei limiti;

4. l’apparato tende a controllare l’organizzazione che lo ha prodotto. I suoi membri possono dedicarsi a tempo pieno al lavoro sindacale, conoscono la situazione, sono in relazione con i collettivi aziendali, possono orientare la discussione e le decisioni, posseggono informazioni che non sono a disposizione degli iscritti, che per la verità non sono di regola nemmeno interessati ad averle, e dei militanti.

Ovviamente non intendo sostenere che “questa è la realtà e che c’è poco da fare”, al contrario credo che su quest’ordine di questioni vada avviato una riflessione e un’inchiesta a partire dalla nostra concreta esperienza e che proprio Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe debba e possa promuovere questa riflessione e questa inchiesta.


Note

(1) La risposta del capitale alla crisi degli anni Settanta si è mossa su due gambe. Da un lato, la frantumazione del lavoro, cioè la precarizzazione nel mercato e nel processo di lavoro, la concorrenza aggressiva dei global player che determina sovra-capacità, la centralizzazione senza concentrazione, il trasformarsi della struttura produttiva verso un capitalismo di imprese modulari articolate in rete. È un mondo di catene transnazionali della produzione, di delocalizzazioni e in-house-outsourcing, di lavoro migrante e sempre più «femminile».

Dall’altro lato, abbiamo la finanziarizzazione. Favorita dalla globalizzazione dei capitali e dai cambi flessibili, e dalla conseguente incertezza, il rinnovato primato della finanza ha preso la forma di un money manager capitalism, di un «capitalismo dei fondi», che ha fatto esplodere il debito privato, e in particolare il debito al consumo, grazie a una inflazione dei prezzi delle attività finanziarie…. Questa nuova finanziarizzazione altro non è che una autentica «sussunzione reale del lavoro alla finanza» (ai mercati finanziari e alle banche). Essa non solo ha incluso le «famiglie» in modo subalterno. Essa ha anche, da un lato, accelerato la decostruzione del lavoro per mille vie, incidendo potentemente sui processi capitalistici di lavoro, dall’altro stimolato una domanda effettiva manovrata politicamente. Una sorta di paradossale «keynesismo privatizzato» di natura finanziaria.

Il capitale fittizio ha avuto conseguenze tutto meno che fittizie. Ha approfondito lo sfruttamento nei luoghi di lavoro, con una simbiosi di estrazione di plusvalore relativo e assoluto; e ha creato le condizioni della sua realizzazione sul mercato. Un mondo che non è compreso dallo stagnazionismo sottoconsumistico, o dalla caduta del saggio del profitto nei suoi termini tradizionali. La crisi possibile è stata a lungo posposta grazie a politiche monetarie di grande attivismo (la banca centrale come prestatrice «di prima istanza»), che hanno innescato a ripetizione bolle speculative nei mercati finanziari o sugli immobili. La crescita del valore delle «attività» ha spinto verso l’alto la domanda interna nell’area del capitalismo anglosassone grazie al consumo indebitato, consentendo ad altre aree di praticare politiche «neo-mercantiliste», cioè di crescere grazie al traino delle esportazioni nette. Il mondo del lavoro è stato ovunque consegnato all’insicurezza, su di lui si sono scaricati rischi e margini di aggiustamento. Un meccanismo dall’instabilità repressa, e un capitalismo insostenibile, in cui è riemersa in forme nuove e violente la tendenza alla crisi sistemica del capitale.

A ben vedere, prima inclusi dal neoliberismo e poi messi a rischio dalla sua crisi, sono stati, e sono, non soltanto il consumo e il risparmio. Sono stati anche, e sono, in un elenco tutto meno che esaustivo, abitazioni, istruzione, pensioni, sanità, lavoro di cura. Prosegue intanto l’abbattimento del salario e la dilatazione del tempo di lavoro, l’aggressione al corpo e alla vita dei lavoratori e delle lavoratrici, sino alla spoliazione della stessa natura. In una parola, in gioco sono ormai le condizioni di esistenza e riproduzione degli esseri umani nella loro integralità…..

(2) A settembre 1992 Amato torna all’attacco con una finanziaria da 93mila miliardi di lire e un pesante attacco alle pensioni. Nelle piazze i lavoratori esprimono la loro rabbia contro Amato, ma anche contro l’accordo di luglio.

Trentin viene pesantemente contestato a Firenze, il 23 è il turno della UIL a Milano, il 24 della CISL a Napoli. È impossibile concludere i comizi: fischi e grida prevalgono, dalla folla piovono bulloni. La contestazione assume una tale portata che la stampa battezza quel periodo “la stagione dei bulloni”. I dirigenti sindacali parlano protetti dal servizio d’ordine munito di scudi di plexiglass. Stampa e mass-media, insieme ai vertici sindacali e ai dirigenti del Partito Democratico della Sinistra, promuovono una campagna che definisce i contestatori un manipolo di provocatori. L’Unità del 23 settembre titola “L’autonomia assalta Trentin, ma 150mila lo applaudono”. La realtà è che i lavoratori non solo tollerano chi lancia i bulloni, ma fanno di tutto per impedire ai dirigenti di concludere i comizi a suon di fischi. L’onda di contestazioni cresce di giorno in giorno, per tentare di arginarla e recuperare un minimo di credibilità viene convocato uno sciopero nazionale di 4 ore per il 13 ottobre. La storia si ripete, gli scioperi sono ancora più partecipati: Milano 150mila, 100mila a Bologna e Napoli, ancora contestazioni.

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