domenica 14 gennaio 2018

Takoua Ben Mohamed, fumettista







QUI tante piccole storie disegnate da Takoua


Intervista di  Margherita Bordino

Tunisina di nascita, romana di adozione. Il suo nome è Takoua Ben Mohamed e di mestiere fa la graphic journalist. Ha scelto il fumetto per raccontare e comunicare. Per parlare di integrazione, cittadinanza, discriminazione, dialogo e culture. Sì, non cultura, ma al plurale, culture. Perché è figlia sia della bianca sabbia di Douz, sia dei quartieri periferici di Tor Bella Monaca e Centocelle. La sua storia e la lotta alla civiltà la custodisce e divulga tutti i giorni attraverso quello che lei stessa chiama il “fumetto intercultura”, fondato a soli 14 anni.
“Non esistono due culture che non hanno niente in comune, proprio sui punti in comune dobbiamo lavorare per costruire il dialogo e la convivenza”. È questa la frase che introduce l’utente al sito di Takoua Ben Mohamed. Classe 1991, in Italia sin dall’età di otto anni, indossa il velo per scelta. Ecco che cosa ci ha raccontato.
Cosa ricordi della Tunisia? Sei più tornata a Douz?
In Tunisia ho vissuto la mia prima infanzia, fino agli otto anni, poi nel 1999 mi sono trasferita con i miei fratelli e mia madre per raggiungere e conoscere mio padre che era già a Roma da qualche anno perché esiliato politico, fuggito dalla dittatura di Ben Alì nel 1991 quando io ero appena nata. Ho tanti ricordi della Tunisia, belli ma soprattutto brutti. La dittatura purtroppo ti nega ogni libertà, perseguita e tortura anche i familiari degli oppositori. Ricordo bene che venivano ogni giorno per interrogare mia madre e perquisivano casa nostra mettendola in disordine per sapere di un uomo che ormai era fuggito da anni. Ricordo mio zio che era stato incarcerato nel 1991, i segni di tortura sul suo corpo che lui nascondeva dietro a un sorriso e qualche barzelletta per far divertire noi piccoli in quel periodo buio. Ricordo il giorno in cui lo hanno fatto uscire dal carcere, nel 2000, morto sotto tortura e malato di cancro, privato di ogni cura medica e di pulizia del carcere. Ricordo i giorni in cui le persone ci guardavano e ci evitavano per non rischiare fastidi da parte del governo di allora.
Ricordi altro?
Ho anche ricordi belli: la mia famiglia, i miei cugini e i miei nonni che si son presi cura di noi per permetterci di andare a scuola e studiare, le persone care che ci facevano sorridere nonostante le sofferenze subite. Ricordo il deserto dietro casa, le palme su cui mi arrampicavo come Mowgli, i profumi di gelsomino e il buon dattero. Sono potuta tornare nella mia patria solo nel 2011, dopo la caduta della dittatura di Ben Alì. Non riconoscevo parenti o amici. Dopo dodici anni di esilio in Italia mi era solo rimasto qualche vago ricordo della casa e del deserto. Solo le brutte esperienze non si dimenticano mai. Nel 2011, quando sono entrata nella casa dove sono nata, ormai svaligiata dai ladri e distrutta, c’erano dei disegni impressi sul muro che avevo fatto da bambina, forse l’unica cosa che né i ladri né la dittatura hanno potuto cancellare.
A otto anni hai visto tuo padre per la prima volta. Mi racconti il vostro incontro?
Con tutta la sincerità, è stato traumatico. Non avendo mai visto una sua foto né sentito la sua voce, non sapevo cosa mi sarei trovata davanti. È stato traumatico perché ho incontrato un uomo bianchissimo con gli occhi verdi, che diceva di essere mio padre. Io, essendo mulatta come mamma, non ci credevo. Dopo ho fatto l’abitudine al nostro diverso colore di pelle, e non è stato difficile costruire il nostro rapporto, anche grazie a mamma che ha sempre parlato bene di papà e lo ha fatto amare a noi figli anche senza vederlo. Una donna di grande forza mia madre.
Cosa ti fa sentire a casa di questa grande Roma?
È la città dove sono cresciuta, che ha forgiato il mio carattere, il mio modo di pensare. La città dove ho studiato, dove ho fatto i capricci, dove ho costruito la mia carriera. La sento casa. Quando sono a Roma gli altri mi danno della tunisina, e quando vado in Tunisia mi danno dell’italiana. A Roma invece ho potuto costruire la mia identità interculturale, e non è solo romana o tunisina…
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intervista di Roberto Loddo
23 anni, inchiostro e velo: Takoua Ben Mohamed è una graphic journalist e sceneggiatrice, tunisina di nascita ma cresciuta a Roma, disegna e scrive, anche con ironia, storie a fumetti. I suoi temi spaziano dalla primavera araba al ruolo delle donne rivoluzionarie durante la dittatura di Ben Alì, passando per la lotta all’islamofobia, al razzismo e alla difesa dei diritti umani nei paesi in guerra.
Specializzanda in accademia di cinema d’animazione alla Nemo Academy of digital arts di Firenze, Takoua Ben Mohamed sarà a Cagliari per la mostra #‎WomanStory all’ExArt dal 15 al 24 ottobre, una mostra inserita all’interno di Nues 2015 fumetti e cartoni nel mediterraneo in collaborazione con Progetto SPRAR “Emilio Lussu” della Provincia di Cagliari e gestito dall’Associazione Cooperazione e Confronto della Comunità La Collina, dall AssociazioneEfys Onlus, da Typos Studio Editoriale. Oggetto della sua mostra sarà il fumetto intercultura, strumento di promozione del dialogo culturale che ha fondato all’età di 14 anni. Un progetto che nel corso degli anni ha avuto un grade successo mediatico, in quanto è stato presentato al TEDx a Matera, Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, Camera dei Deputati, Next Repubblica delle idee, Festival Ottobre Africano, Colleggio Universitario di Villa Nazareth e molte università italiane e argentine, ricevendo un riconoscimento ufficiale anche della Repubblica Tunisina.
Esiste una galassia di oganizzazioni umanitarie impegnate ogni giorno in opere di sensibilizzazione e informazione contro i pregiudizi e il razzismo. È curioso che tu lo faccia attraverso la tua immaginazione. È davvero possibile combattere gli stereotipi a colpi di matita?
Sai, anche io pensavo che non fosse possibile all’inizio. Quando ho iniziato questo percorso durante la mia adolescenza non sapevo dove mi avrebbe portata, ma l’ho intrapreso comunque, per passione e per attivismo in associazioni umanitarie, giovanili, culturali. A 14 anni ho trasformato il mio attivismo nel “fumetto intercultura” che mi ha portata oggi a credere più che mai che sì, è possibile combattere gli stereotipi a colpi di matita.
Una matita che attraverso la ragazza con il velo ha prodotto una forma giornalismo partecipativo che vede la partecipazione attiva dei tuoi lettori.
il graphic journalism in particolar modo, è una forma di citizen journalism, che racconta la realtà attraverso una forma innovativa di giornalismo dell’arte visiva, con un linguaggio semplice e diretto, che porta il lettore ad avere più empatia tra i protagonisti e la storia del fumetto, e quindi di immedesimarsi con il personaggio principale, nel mio caso la ragazza con il velo (o altri personaggi secondari). Le parole della ragazza con il velo hanno una narrazione diretta, lei “parla attraverso ciò che dice” e non attraverso “ciò che viene detto su di lei”. A tutti piacciono i fumetti, un linguaggio universale che mette in connessione culture, lingue, fasce d’età e ideologie diverse. I fumetti restano nel tempo, talvolta più di un articolo di giornale…

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