domenica 19 maggio 2024

La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati - Ilan Pappe

  

Proprio questi giorni Ilan Pappe è stato fermato e interrogato dall’FBI, all’aeroporto di Chicago(leggi qui).

A lui è andata meglio che a Robert Fico, Ilan Pappe è uscito dall’aeroporto camminando sulle sue gambe.

 

Ho letto recentemente La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, pubblicato qualche anno fa.

Leggerlo durante il genocidio di Gaza, dopo il 7 ottobre 2023, è un’esperienza a tratti insostenibile, quando si avvera tutto quello che lo storico aveva già previsto e scritto.

È Ilan Pappe che parla di genocidio incrementale, Lo stato d’Israele nasce con lo scopo della pulizia etnica nel suo DNA, ma i palestinesi sono testardi, non se ne vanno, e allora Israele ruba quante più terre palestinesi, possibili, giorno dopo giorno. I territori occupati diventano la più grande prigione a cielo aperto del mondo, senza trascurare di costruire e riempire prigioni di tortura dove mettere gli ostaggi palestinesi, molti per uno sguardo, un’idea, una pietra, uno slogan.

Nel libro si spiegano le strategie di pulizia etnica, colonizzazione, genocidio incrementale; essendo lo stato d'Israele uno stato razzista e coloniale la miglior strategia da usare dal 1948 in poi è quella degli odiati (un po’)/amati (molto) britannici, che di colonialismo e razzismo sono maledetti maestri. La strategia è quella di asfissiare i palestinesi, togliergli l’acqua (non solo in senso metaforico), dividerli, trattarli peggio degli schiavi, senza nessun diritto civile, uccidendo (o rendendo inoffensivo) qualsiasi Spartaco appaia all’orizzonte.

E poi c’è l’istituto coloniale della detenzione amministrativa, di segno anglo-sionista, una misura al di fuori della decenza umana, ma va bene per distruggere i palestinesi.

“Non ci sono civili innocenti a Gaza", ha detto il 13 ottobre 2024 il presidente di Israele, Isaac Herzog, ecco la sintesi del genocidio, di un paese guidato da assassini senza pietà.

Per quanto doloroso, non si può fare a meno di leggere il libro di Ilan Pappe.




L’importanza delle parole: il ‘genocidio incrementale’ dei palestinesi continua - Ilan Pappé

Sto scrivendo questo editoriale il 10 marzo, 2023. In questo giorno, settantacinque anni fa, il comando militare sionista divulgò il Piano Dalet – o Piano D – che, tra le altre disposizioni, istruiva le forze sioniste, che erano in procinto di occupare centinaia di villaggi palestinesi e diverse città e quartieri della Palestina storica, a:

“ Distruggere i villaggi (dandoli alle fiamme, facendoli saltare in aria e, poi, piazzando mine sotto le macerie), soprattutto in quei centri abitati che sono difficili da controllare in modo permanente.

“Organizzare operazioni di setacciamento e controllo attenendosi alle seguenti disposizioni: si accerchia il villaggio e si fanno perquisizioni al suo interno. In caso di resistenza, le milizie armate dovranno essere eliminate e la popolazione espulsa al di fuori dei confini dello Stato”.

Disposizioni simili furono fornite anche per le operazioni condotte nei centri urbani, anche se si trattava di una versione più morbida rispetto agli ordini veri e propri che venivano impartiti alle unità sul campo. Ecco un esempio di un ordine inviato a un’unità incaricata di occupare tre grandi villaggi della Galilea occidentale, nell’ambito degli ordini previsti dal Piano D:

“La nostra missione è di aggredire allo scopo di occupare… uccidere gli uomini, distruggere e dare alle fiamme Kabri, Umm al-Faraj e An-Nahr”.

Il neo-ministro delle finanze di Israele, Bezalel Smotrich, dunque, non sta dicendo nulla di nuovo quando chiede che il villaggio di Huwwara venga cancellato. Si è scusato perché un commento del genere doveva rimanere in ebraico, dimenticando però che siamo nel 2023, e le sue parole sono state tempestivamente tradotte in inglese. Smotrich si è scusato perché (il suo commento) è stato tradotto, non per averlo pronunciato.

Gli studiosi palestinesi hanno prontamente capito che la narrazione sionista ad uso e consumo domestico è molto diversa da quella che viene presentata all’esterno. Su una traiettoria storica che dal Piano D conduce alle attuali uccisioni quotidiane di cittadini palestinesi, alla demolizione delle loro abitazioni, e agli incendi appiccati alle loro attività commerciali, sono stati in grado di rintracciare, qua e là, espressioni simili, se non peggiori.

Walid Khalidi portò il Piano Dalet all’attenzione dei lettori inglesi, ed Edward Said – nel suo libro seminale “La questione palestinese” – catalizzò la nostra attenzione su un’intervista, pubblicata nel 1978 su un quotidiano israeliano locale, con l’allora capo di stato maggiore israeliano Mordechai Gur. L’intervista fu condotta all’indomani della prima – e perlopiù passata inosservata- invasione israeliana del Libano di quell’anno. Il capo dell’esercito israeliano dichiarò:

“Non sono (una) di quelle persone dalla memoria selettiva. Crede che finga di non sapere cosa abbiamo fatto in tutti questi anni? Cosa abbiamo fatto lungo tutto il Canale di Suez? Un milione e mezzo di rifugiati!… Abbiamo bombardato Ismailia, Suez, Porto Said e Porto Fuad”.

Sono sicuro che pochissimi dei nostri lettori sanno che, a seguito della guerra di giugno, Israele creò un milione e mezzo di rifugiati egiziani.

E poi, a Gur è stato chiesto se ha operato una distinzione tra popolazione civile e combattenti:

“Sia serio, per favore. Non lo sapeva che, dopo la guerra d’attrito [con la Giordania], l’intera valle del Giordano è stata svuotata dai suoi abitanti?”

Il giornalista ha proseguito con una domanda: “Allora lei afferma che la popolazione civile dovrebbe essere punita?”

“Ovviamente. E non ho mai avuto dubbi su questo… Sono passati ormai 30 anni da quando abbiamo conquistato la nostra indipendenza combattendo contro la popolazione civile [araba] che abitava i villaggi e le città…”

Questo avveniva nel 1978 e, come sappiamo, questa politica continua tutt’oggi passando attraverso alcune atroci pietre miliari che includono [i massacri] di Sabra e Shatila, di Kafar Qana in Libano, di Jenin e nella Striscia di Gaza. Eppure, esaminando quelle atrocità – sia io che altri – le abbiamo definite, con una certa equidistanza, pulizia etnica; o, come fece Edward Said, un progetto di accumulazione (di terra e potere) e dislocamento (di persone, della loro identità e della loro storia).

Ho esitato a utilizzare il termine “genocidio” per indicare tutti questi capitoli bui. L’ho usato solo una volta quando, per descrivere la politica israeliana nella Striscia di Gaza a partire dal 2006, ho utilizzato l’espressione genocidio incrementale. Ma la recente furia omicida che ha caratterizzato Israele dall’inizio dell’anno, unita al triste anniversario sopra citato, giustificano un utilizzo più ampio del termine, non solo in riferimento agli atroci attacchi di Israele nella Striscia di Gaza e al suo ermetico assedio.

Il nesso tra le uccisioni che si verificano in un arco temporale di pochi mesi – quando “solo” poche persone vengono uccise su base quotidiana – e i massacri che si sono consumati in oltre 70 anni di storia non viene facilmente accettato come prova delle politiche di genocidio.

Eppure, quella storia rappresenta la genealogia del genocidio secondo l’articolo 2 della “Convenzione ONU per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio”, in cui si stabilisce che gli atti elencati di seguito sono da intendersi come genocidio se vengono commessi “con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”:

1. uccidere membri del gruppo;
2. causare gravi lesioni fisiche o psicologiche ai membri del gruppo;
3. sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica totale o parziale;
4. imporre misure volte a impedire le nascite all’interno del gruppo;
5. trasferire in maniera forzata i bambini del gruppo a un altro.

Sono sicuro che molti dei nostri lettori reagirebbero dicendo che sanno che si tratta di un genocidio. Ma nessuno di noi membri dello staff del Palestine Chronicle e, più generalmente, del movimento di solidarietà con il popolo palestinese, è qui per sfondare una porta aperta.

Abbiamo tutti preso parte allo sforzo collettivo – guidato dal movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) – per convincere la società civile internazionale a etichettare Israele come uno stato di apartheid. Questo non è un semplice risultato, anche se la maggior parte dei governi di tutto il mondo continua a rifiutarsi di farlo. Si tratta di un progetto di valore poiché, quando avrà successo, porterà a sanzioni significative.

Allo stesso modo, lo sviluppo lampante delle politiche genocide israeliane non solo nella Striscia di Gaza, ma anche in Cisgiordania, e non solo di recente, ma a partire dal 1948, potrebbe finalmente permetterci di far valere il diritto internazionale in Palestina – anche sulla base di prove fornite dagli stessi alti generali israeliani –. Per anni, le istituzioni e i tribunali principali hanno deluso il popolo palestinese, concedendo a Israele l’immunità, principalmente con il pretesto che il suo sistema giudiziario sia forte e indipendente.

Se questa affermazione risulta infondata nella migliore delle ipotesi, in questo preciso momento storico, considerate le ultime riforme legislative varate in Israele, risulta proprio ridicola.

Anche se il supporto delle istituzioni internazionali al popolo palestinese fosse stato più genuino, sarebbe stato comunque complesso processare i leader o i soldati israeliani sulla base delle accuse di pulizia etnica contro la popolazione palestinese. L’espressione “pulizia etnica” non è un termine giuridico, nel senso che i suoi esecutori non possono essere assicurati alla giustizia sulla base di questa specifica accusa; nella fattispecie, non si qualifica come crimine di diritto internazionale. Questo è ingiusto e potrebbe cambiare nel tempo, ma è la realtà con cui dobbiamo fare i conti al momento. Al contrario, il diritto internazionale qualifica il crimine di apartheid come un crimine contro l’umanità, e i suoi esecutori possono essere di fatto assicurati alla giustizia.

È importante prendere in considerazione l’utilizzo del termine anche per un altro motivo. Secondo il Sionismo liberale, quanto è avvenuto in Palestina è una piccola ingiustizia commessa per rimediare a una più orribile. Questa assurda giustificazione è stata recentemente arricchita dalle nuove definizioni operative di negazionismo dell’Olocausto adottate da molti paesi e università, che non ammettono alcun confronto tra l’Olocausto e la Nakba; un’equazione che verrebbe etichettata come antisemitismo.

Questi due presupposti sono sbagliati per due motivi. In primo luogo, questa “piccola” ingiustizia è ancora in corso; in fin dei conti, non conosciamo ancora quanto gravi saranno le sue conseguenze, ma sappiamo che non è affatto piccola e che rientra nella definizione di genocidio.

In secondo luogo, non si tratta di fare un confronto con l’Olocausto. Si tratta piuttosto di insistere sul fatto che si permette ancora di commettere un crimine contro l’umanità, ben definito nel diritto internazionale. E affinché’ si ponga fine a questo crimine, non è sufficiente parlare di apartheid e pulizia etnica.

Possiamo, e dobbiamo, usare un linguaggio più incisivo e preciso, alla luce dei fatti che vediamo accadere quotidianamente in Cisgiordania e a Gerusalemme, dove vengono uccisi soprattutto giovani uomini e bambini. Ciò è necessario anche alla luce del continuo processo di colpevolizzazione degli Arabi del 1948, nei cui villaggi e città le forze di sicurezza israeliane consentono a bande locali – purtroppo formate da cittadini Palestinesi – di uccidere per conto dello Stato.

(Traduzione di Rossella Tisci. Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul Palestine Chronicle)

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Leggere Ilan Pappé è un’esperienza che affascina. Non solo per la lucidità dell’analisi, la ricchezza delle fonti e la scorrevolezza della prosa, ma anche – o soprattutto – per l’abitudine a rovesciare, di continuo, significati e significanti della storia scritta dai vincitori. Di questo controverso e acutissimo storico insomma si può ben dire, foucaultianamente, che all’annalistica del memorabile preferisce la memoria della contraddizione e del conflitto: alla costruzione di mitologie trionfali, il grido che ricorda come ogni ordine nasca dalla sopraffazione. Come nel rovescio della legge, talora, si nasconda l’abuso…

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Basandosi sulle fonti originarie si chiarisce quanto sia importante inquadrare la situazione israelo-palestinese secondo verità, ma per farlo serve coraggio, onestà intellettuale e, non ultimo, un certo grado di empatia verso il popolo vittima di una montagna di ingiustizia e di soprusi. E quest’empatia Pappé l’ha dichiarata, è nelle sue opinioni, ma non inficia minimamente la correttezza della ricerca storica su cui si basano i suoi lavori. La ricostruzione storica di tutto l’apparato politico, burocratico e militare mette in mostra la decisione di escludere Cisgiordania e Gaza da qualsiasi eventuale futuro negoziato di pace, decisione che smaschera il cosiddetto “processo di pace” che ha consentito a Israele di rosicchiare senza interruzione i Territori palestinesi occupati, sostituendo di fatto l’insediamento coloniale permanente all’occupazione che, solo verbalmente, veniva definita temporanea.  Un progetto che  in modo scientemente programmato, con un apparato burocratico enorme affiancato a quello militare, ha origine nel XX secolo, ma che i documenti esaminati mostrano essere già presente, almeno come obiettivo da raggiungere, nel lontano 1882.    Dagli archivi declassificati emerge la verità sulla guerra dei sei giorni, l’evento che ha permesso la realizzazione del progetto che avrebbe fatto di Cisgiordania e Gaza una prigione senza via d’uscita. Il criminale capolavoro di rendere i palestinesi dei detenuti in casa propria, una casa che si è fatta sempre più stretta grazie ai “cunei” ideati da Ygal Allon e all’espandersi degli insediamenti  coloniali fino a diventare  quasi delle città, non fu immediatamente compreso o non volle essere compreso dalle democrazie occidentali che osannavano (e osannano) Israele, così come non fu compresa la reale dinamica della guerra dei sei giorni grazie – anche – al lucido piano di contraffazione lessicale. In quasi 400 pagine, di cui nessuna superflua, Ilan Pappé spiega il meccanismo carcerario cui è sottoposto il popolo palestinese compreso lo stesso presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas. Il sistema premi-punizioni, ove i premi sono soltanto un minor accanimento vessatorio e le punizioni sono veri e propri crimini di guerra e contro l’umanità è ciò che i palestinesi sono costretti a vivere e a cui una buona percentuale di loro si ribella pagando con l’arresto e, quasi quotidianamente, con la vita, la non accettazione delle leggi imposte dal loro carceriere…

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Per capire in che misura gli aspetti più discutibili della politica israeliana nei confronti del popolo palestinese siano l’esito logico dell’ideologia sionista, argomenta Pappé, occorre risalire allo spirito della “colonizzazione messianica” fra fine Ottocento e primo Novecento. È la visione di un ritorno ai tempi (e ai luoghi) biblici a rappresentare il fondamento del sionismo. Nato come ricerca di un rifugio sicuro contro l’antisemitismo e di un territorio che desse forma di nazione all’ebraismo, il sionismo non sarebbe andato incontro alle attuali degenerazioni se, per realizzare le sue legittime aspirazioni, non avesse scelto un territorio già abitato, il che lo ha inevitabilmente trasformato in un progetto colonialista (per inciso: in America e in Australia analoghi progetti hanno implicato lo sterminio sistematico delle popolazioni autoctone).

Realizzare il progetto significava ottenere il controllo sulla maggior parte della Palestina storica e ridurre drasticamente il numero dei palestinesi che ivi vivevano; l’obiettivo era insomma l‘edificazione di uno Stato ebraico “puro” dal punto di vista etnico-religioso, il desiderio (da alcuni nascosto, da altri dichiarato) era che nell’antica terra di Israele vi fossero solo ebrei. Di qui la pulizia etnica del 1948 resa possibile: 1) dalla decisione britannica di abbandonare i territori che governava da 30 anni; 2) dall’impatto dell’Olocausto sull’opinione pubblica occidentale; 3) dal marasma politico nel mondo arabo palestinese. Cogliendo l’opportunità una leadership sionista fortemente determinata espulse larga parte della popolazione nativa distruggendone i villaggi e le città, tanto che, in tempi brevissimi, l’80% della Palestina sotto mandato britannico era diventata lo Stato ebraico di Israele.

Passando alle decisioni draconiane sulla gestione dei Territori Occupati assunte dal governo che guidava il Paese durante la guerra del 67, Pappé sottolinea come esso comprendesse tutte le correnti ideologiche: laburisti, liberali laici, religiosi e ultra religiosi, rappresentando dunque il più ampio consenso sionista possibile. Sulla durezza di tali decisioni torneremo più avanti, ciò che importa sottolineare in primo luogo è l’assenza di differenze sostanziali fra destra e sinistra. Un’unità di intenti sancita dal fatto che nemmeno l’alternanza fra Laburisti (che governarono fino al 1977) e destre (il Likud dominò il decennio successivo, dal 77 all’87), produsse alcun cambiamento sostanziale se non nella “narrazione”: i Laburisti furono abili nell’ingannare il mondo sulle intenzioni di pace di Israele (Shimon Peres vi riuscì tanto bene da essere premiato con il Nobel) ma non cambiarono una virgola della strategia adottata nel 67; quanto al Likud, l’unica vera novità consistette nell’allacciare legami sempre più stretti con il movimento dei coloni (Gush Emunim). Nel decennio in questione gli ultra ortodossi vennero autorizzati a formare enclave teocratiche dotate di regole e procedure giuridiche diverse da quelle in vigore in Israele. Il fondamentalismo ebraico venne di fatto autorizzato a svolgere un ruolo di “militarizzazione” dei coloni, fino a creare squadre di vigilantes che eseguivano spedizioni punitive ctollerate dallo Stato (su 48 omicidi ad opera dei coloni violenti che agivano in bande organizzate, segnala Pappé, solo un colpevole venne incriminato e processato)…

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L'espressione La prigione più grande del mondo indica i territori occupati dallo stato sionista, di cui Ilan Pappé presenta la storia militare e politica.
La prefazione è incentrata sulla collina di descrive per sommi capi la situazione urbanistica di Givat Ram -un quartiere di Gerusalemme ricco di sedi istituzionali e universitarie edificato dopo il 1948 su terreni confiscati al villaggio palestinese di Sheikh al Badr- e ricorda come nel 1963 si sarebbe tenuto proprio in una sede universitaria un corso di preparazione destinato a personale militare da adibire al controllo della Cisgiordania come zona militare occupata. Ilan Pappé nota che quattro anni prima dell'effettiva occupazione lo stato sionista -nell'immediato timore di un crollo dell'assetto hashemita che avrebbe reso instabile la Giordania- avrebbe già iniziato a prepararsi a sovrintendere alla vita di un milione di palestinesi tramite le necessarie infrastrutture giudiziarie e amministrative. Secondo l'A. la élite militare e politica dello stato sionista era fin dal 1948 in cerca del momento storico opportuno per l'occupazione della Cisgiordania; il piano per la sua amministrazione si sarebbe chiamato "piano Shacham" e avrebbe previsto la divisione della Cisgiordania in otto distretti, sottoposti a un governo militare secondo la legge mandataria britannica, sottoposta agli aggiustamenti terminologici indispensabili, e secondo la vigente normativa giordana epurata dai provvedimenti in contrasto con gli obiettivi dello stato sionista. Un nuovo gruppo di allievi avrebbe seguito nel 1964 un analogo corso nella stessa località, e avrebbe imparato a reprimere gli "elementi ostili" e a comportarsi in modo da incoraggiare l'emergere di una leadership locale collaborazionista. Nei tre anni successivi lo stato sionista avrebbe approntato una squadra pronta a gestire una occupazione militare, e nel 1967 l'occupazione della Cisgiordania ebbe effettivamente luogo. L'A. scrive che al piano Shacham sarebbe stato a quel punto aggiunto un piano Granit, sua traduzione operativa. Ogni potenziale governatore militare e ogni consigliere avrebbe ricevuto nel maggio 1967 una serie di testi normativi; alcuni erano quelli in uso nella Germania occupata, ma vi figurava anche un testo di Gerhard von Glahn in cui si stabiliva che l'occupazione non cambia lo status de jure di un'area e che gli occupanti possono solo usare i beni presenti ma non entrarne in possesso. In pratica, anche per evitare fastidiose eccezioni da parte degli estimatori di von Glahn, l'occupazione sarebbe consistita nell'estensione alla Cisgiordania dell'autorità militare già imposta ai palestinesi entro lo stato sionista, attuata secondo i regolamenti di emergenza mandatari emessi a suo tempo dagli inglesi; norme che all'epoca della loro introduzione i sionisti avevano cosiderato degne di un paese nazionalsocialista. Un governatore militare avrebbe avuto controllo illimitato su ogni aspetto della vita degli individui e avrebbe potuto decretare espulsioni, convocare chiunque in una stazione di polizia, dichiarare "aree militari chiuse" le località oggetto di manifestazioni o pubbliche riunioni e praticare arresti amministrativi, ovvero detenzioni a tempo indeterminato senza motivazioni né processo. I tribunali chiamati ad applicare i regolamenti di emergenza mandatari sarebbero stati formati da militari non necessariamente in possesso di una formazione giuridica…

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