Colpita dai jihadisti per la seconda volta in pochi
mesi in una delle sue principali attrazioni turistiche, la
Tunisia si conferma uno Stato vulnerabile.
Stesse modalità, stesse vittime civili, stessa
rivendicazione dello Stato Islamico come
già successo a marzo nell’attentato al museo del Bardo. Anzi, stavolta le vittime sono state anche
di più e la spettacolarità dell’attacco (il terrorista che secondo testimoni
arriva in gommone, nasconde il kalashnikov nell’ombrellone e inizia a sparare
sulla spiaggia) non lascia dubbi sull’obiettivo anche propagandistico perseguito
dai jihadisti.
Armi automatiche, rapidità d’esecuzione e una scelta
dei luoghi per nulla casuale: Tunisi a marzo e Sousse venerdì 26
giugno. I due cuori di un paese che vuole diventare adulto a quattro anni dalla sua rivoluzione e che invece deve fare i conti
con una nuova minaccia, distogliendo risorse importanti che pensava di poter
destinare alla crescita economica.
L’area costiera di Sousse è stata peraltro
recentemente oggetto di un piano di potenziamento della sicurezza degli stabilimenti
balneari, proprio per garantire il tranquillo svolgimento della stagione
turistica.
Attaccando qui i jihadisti hanno voluto sfidare la
politica colpendo l’economia. L’hotel assaltato è
infatti uno dei più frequentati dai turisti occidentali e l’attacco di ieri
mira a danneggiare la stabilità di un paese che trae proprio dal turismo buona
parte delle sue risorse. Gli operatori del settore concordano nel rilevare un drastico calo di presenze straniere rispetto a un anno fa, a causa
dell’attentato del Bardo. Un’inversione di tendenza dopo Sousse a questo punto
pare impossibile.
Creare e diffondere il panico tra la società civile
rientra pienamente nella tattica delle organizzazioni terroriste presenti
in Nordafrica, tra cui al-Qaida nel Maghreb Islamico (Aqim) e lo Stato
Islamico, che ha dedicato molte attenzioni alla Tunisia pur non essendo molto
radicato nel paese.
Il numero 8 di Dabiq, la
rivista dell’Is, riportava infatti in copertina la moschea di Kairouan (città
d’origine di uno degli attentatori catturati ieri secondo il ministro
dell’Interno) e conteneva un’intervista a Boubakar el-Hakim, l’assassino del
leader politico tunisino Mohammed Brahmi.
Secondo alcuni
osservatori, la Tunisia è da tempo nel mirino dello Stato Islamico, se
non come terreno di espansione almeno come obiettivo da colpire. Il paese che
ha dato avvio alle cosiddette primavere arabe costituisce infatti – pur con
tutti i suoi limiti – un esempio di processo costituente e di democrazia che
l’Is vuole far naufragare, costringendo Tunisi a una deriva securitaria che
dovrebbe portare al disfacimento dello Stato.
Il presidente tunisino Beji Caid Essebsi ha
già promesso l’adozione di non meglio specificate misure “dolorose ma
necessarie”, aggiungendo che non sarà più possibile sventolare alcuna bandiera
se non quella tunisina. Il primo ministro Habib Essid ha dichiarato invece che
80 moschee “che promuovono il terrorismo” verranno chiuse e prospettato altre misure straordinarie.
Si spera che questi annunci non si traducano in un
controproducente ritorno al passato. È ormai evidente
infatti che il miglior brodo di cultura per l’estremismo e il terrorismo di
matrice religiosa è costituito da regimi autoritari e discriminatori. La
presenza di una società civile democratica e inclusiva e di istituzioni che la
rappresentano è il miglior antidoto all’espansione del “califfato”. Come riconosciuto dallo stesso Essebsi, Tunisi non è in grado di
prevenire né di contrastare il fenomeno jihadista da sola.
Appena tre mesi fa si
ricordava come fosse necessaria la cooperazione tra Europa e Tunisia e di come le due sponde del Mediterraneo
avrebbero avuto bisogno di coordinarsi su temi quali economia, immigrazione e
terrorismo in virtù della loro vicinanza storica e geografica.
Il fatto che nelle stesse ore del 26 giugno siano
state colpite entrambe (oltre al Kuwait) è un’ulteriore triste conferma della
necessità di agire insieme.
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