Quando cominciai a insegnare economia, le autorità
accademiche volevano che Marx non trovasse posto nelle mie lezioni, e
all’Università di Sidney fui addirittura licenziato in quanto “militante
dell’estrema sinistra”. Ed anche se in realtà non c’è molto marxismo nei miei
libri attuali, continuo ad avere la fama di pericoloso marxista (sia pure
“irregolare”): non contesto la definizione, perché continuo io stesso a
sentirmi un marxista, benché critico.
Marx cominciai a leggerlo all’età di 12 anni. Fin da
giovanissimo ero attratto dall’idea del progresso umano, del trionfo della
ragione sulla natura, con tutti i vantaggi e gli svantaggi: questa concezione
del mondo mi ha fortemente avvicinato a Marx, che ha fatto di ciò una
narrazione drammatica ed insuperabile. La sua straordinaria dialettica, per cui
ogni concetto è gravido del suo opposto (come le immense ricchezze e le
spaventose povertà che il capitalismo produce, o la contraddizione tra
proprietari che non lavorano e lavoratori senza proprietà), mi ha sempre
affascinato, insieme all’occhio d’aquila con cui Marx vede le condizioni del
cambiamento all’interno di strutture economico-sociali apparentemente
immutabili. E credo che la validità del materialismo storico trovi continue
conferme nella storia, nei modi più diversi. Forse che l’attuale montagna dei
debiti sovrani non si spiega con la crisi di realizzazione descritta nel Capitale?
Ho sempre considerato quello di Marx, e lo considero
tuttora, come il più grande contributo alla scienza economica, a partire
dall’analisi della mercificazione del lavoro umano, che è l’affresco di un
mondo disumanizzato, senza più pensiero critico né “sovversione”, quasi come in
quel film di fantascienza che parlava dell’invasione della Terra da parte di
replicanti senza sentimenti né creatività né libera volontà, automi che si
limitano a lavorare, produrre e consumare, in una società che non sarebbe
null’altro che il freddo meccanismo di un orologio o di un computer. Film come
quello, o anche come Matrix, non sono fantascienza ma la fedele
rappresentazione della società in cui viviamo, all’epoca del capitalismo
avanzato, in cui i lavoratori sono ridotti a mera energia al servizio del
sistema e della sua accumulazione. E per contrasto l’idea che il lavoro umano
non debba essere mercificato perché radicalmente diverso da ogni altro fattore
produttivo (in quanto soggetto e non oggetto della produzione), e che dunque
l’umanità debba riprendere il controllo dei rapporti sociali da essa stessa
creati liberandoli dalla alienazione, rappresenta ai miei occhi il più grande
contributo di Marx al pensiero economico moderno.
A sentire gli economisti borghesi, viviamo in una
società dove la ricchezza è prodotta individualmente e poi parzialmente
redistribuita dallo stato mediante la tassazione, ma Marx ci guida
splendidamente alla comprensione che la verità è esattamente l’opposto: la
ricchezza viene prodotta collettivamente e poi sono pochi privati ad
appropriarsene. Viviamo in un mondo dove il deficit più grave è un deficit di
democrazia, in cui la libertà vale solo per la sfera politica purché sia
rigorosamente separata da quella economico-sociale, che è lasciata al dominio
del grande capitale, secondo i parametri classici del liberalismo borghese,
mentre il pensiero di Marx ci indica la prospettiva di una libertà sostanziale
e concreta.
Penso tuttavia che Marx abbia commesso anche degli
errori, relativamente alla teoria deterministica del “crollo” (figlia del
positivismo ottocentesco), che sottovaluta la capacità di adattamento del
sistema e cerca la verità “scientifica” del socialismo in formule e schemi
economici, equazioni matematiche che invece non possono contenere alcuna verità
assoluta (né per i marxisti, né per i borghesi). Nel terzo libro del Capitale,
lo stesso Marx si rende conto di quanto fosse illusorio dare una presunta base
scientifico-matematica alla lotta politica e sindacale dei lavoratori. Ad
esempio lui era convinto che un aumento dei salari, facendo diminuire i
profitti, accelerasse la crisi; che viceversa lo sviluppo esigesse bassi salari
e che dunque il capitalismo fosse irriformabile dallo stato, esattamente come
pensava tutta l’economia borghese fino a Keynes. Fu John Maynard Keynes a
smentire i classici (sia Smith che Marx), mostrando come il crollo dei salari
non incrementasse affatto né i profitti né l’occupazione, anzi si abbinasse ad
entrambe le cose. Ora, lasciate perdere la “Teoria Generale”: è un libro
pessimo che non vi consiglio nemmeno di leggere; la grandezza di Keynes sta in
questa sola intuizione rivoluzionaria: che il capitalismo è un sistema ben poco
“deterministico”, capace di collassare ma incapace di riprendersi con le sole
forze del mercato. Per capire questo, Keynes si è dovuto staccare dai modelli
matematici dell’economia borghese, e questo avrebbe dovuto fare anche Marx
qualche decennio prima.
Io ho cominciato la mia carriera accademica studiando
proprio quei modelli matematici. E pensavo che la critica più efficace che si
potesse fare a quegli schemi fosse svilupparli fino in fondo per mostrarne tutte
le incongruenze e contraddizioni interne. Del resto è quanto fece Marx con la
teoria del valore di Smith e Ricardo. Ebbene, io ho provato a fare la stessa
cosa: approfondendo quegli stessi schemi matematici meglio di quanto avessero
fatto gli economisti borghesi e dimostrando loro che la bibbia neoliberista è
fondata su un dogma infondato: quello dell’equilibrio “naturale” del sistema.
Ma sbagliavo anch’io, perché ero convinto (secondo una mentalità anch’essa
borghese), che una volta dimostrati matematicamente i loro errori, questi
ultrascientifici economisti anglosassoni fossero ben disposti a correggerli,
come deve fare ogni “scienziato”… Non è così. Anzi, per dirla chiaramente, non
gliene importa un accidente della verità scientifica dei loro modelli; e questa
scoperta fu per me assai sconcertante.
Tuttavia devo essere onesto, e aggiungere che anche
molti economisti marxisti perseverano nei loro dogmi ed errori con la stessa
ottusità e mancanza di curiosità intellettuale. Io stesso, quando vivevo in Inghilterra
negli anni della Thatcher, ero portato a condividere il credo leninista secondo
cui le cose devono andare peggio per poter andare meglio in futuro; cioè
ritenevo che lo shock del neoliberismo thatcheriano avrebbe avvicinato l’ora X
di un cambiamento radicale, perché per i lavoratori – pensavo – le cose non
avrebbero potuto peggiorare ancora. E invece andavano sempre peggio, ogni
giorno. Così invece di radicalizzare la sinistra, questo declino distrusse
progressivamente ogni possibilità di cambiamento. E questa per me fu una
lezione molto severa. Una lezione che mi sono trascinato dietro fino ad oggi, e
che spiega le mie attuali prese di posizione di fronte alla crisi europea.
Guardate che questa crisi, scoppiata nel 2008, non è
solo una minaccia per le classi lavoratrici, per gli individui più svantaggiati
o per determinati gruppi sociali, ma costituisce un enorme pericolo per la
civiltà stessa, facendo avanzare giorno dopo giorno la sofferenza dei popoli e
delle persone. E allora arrivo al punto: alcuni militanti della sinistra
radicale mi rimproverano su internet di suggerire i modi per salvarlo, il
capitalismo, invece di distruggerlo come un marxista dovrebbe auspicare.
Ammetto che quest’accusa mi fa male, ma vi devo confessare che è un rimprovero fondato.
Sì, è vero: voglio salvare la società dagli effetti devastanti di questa crisi.
La mia è una strategia, che si inquadra in progetto politico radicalmente
umanista. Io credo che noi dobbiamo conservare nel cuore e nella mente una
giusta indignazione per le ingiustizie del capitalismo, ma sono anche convinto
che in questa fase storica la sinistra non sia ancora pronta a reggere sulle
sue spalle gli effetti del crollo del sistema e costruire un’alternativa
radicale ad esso, e che gli unici a trarre beneficio dalle macerie
dell’economia sarebbero i razzisti e i neonazisti. Spero davvero di sbagliarmi,
ma sono sicuro che non mi sbaglio. Perciò vorrei evitare di commettere di nuovo
l’errore che feci da studente 30 anni fa, e invece di invocare l’abbattimento
del capitalismo, oggi mi sento in dovere di indicargli la maniera per salvarsi
da se stesso.
Venendo all’Europa, bisogna ammettere che questa
Unione economica e monetaria, così come è stata costruita, era ed è del tutto
incapace di fronteggiare una crisi planetaria come quella in atto, e che gli
strumenti adottati dai vertici dell’Eurozona, dal 2008 ad oggi, passeranno alla
storia come un esempio di idiozia senza precedenti. Viviamo in un regime
guidato da banche in bancarotta; in un continente diviso da
una moneta comune (bell’esempio di dialettica marxiana!). Questi idioti
spremono i lavoratori e loro redditi, attaccano i deboli e gli incapienti,
devastano i diritti sociali per salvare (almeno questo è quello che
scioccamente credono di fare) l’autocrazia bancaria e finanziaria, ma alla fine
da questa folle spirale di crisi e risposte sbagliate non ci guadagnerà proprio
nessuno, a parte i reazionari, razzisti e i neonazisti. Nell’Opera da Tre
Soldi Bertold Brecht scrive: «La forza bruta è passata di moda; perché
mandare un killer se si può mandare un ufficiale giudiziario?». E oggi si
potrebbe aggiungere: perché mandare i carriarmati della Wehrmachtse
puoi mandare gli inviati della troika?
Per concludere, le mie “modeste” proposte di politica
economica (che vi invito ad approfondire e discutere sul mio blog) sono
finalizzate a salvare l’Europa da una depressione come quella degli anni
Trenta, ma che stavolta potrebbe durare 50 anni. Proprio chi, come me, ha
combattuto questa Unione Europea deve sentirsi ora in dovere di salvarla, per
tutelare le classi lavoratrici da un ulteriore drastico peggioramento delle
loro condizioni e per ridurre al minimo le sofferenze sociali. Per questo
obbiettivo, io che non sopporto i privilegi (compreso quello di viaggiare in
prima classe quando vengo invitato ai convegni internazionali), sono pronto a
trattare e cercare accordi anche con forze ed enti che personalmente detesto,
come il Fondo Monetario Internazionale, magari per contrapporlo alla Banca
Centrale Europea. Ma certo non bisogna mai dimenticare, quando vai a cena con
bastardi come quelli, la disumanità e misantropia del sistema capitalistico e
delle sue istituzioni; e che gli eventuali compromessi possono servire solo a
minimizzare le sofferenze umane, almeno nel breve periodo.
YANIS VAROUFAKIS
Ministro delle Finanze del governo di Alexis Tsipras
in Grecia
(Yanis
Varoufakis "Confessions of an Erratic Marxist" – 6th Subversive
festival – 14/05/2013)
Traduzione di Giancarlo Iacchini
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