venerdì 7 giugno 2019

"Sono un giornalista, sono un giornalista"


Origone, il giornalista picchiato: "Non smettevano più, ho creduto di morire" - STEFANO ORIGONE
Ho pensato di morire, non mi vergogno di dirlo. Non smettevano più di picchiarmi, vedo ancora quegli anfibi neri, che mi passavano davanti al volto e, nella testa, mi rimbomba ancora il rumore sordo delle manganellate. Su tutto il mio corpo, che cercavo di proteggere, rannicchiato in posizione fetale, scaricavano una rabbia che non ho mai incontrato prima, che non avevo mai sentito così efferata in trent'anni di professione, sempre sulla strada.

Mi trovavo in piazza Corvetto, all'angolo con via Serra, l'unica via di uscita di una piazza completamente blindata dai mezzi della polizia e dagli agenti in tenuta antissommossa. Era una buona posizione, per osservare i contatti tra a polizia e i manifestanti, c'erano già state cariche, ma mi sentivo tranquillo, proprio perchè alle spalle avevo la via di fuga. E poco prima la polizia era anche arretrata. Poi non so cosa sia scattato, non ricordo l'innesco della follia. Mi hanno detto poi che i poliziotti hanno visto un ragazzo vestito di nero e hanno lanciato la carica. So che mi sono arrivati addosso, intorno a me non c'era quasi nessuno, ero in un punto defilato. Li ho visti arrivare, avevo il cellulare in mano perchè stavo facendo qualche foto, mi sono uteriormente spostato. Ma mi sono arrivati addosso. Ho cominciato a scappare, ma non ne ho avuto il tempo.

Allora ho cominciato a gridare, ancora prima che mi buttassero a terra, prima che iniziasse l'incubo. Ho gridato con tutta la mia voce: "Sono un giornalista, sono un giornalista". Mi hanno fatto cadere e hanno cominciato a picchiare: calci, manganellate, colpi da tutte le parti, non sapevo come pararli, non potevo pararli. E urlavo, urlavo, tiravo fuori la testa dalla posizione fetale che avevo assunto: "Sono un giornalista, sono un giornalista". Non si fermavano. Ero come un pallone, preso a calci. Sentivo che stavano scaricando su di me una rabbia indescrivibile, avevano un furore irrefrenabile, ero terrorizzato. Allora ho urlato ancora più forte "Basta, basta". Non si fermavano. Non so quanto sia durato. Mi sono coperto la testa con le mani nude. A un certo punto mi sono accorto che il mio corpo non resisteva più, che non riuscivo neppure più a proteggermi. Lì ho avuto paura di morire. A un certo punto è arrivato un poliziotto, Giampiero Bove, che conosco da molto tempo: si è buttato sul mio corpo, con il casco: "Fermatevi, fermatevi, cosa state facendo, è un giornalista, fermatevi", ha gridato. Mi ha salvato. Gli sarò per sempre grato. E, come automi, gli agenti hanno smesso e se ne sono andati. Come se il loro furore fosse stato spento, con un clic.

Mi ha aiutato ad appoggiarmi a un muretto, stavo male, ha chiamato i soccorsi. Poi è arrivata l'ambulanza, durante il tragitto, mi veniva da vomitare, credo per lo shock. Ora sono ricoverato all'ospedale Galliera di Genova: i medici mi hanno detto che sulla schiena ho le impronte delle suole Vibram degli anfibi degli agenti, i segni del manganello sui fianchi. Ho una costola fratturata, due dita della mano sinistra rotte, trauma cranico per le manganellate in testa ed ecchimosi su tutto il corpo. E non ho mai pensato che potesse succedermi una cosa del genere.


Le manganellate e i calci con gli anfibi. I miei 20 secondi in balia degli agenti - STEFANO ORIGONE
"Sono un giornalista, sono un giornalista". L’ho gridato subito, mentre i poliziotti mi venivano incontro alzando i manganelli. È stata una frazione di secondo. Mi sono girato, ho cercato di scappare, ma non ne ho avuto il tempo. Sono stato accerchiato, hanno cominciato a colpirmi sulla schiena, la testa e le braccia. D’istinto mi sono chinato per proteggermi. Sono passati cinque giorni da quel pomeriggio di Piazza Corvetto a Genova e dagli scontri tra polizia e antifascisti per una manifestazione di CasaPound.

L’ospedale, l’operazione alle due dita frantumate, la costola rotta che non mi fa respirare e che a ogni colpo di tosse mi fa vedere le stelle e mi impedisce di dormire. Solo ora riesco a fare ordine nei ricordi e ricostruire quegli attimi. Di pura follia. "Stavo solo facendo il mio dovere di cronista". Nella mia mente in questi giorni me lo sono ripetuto in continuazione perché cercavo di capire quale errore avessi commesso. "Nessuno", continuano a ripetermi mia moglie Stefania e quasi tutto il resto del mondo.
Ero appostato a pochi metri dal cordone di poliziotti perché un ragazzo vestito di scuro era stato bloccato dagli agenti e veniva picchiato selvaggiamente. Mi sono detto: che questo sia un altro G8? È meglio stare qui e vedere con i miei occhi quello che sta succedendo. Pochi minuti prima mi ero seduto su una panchina proprio perché la situazione era molto più tranquilla, finalmente, dopo due ore di tafferugli. Mi sono acceso una sigaretta, ho guardato le foto della mia nipotina Frida che mi erano arrivate su WhatsApp e mi sono guardato attorno per cercare con gli occhi dove fossero gli altri miei colleghi.

Alle mie spalle, sulla collinetta del Parco dell’Acquasola, la gente osservava quello che stava succedendo in piazza. Mi sono alzato e mi sono diretto verso il cordone di agenti che, usando i lacrimogeni, aveva disperso un gruppo di manifestanti spingendoli in fondo a via Santi Giacomo e Filippo, l’unica via di fuga predisposta dal servizio di sicurezza della questura. I poliziotti erano allineati proprio all’inizio della strada per creare una zona cuscinetto e isolare i più violenti. Ero a pochi metri dagli agenti, tranquillo, mi sentivo quasi protetto. Mi sbagliavo.

Improvvisamente la polizia con caschi e maschere antigas è schizzata sul lato destro della strada e ha bloccato il ragazzo vestito di nero con il casco in testa. È stato un attimo impercettibile. Un secondo dopo sono piombati su di me. Una gragnuola di colpi, senza soluzione di continuità. Sono stato schiacciato per terra. E da quel momento ho capito che poteva essere la fine. La mia.

"Sono un giornalista", continuavo a gridare disperatamente. Niente, non si fermavano. Possibile che non sentissero? D’istinto mi sono coperto la testa con le mani. Non so quanto sia durato, probabilmente una ventina di secondi, ma interminabili. E sempre d’istinto mi sono ritrovato in posizione fetale con le mani sul capo e la faccia per terra. Vedevo anfibi neri. Tanti, intorno a me. Mi rimbombavano nel cervello i colpi dei loro manganelli e delle loro suole. Calci alla schiena, manganellate sulle braccia, sulle gambe, sugli stinchi. Le mani non bastavano a difendermi. Mi stavano ammazzando di botte come nei film che avevo visto sul G8. Sentivo dolore, pregavo che smettessero. Non gridavo più "sono un giornalista", ma supplicavo: "Basta, basta".

Un colpo di anfibio al costato mi ha tolto il fiato, ho abbandonato quella posizione e ho allungato le gambe. Ho teso i muscoli di tutto il corpo perché non sopportavo più il dolore. Ho pensato: non ce la faccio più. Proprio in quel momento ho sentito un corpo sul mio. Era un poliziotto. "Fermi, è un giornalista". Era Giampiero Bove, un caro amico che negli anni della cronaca nera andavo a trovare in commissariato per cercare di strappare qualche notizia.

"Stefano, sono Giampiero, stai tranquillo, ci sono io". Ricorderò per sempre quelle parole e il suo sguardo rassicurante. "Alzati, spostiamoci". Non ci riuscivo. Mi girava la testa. Avevo dolori ovunque. Ho cercato di prendere il cellulare, ma le dita non si piegavano. "Lo prendo io, fai uno sforzo, alzati Stefano". Mi guardavo attorno, la polizia caricava un gruppo di persone vicine alla panchina dove mi ero seduto. Mi hanno appoggiato al muretto, proprio nel punto dove avevano arrestato il ragazzo vestito di nero. "Ho due dita rotte", ho detto a Giampiero. Erano scure e con una forma a fisarmonica. Una collega mi ha sorretto. Poi un poliziotto mi ha aiutato a raggiungere Via Assarotti, ma non sapevo dove mi trovassi. Altri giornalisti hanno chiamato il 118, mi hanno dato dell’acqua.

Il viaggio in ambulanza a sirene spiegate fino all’ospedale Galliera. Interminabile, perché le strade principali erano state chiuse per via della manifestazione. Mi veniva da vomitare, avevo perso lucidità mentre al telefono avvisavo mia moglie. "Sono sull’ambulanza, la polizia mi ha massacrato". Ma lei non mi credeva.

Nei due giorni di ricovero sono state tante le manifestazioni di solidarietà. Mi ha chiamato il presidente della Camera, Roberto Fico, ma non il ministro dell’Interno Matteo Salvini, forse perché era impegnato in campagna elettorale.

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