I
MILITARI GETTANO LA MASCHERA - Bruna Sironi
Alla vigilia della festa per la
fine del mese di Ramadan, la più sentita, intima e familiare nel mondo
islamico, il Consiglio militare transitorio (Tmc), sudanese ha gettato la
maschera. Dopo giorni di incidenti e velate minacce, ieri ha disperso in un
bagno di sangue i manifestanti che da circa due mesi presidiavano la zona
attorno al quartier generale dell’esercito, a Khartoum.
A fine giornata il bilancio era tremendo: almeno 35 morti e 650 feriti -
tra cui uno dei leader della protesta, Madani Abbas Madan - secondo i dati
riportati da Radio France International. Un bilancio ancora
provvisorio. Molti feriti sono in gravissime condizioni, dice il comunicato del
comitato di coordinamento dei medici legato all’opposizione, mentre circolano
voci che molti corpi potrebbero essere stati gettati direttamente nel Nilo che
scorre a ridosso della zona dell’attacco.
Nulla si sa ancora sul numero degli arrestati ma, secondo testimoni
oculari, ieri sera erano in atto perquisizioni a tappeto. Poi le comunicazioni
via internet sono state interrotte e per ora circolano liberamente solo le
notizie ufficiali. Se l’interruzione sarà di lunga durata, come è probabile, le
informazioni dell’opposizione e di fonti indipendenti d’ora in poi potranno
essere diffuse solo con il contagocce.
Ieri sera alle 9.34, Hiba Morgan, una dei corrispondenti di Al
Jazeera dalla capitale sudanese, ha commentato via Twitter “Si
sentono ancora spari in diverse zone di Khartoum… I servizi mobili di
trasmissione dati sono stati chiusi… qualsiasi cosa accada questa notte, quelli
che stanno documentando non potranno condividerlo con il mondo”. Sarà così più
facile per la giunta militare manipolare la realtà di fronte all’opinione
pubblica internazionale, ripetendo l’operazione già riuscita al passato regime
sul conflitto in Darfur: regione isolata, regione pacificata.
Spari sulla folla
L’opera di manipolazione è già cominciata. Nei giorni scorsi gli incidenti
al presidio erano stati attribuiti a provocatori, ma i testimoni affermavano
concordemente di essere stati attaccati da miliziani delle Rapid support forces
(Rsf) del vicepresidente Hemmeti. Ieri, il portavoce ufficiale della giunta
militare ha dichiarato che non era stato attaccato il presidio in sé, bensì una
zona in cui si registravano attività illecite e continui episodi di micro
criminalità.
Ma le immagini che giravano live sui social media (riquadro piccolo in
alto) raccontavano fatti ben diversi: il quartier generale delle forze
armate difeso da decine di veicoli militari carichi di soldati e con le
mitragliatrici rivolte verso la piazza; numerose donne sedute in gruppo davanti
ai militari pronti ad arrestarle con alle spalle decine di morti e feriti; le
tende allestite dai dimostranti nella piazza completamente distrutte… Una
desolazione dopo giorni e giorni di fervore organizzato e pacifico che
dimostrava come avrebbe potuto essere un nuovo Sudan, libero e democratico.
La Sudan professional association (Spa), nel comunicato diffuso ieri,
scioglie ogni dubbio sulle responsabilità della repressione: il Tmc è
responsabile dell’attacco, portato avanti dalle Rsf spalleggiate dalle forze di
sicurezza e dalla polizia. La Spa considera l’episodio un crimine contro il
popolo sudanese e un ritorno al modo di operare e alle politiche del vecchio
regime. E conclude dicendo che la rivoluzione continuerà fino alla vittoria.
Trattative cancellate
Durante la notte è arrivata la dichiarazione ufficiale rilasciata dal capo
del Tmc, generale Abdel Fatah al-Burhan, attraverso la televisione di stato:
interrotte le trattative con le forze dell’Alleanza per la libertà e il
cambiamento (Fca), cancellati gli accordi finora raggiunti, elezioni tra nove
mesi perché “la legittimità della rappresentanza può uscire solo dalle urne”.
Cioè, si torna all’inizio del percorso in cui l’opposizione che ha riempito le
piazze per chiedere un Sudan diverso è considerata alla stregua
dell’opposizione che di fatto ha sostenuto il passato regime fino alla fine,
caso mai criticandolo da posizioni islamiste ancor più radicali.
E si può scommettere che l’obiettivo ultimo delle elezioni è la restaurazione,
falsamente legittimata dalla volontà popolare, di un regime autoritario
falsamente civile, magari non inquadrato nella cornice della fratellanza
musulmana, com’era quello del deposto presidente al-Bashir, ma modellato sul
quello egiziano di al-Sissi e solidamente alleato all’Arabia Saudita.
Quanto al massacro delle ore precedenti, è stato derubricato come un
incidente a margine dello sgombro della via del Nilo, che è solo adiacente alla
piazza del presidio. Burhan ha inoltre lanciato altre striscianti minacce: la
stabilità del paese ha un costo e richiede sacrifici. E infine, ha chiamato
l’opposizione come corresponsabile della repressione, ovviamente perché non si
è piegata alla richieste della giunta militare.
La risposta non si è fatta attendere. In un comunicato diffuso questa
mattina da Sudo (Sudan development organization), il suo presidente e noto
difensore dei diritti umani Mudawi Ibrahim Adam, dice di condannare nel più
forte dei termini gli omicidi commessi dal Tmc che ne è il solo e unico
responsabile. Che la responsabilità dell’opposizione è, caso mai, quella di
aver pensato che il Tmc potesse essere un interlocutore sincero e credibile,
mentre il suo obiettivo era quello di controllare il potere e di difendere gli
interessi del passato regime.
Egitto, Arabia ed Emirati
Che succederà adesso? Analisti citati dalla BBC prevedono
un’escalation di brutalità negli scontri con l’opposizione pacifica. Anche
perché sembra evidente che nella giunta hanno avuto il sopravvento i falchi,
tra i quali spicca il vicepresidente, comandante delle Rsf che ha applicato
ieri a Khartoum i metodi usati nella repressione della ribellione in Darfur.
Non si può, inoltre, non osservare che la svolta arriva dopo le visite dei
giorni scorsi di Burhan ed Hemmeti in Egitto, negli Emirati Arabi Uniti e in
Arabia Saudita, quasi a farsi dare il via libera dagli alleati.
Ma, dice il comunicato della Spa, la rivoluzione continuerà fino alla
vittoria. I prossimi giorni ci diranno se e come l’opposizione potrá continuare
il suo percorso verso la trasformazione democratica del paese che ha già avuto
un costo molto alto e ha richiesto grandi sacrifici che, almeno per ora, non
hanno fermato la determinazione della gente che persegue il sogno di un Sudan
diverso.
da qui
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