Nella piana dell’Isonzo in Friuli Venezia Giulia stava fino al 2013, quando
venne distrutto dalle rivolte dei reclusi, il Centro di identificazione ed
espulsione più grande d’Italia: il Cie di Gradisca d’Isonzo – aperto dal
governo Prodi nel 2006, 248 posti letto al suo massimo, un
morto sotto i suoi muri alti quattro metri.
Dopo le riaperture ventilate fin dal 2014,
e una riapertura parziale come Cara (Centro di accoglienza per richiedenti
asilo) nella stessa struttura che era stata di internamento, il centro di
espulsione di Gradisca d’Isonzo dovrebbe essere inaugurato come
Cpr il prossimo autunno, nell’accordo, o altrimenti nell’accettazione passiva,
di tutti gli attori istituzionali e della quasi totalità dell’opinione
pubblica.
Il dibattito sui Cpr – come quello sulle carceri – è un elefante ignorato
nelle stanze della campagna elettorale per le europee (solo la lista Sinistra
europea chiede nel programma la chiusura delle strutture di detenzione
amministrativa, nemmeno i Radicali ne fanno cenno) e, più in
generale, nel discorso politico e culturale extra-istituzionale. In
particolare, lontano dall’attenzione mediatica che dolorosamente e necessariamente
punta sul Mediterraneo, le persone razzializzate nei Cpr sono veramente le
prime che «vennero a prendere»: in varie regioni d’Italia, nell’indifferenza
che formalmente odiamo, stanno riaprendo i centri di internamento e
deportazione, secondo il progetto a firma di Marco Minniti, che ne chiedeva uno
per regione.
Cos’è un Cpr?
Cpr – Centro permanente per il rimpatrio – è l’acronimo più recente
affibbiato dalla legge ai centri di identificazione e deportazione per migranti
irregolari presenti sul territorio italiano, che sono stati istituiti e
costantemente implementati da tutti i governi degli ultimi vent’anni. La
creazione di queste strutture carcerarie risale al 1998, quando – a seguito di
alcune direttive europee in vista dell’entrata nell’area Schengen – Livia Turco
e Giorgio Napolitano, con il T.U. sull’immigrazione 286/1998, stabilirono il
trattenimento coatto delle persone straniere da identificare o in attesa di
espulsione, per un massimo di 30 giorni: periodo che venne poi raddoppiato con
la Legge Bossi-Fini (L. 189/2002), la quale introdusse anche il reato di non
ottemperanza all’ordine di espulsione, cui sarebbe seguito il reato di
clandestinità (L. 94/2009).
Il nome Cpr risale alla Legge Minniti-Orlando (L. 46/2017), che prevedeva
la costruzione di un centro in ogni regione; con il Decreto sicurezza (L.
117/2018), la funzione di detenzione amministrativa è stata attribuita anche ad
altri luoghi (hotspot, questure, zone di attesa e di transito) e per
tempi più estesi (180 giorni, termine che può salire a un anno per le/i
richiedenti asilo). Oggi in Italia sono in funzione sette Cpr: uno a Torino,
uno a Roma-Ponte Galeria (l’unico femminile), uno a Palazzo San Gervasio (PZ),
due in Sicilia (Trapani-Milo, Caltanissetta-Pian del Lago) e due in Puglia
(Bari-Palese, Brindisi-Restinco). Una mappa parziale si può trovare qui.
Una sentenza della Corte costituzionale (105/2001) ha stabilito che il
trattenimento in un Cpr incide sulla libertà e dovrebbe garantire le tutele
dell’articolo 13 della Costituzione, mentre una sentenza della Corte di
giustizia dell’Unione europea (40/2011) vieta la detenzione di cittadino
straniero per irregolarità: tuttavia, ad oggi i cittadini stranieri possono
essere trattenuti in una struttura di fatto carceraria senza aver compiuto
alcun reato e il loro trattenimento – che non è formalizzato come detenzione –
garantisce loro meno diritti e a chi li trattiene maggiore arbitrarietà che se
fossero carcerati. In più, la gestione dei Cpr è appaltata a privati tramite
bandi gestiti dalle Prefetture: la privatizzazione della gestione dei centri di
internamento per migranti ne fa un business simile a quello del sistema carcerario americano.
Funzioni dei Cpr: alcuni dati
La funzione ufficiale del Cpr è quella di identificare e deportare nel
Paese d’origine le persone che vengono trovate sul territorio italiano senza
permesso di soggiorno in corso di validità. Nel 2018, su 4092 persone
trattenute ne sono state rimpatriate 1768 (43%, percentuale che scende al 13%
per le donne): «una cifra davvero bassa se si pensa ai costi, in termini
economici, ma soprattutto in termini di sofferenza delle persone ristrette: una
sofferenza che non trova alcuna giustificazione visto che la finalità del loro
trattenimento in più della metà dei casi non è stata raggiunta», secondo il Rapporto 2018 del Garante
nazionale delle persone detenute. Questa percentuale «davvero bassa» viene
spesso citata da esponenti degli ultimi governi come prova della fallimentare
politica migratoria del governo in carica: questa posizione, oltre a
smascherare una cultura politica non così distante in fatto di immigrazione, si
basa su un presupposto fallace: la finalità dei centri di espulsione, infatti,
non è mai stata il rimpatrio di tutta la popolazione
irregolare.
Stando allo stesso Rapporto, nel 2018 l’Italia ha organizzato 77 voli
charter cosiddetti «di rimpatrio» (66 dei quali verso la Tunisia), espellendo
2116 persone, mentre 870 persone sono state deportate su voli di linea
organizzati dalle Questure. In ogni caso, se il governo attuale dovesse
aumentare i voli «di rimpatrio» (con i 2,5 milioni stanziati per il triennio
2018-2020 si possono organizzare circa 300 rimpatri in più all’anno), anche
verso Paesi con i quali non esistono contratti bilaterali, sfruttando i voli
charter di Frontex, le deportazioni potrebbero diventare un fronte di
resistenza civile, come già avviene in altri paesi
europei.
Ad ora, il 23% delle persone è uscito dal Cpr dove era rinchiuso perché il
trattenimento non era stato convalidato dall’Autorità giudiziaria, a causa di
irregolarità o illegittimità delle pratiche di internamento (vizi procedurali,
abusi d’ufficio, trattenimento di richiedenti asilo), mentre il 20% è stato
liberato per scadenza dei termini: questo significa che il 43% dei trattenuti
lo era inutilmente secondo la legge stessa, e il 23% addirittura
«per errore».
Questo dimostra, come si accennava, che la funzione effettiva dei Cpr
tracima quella ufficiale. Il trattenimento nel Cpr – e la sottoposizione
deliberata a procedure degradanti e a condizioni di vita disumanizzanti, come
la negazione della privacy e della sicurezza – determina la creazione di una
gerarchia razziale nella società italiana e tiene una parte della popolazione
(quella immigrata) sotto il ricatto costante dell’internamento e
dell’espulsione. Considerato che dalla legge Bossi-Fini il permesso di
soggiorno è intrinsecamente legato al lavoro, secondo una logica che non è mai
stata messa in questione da nessuno dei governi successivi, il sistema dei Cpr
è legato strutturalmente allo sfruttamento lavorativo: l’alternativa tra lavoro
(di qualsiasi tipo, a qualsiasi costo) e internamento spiana la strada a un
regime di terrore e schiavismo. Il Cpr diventa il dispositivo di controllo –
l’istituzione totale – che reifica l’idea della cittadinanza come merito e il
percorso per ottenerla come lotta di sopravvivenza.
Economicamente, la gestione dei centri di identificazione e espulsione
rappresenta un business milionario per cooperative, misericordie, aziende. Già nel 2003, la detenzione di una
persona in un Cpt poteva fruttare dai 33 (Crotone) ai 99 euro (Modena, gestita
dalla Confraternita della Misericordia di Daniele Giovanardi, il fratello del
più celebre Carlo). Oggi, il bando pubblicato dalla Prefettura di Gorizia per
la gestione del Cpr di Gradisca prevede un corrispettivo 1 milione 700mila euro
(iva esclusa) all’anno: è un giro d’affari attraente, soprattutto se si
considera che il margine di guadagno si allarga se le condizioni di vita degna
non vengono garantite, come è avvenuto quasi sistematicamente.
Politicamente, sovrapponendo nella narrazione la funzione del Cpr a quella
del carcere, il sistema Cpr permette di trasmettere l’informazione che lo Stato
si sta occupando della questione degli immigrati irregolari e pericolosi.
Strettamente da questa prospettiva, non importa quante persone vi siano
rinchiuse: quello che importa è la mera esistenza del sistema dei centri
permanenti per il rimpatrio, all’interno dei quali ogni
non cittadino/a è potenzialmente internabile. Attraverso i Cpr,
lo stato garantisce di «proteggere» i suoi cittadini e le sue cittadine,
nascondendo loro una parte della popolazione razzializzata con la quale,
peraltro, agli abitanti dei territori dove sorgono i Cpr è risparmiato il
fastidio di interagire, proprio come se si trattasse di un campo di
concentramento. E, come i campi di concentramento nelle parole di Hannah Arendt, i Cpr
sono «surrogati del territorio nazionale nei quali confinare individui che non
vi appartengono».
Un campo di internamento
Come scriveva Davide Cadeddu, in uno dei pochi libri usciti sul dramma dei
centri di internamento italiani, Cie e complicità delle associazioni
umanitarie.
«Ciò che rende il Cie tale è la sua natura biopolitica. In questo
dispositivo il potere si esercita sulla persona trattenuta non in quanto autore
di un reato, ma in quanto essere vivente, vita biologica, nuda vita. Per cui,
anche se in questi campi di internamento fossero garantiti standard decenti
rispetto alla tutela dell’incolumità personale, all’igiene del luogo, alla
qualità del cibo, all’assistenza sociale (attraverso la presenza di interpreti,
psicologi, avvocati, mediatori linguistici) o alla realizzazione di attività di
socializzazione, la natura di questi luoghi comunque non cambierebbe,
rimarrebbero quello che sono e continuerebbero ad assolvere sempre alla stessa
identica funzione all’interno della società.»
La profondità della penetrazione del sistema campo nella mentalità europea
degli ultimi anni si inserisce nel silenzio generale sulla questione
carceraria, interrotto dagli sporadici rigurgiti di una vandea
anti-anticarceraria, e si manifesta nella normalizzazione dei campi profughi
lungo tutta la rotta balcanica (dalla Grecia alla Serbia e alla Bosnia) e dei
campi di concentramento in Libia, dei respingimenti illegali (push-back)
in mare e alla frontiera slovena, tutti finanziati con fondi e italiani ed
europei, e che tuttavia, di nuovo, sono assenti dal dibattito elettorale di
questo maggio e in generale latitano dalla presa di coscienza collettiva di
stare vivendo i tempi di una Auschwitz on the beach.
In particolare, i campi di concentramento in Libia – istituiti formalmente
come «campi di accoglienza» con gli accordi Italia-Libia a firma di Marco
Minniti – sono ormai entrati appieno nella coscienza collettiva italiana, anche
grazie al lavoro di alcune giornaliste come Francesca Mannocchi e Nancy
Porsia: coscienza collettiva che, non potendo fingere di non
sapere, si scinde tra chi-sa-e-non-gli-sta-bene e chi-sa-e-sta-bene-così. I
campi libici, cosa che invece la coscienza collettiva tende a ignorare,
rimandano ai campi di concentramento coloniali (1929-1933), dove l’Italia
fascista deportò l’intera popolazione seminomade della Cirenaica,
rinchiudendovi circa 100 mila persone (delle quali decine di migliaia sarebbero
morte), mentre la resistenza guidata da Omar al-Mukhtar veniva stroncata a
prezzo di un genocidio.
Nulla cambia perché qualcosa cambi
Da un lato era necessaria questa breve operazione di ricostruzione storica
(della storia recentissima) che riprendesse il filo rosso delle politiche
migratorie in Italia negli ultimi vent’anni, di fatto trasversali all’arco
parlamentare, e incollasse i partiti e i singoli esponenti alle loro
responsabilità, al fine di farci guardare da chi pratica un oggi un
antirazzismo elettorale; dall’altro, è – come sempre – urgente cercare di
trovare i punti di scarto, le specificità delle politiche e delle retoriche di
questo governo rispetto a quelli che l’hanno preceduto.
Il primo punto di scarto è di natura comunicativa. Mai prima d’ora un
razzismo tanto esplicito era stato fatto discorso istituzionale: nonostante il
mercato del lavoro italiano continui a necessitare della manodopera migrante,
la separazione tra migrante buono (lavoratore) da integrare e migrante malo
(criminale) da espellere è stata superata a favore di una criminalizzazione
generale delle persone migranti, che sarebbero culturalmente impossibilitate
all’integrazione e culturalmente predisposte alla malavita. Il Partito
democratico, per quanto abbia sempre rivendicato e i respingimenti e gli
accordi libici, non ha mai osato far corrispondere al razzismo effettivo una
retorica così esplicitamente xenofoba: la Lega, per la quale peraltro non
sussiste il ricatto del bacino elettorale dell’accoglienza e del terzo settore,
può invece lanciare un linciaggio dell’Altro, può creare un nemico politico,
può legittimare una guerra civile. In questo senso, il governatore della
regione Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, può dichiarare che «il Fvg è
disponibile a prendere in carico anche più di una struttura Cpr, ma questo
dovrà comportare un alleggerimento che mira alla scomparsa di tutto il resto
dell’accoglienza»: la via della completa ghettizzazione (ed eliminazione dalla
vista) di chi è straniero è stata imboccata.
Il secondo punto di scarto è la produzione di nuove leggi che
criminalizzano la resistenza dei/delle migranti e la solidarietà di chi sceglie
di stare al loro fianco. Se da un lato la seconda parte del decreto sicurezza (a
seguito della surreale campagna di criminalizzazione delle Ong) intende punire
chi salva vite in mare; dall’altro la lotta contro il Cpr di Torino – che
riesce da anni a squarciare il silenzio cui si vogliono condannare i reclusi –
ha già subito una repressione pesantissima negli ultimi mesi. Quanto alle
persone migranti, il Decreto sicurezza – che si configura come capitolo
autoritario della legislazione italiana sull’immigrazione – ha aumentato i
reati che causano il diniego o alla revoca della protezione internazionale; ha
revocato la protezione umanitaria e abbandonato il sistema Sprar in favore di
una gestione massificata e numerica delle procedure di protezione
internazionale; ha limitato la concessione di permessi di soggiorno; ha
ripensato la gestione delle frontiere (con detenzione in hotspot fino
a 30 giorni e traslazione diretta in Cpr); ha rifinanziato i Cpr; ha
criminalizzato le forme di resistenza. Il Decreto prevede anche il
trattenimento a fini identificativi del/la richiedente protezione
internazionale, «modalità attraverso la quale il legislatore vuole dare
formale veste giuridica al trattenimento di ogni richiedente asilo che sia
privo di documenti di identità in corso di validità (ovvero la quasi totalità)»:
in breve, è in atto un cambiamento di paradigma, da un sistema di accoglienza
(già con grandi limiti) a un sistema propriamente di criminalizzazione,
controllo e carcerazione preventiva.
Contro tutti i Cpr
Secondo la circolare del 14 gennaio 2019, che ha seguito il cosiddetto
Decreto sicurezza, il Governo dà «particolare importanza all’ampliamento dei
posti nei Cpr, atteso che il numero di quelli attivi non risulta sufficiente
per conferire efficacia alle misure di rimpatrio», e «sono stati già avviati
lavori di ristrutturazione per attivare, nei prossimi mesi, nuove strutture e
per effettuare interventi di ampliamento di quelle già in uso». A Gradisca
d’Isonzo sono in corso i lavori per la riapertura del Cpr: i bandi della
prefettura per la gestione indicano come data d’inizio il primo giugno 2019, il
Cpr di Gradisca dovrebbe aprire prima di quello di Milano e di quello di
Modena, altri due dei quali si parla da qualche tempo. La sindaca Linda
Tomasinsig (Pd), formalmente contraria all’apertura del Cpr (come già
all’esistenza del Cie), aveva più volte chiesto pubblicamente la non
coesistenza di Cpr e Cara, che tuttavia ha ottenuto: le persone «ospitate» nel
Cara di Gradisca saranno così costrette a convivere con la militarizzazione del
Cpr e con la minaccia tangibile che rappresenta.
Nel frattempo, negli ultimi mesi, nei Cpr aperti in Italia, le persone
rinchiuse hanno continuato a resistere al loro internamento, con scioperi della
fame, fughe, rivolte interne, incendi, senza che il loro gridare provochi una
grande eco tra chi sta fuori. Fuori – soffocàti da anni di gestione repressiva
dell’immigrazione e del dissenso e dalla criminalizzazione della solidarietà e
della militanza – non abbiamo la prontezza di risposta che c’era stata negli
anni Dieci, quando le lotte dentro i centri di identificazione ed espulsione
potevano contare, in un certo senso, sull’attenzione e la solidarietà di chi le
osservava da fuori.
Tuttavia, quella contro i campi di internamento sembra oggi la lotta
dirimente dell’antirazzismo in Italia (e forse in tutto l’Occidente): quella
che non concede ipocrisie e buonismi, mentre riceve – non a caso –
un’attenzione particolare dall’apparato securitario. Un antirazzismo critico,
capace di individuare strutturalmente le responsabilità occidentali nelle
migrazioni e nel loro sfruttamento, di non cadere nell’ottica neocoloniale
dell’antirazzismo liberal e di agire contro i lager del suo
tempo, è il solo che ha senso provare a praticare. Anche perché, riprendendo
Giorgio Agamben, ciò che avviene in questi pezzi di territorio posti fuori
dall’ordinamento giuridico normale inaugura un nuovo paradigma
giuridico-politico, dove l’eccezione è norma, e che l’eccezione (spesso
giustificata come emergenza) sia normalizzata è uno dei grandi processi
politici del nostro tempo e un rischio che non possiamo giocarci...
*Michela Pusterla è dottoranda in italianistica all’Università di
Trieste.
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