Un viaggio tra i documentari che
ripercorrono la storia delle lotte per la casa a Roma. La città che detiene il
primato nazionale degli sfratti, e dove solo un terzo di chi perde la propria
abitazione ottiene un alloggio popolare
Che l’emergenza abitativa sia strutturale alla costruzione
della città moderna ce lo insegna la storia delle lotte, da sempre parallela a
quella urbana e amministrativa del suolo edificabile. A Roma la «crisi
abitativa permanente e capace di autoalimentarsi» s’innesca e si stabilizza,
confermano gli storici, sin dagli anni in cui la città dei papi cambia muta per
farsi capitale del Regno d’Italia. Nella Roma di quasi 150 anni fa erano quindi
già «presenti tutti gli elementi idonei a cronicizzare lo stato d’emergenza»
(come spiega Stefania Ficacci in Inquilini a Roma nel Biennio rosso:
dalle organizzazioni di categoria alle occupazioni delle case, in “Storia e Futuro”, Numero 34, 2014). Anche per questo la
storia della romana attesa di una casa popolare è cosa complessa e dolorosa. È
un rizoma difficile da dissotterrare, impossibile da visionare “per intero” o
con l’aiuto di un singolo strumento d’osservazione. Usando sia il cinema –
inteso come sterminato archivio audiovisivo – che la storia dell’architettura
sociale, possiamo visionare i frutti (anche) contrastanti di tale rizomatica
emergenza.
Nel biennio rosso la questione abitativa è cruciale assieme alle proteste
contro il caro-vita. Si fanno strada i primi “movimenti”: leghe degli inquilini
innanzitutto anarchiche che sognano una collettivizzazione delle case. Il
«pescecanismo della casa» comincia intanto a discutersi sui quotidiani e nei
tribunali, inizia a creare dissidio. Nella primavera del 1921 il commissario
Alfredo Lusignoli sogna per iscritto le seguenti disposizioni: «Si vieta di
tenere vuoti gli appartamenti; si rende obbligatoria la denuncia degli alloggi
vuoti, in costruzione o inagibili all’albo pretorio dell’ufficio del
commissario entro dieci giorni dall’avvenuto sgombero; si obbliga alla denuncia
coloro che hanno in affitto più di un alloggio per provvedere alla verifica
dell’effettivo bisogno […]», e infine s’intendono regolare i sub affitti,
fissando il limite massimo di canone esigibile ai poveri subaffittuari. Le
buone norme non saranno ovviamente mai applicate, e il Lusignoli scappa a
Milano ancor prima del tempo.
Sembra incredibile che fosse alle porte proprio quella «dignità
architettonica» di cui ancora «andar fieri», quando anche qui si sapeva –
eccome – rivendicare la grande bellezza delle case popolari,tutta
impressa nelle amabili abitazioni in stile barocchetto ispirate
all’architettura minore del Sei-Settecento, oggi tripudio del gentrificabile.
In quelle forme «tendenti al metafisico», originali eppur solide, di un
Innocenzo Sabbatini o di un Camillo Palmerini, autori di un’architettura che si
voleva espressivo esperimento persino nelle economiche «case a riscatto», o
nelle razionalissime «case minime» di quindici anni dopo.
I senza-casa non erano e non sono una classe, si deve intanto affermare, e
però quasi tutti lavorano nell’edilizia, che poi è una fabbrica a cielo aperto,
la più precaria per eccellenza. Dovranno pur organizzarsi gli edili-baraccanti
e le donne sottoproletarie dei borghetti romani, e s’impuntano sin dalla fine
degli anni Cinquanta: occupano appartamenti, distruggono baracche, reclamano
assegnazioni, riappropriandosi innanzitutto di una coscienza certa: che sia
data o che sia negata, l’architettura è il marchio cieco della nostra
impotenza.
Nel 1969 emerge il Cab, Comitato di Agitazione Borgate. Struttura
multiforme, che già vede la lotta per la casa «come uno dei punti d’attacco al
sistema», il quale va ben oltre il mero bisogno di un tetto per famiglia, perché
intende «collegare le varie categorie interessate a una città diversa a una
lotta che possa poi effettivamente incidere e contestare il sistema attuale di
costruire le città», come pure la divisione (urbana) del lavoro (Parole di un
esponente del Cab intervistato nel film La casa è un diritto non un
privilegio, di Anna Lajolo, Alfredo Leonardi, Guido Lombardi, Paola
Scarnati, 1970). A San Basilio, a Pietralata, al Trullo, al Tufello e altrove,
il Cab occupa gli Iacp non assegnati. Negli stabili dei privati si pratica
invece l’autoriduzione del canone. Arriveranno poi (a Torre Spaccata) gli
scontri in strada, ma l’abitare era già da tempo una battaglia.
Cosa rivendicava l’esclusa protagonista della «questione della casa»? Le
voci, i paesaggi e i suoni di una marginalità «non fortuita ma essenziale» sono
state narrate spesso dal cinema militante tra gli anni 1966-1974 (anni in cui
la battaglia dell’abitare si fa più acuta), ma anche dalle inchieste visive che
vennero dopo. Noi, qui, prenderemo la città del cinema dai suoi estremi, che di
certo racchiudono anche tutte le case che in mezzo scorrono. Rispolverando
cinque documentari per quartiere andremo alla Magliana e a San Basilio,
prossimi nel bisogno di lotta e nella verace sovraesposizione filmica.
San Basilio trentesimo quartiere di Roma s’affaccia sul Grande Raccordo
Anulare al Nord del suo Oriente. Il Santo greco primo dei Padri cappadoci
confessa subito una data da lui assai lontana: 1974, annus
horribilis del diritto all’abitare. L’11 marzo la questura si accorge
che dei quasi 3.000 appartamenti romanamente occupati ne restano 598 ancora da
sgomberare, quelli presi nei quartieri San Basilio e Magliana (Luciano
Villani, «Neanche le 8 lire». Lotte territoriali a Roma (1972-1975),
in “Zapruder” n. 32, 2013). «Davanti alla Chiesa hanno ammazzato un ragazzo»: è
l’8 settembre quando un giovane autonomo non ancora ventenne, giunto dalla vera
periferia per difendere gli abitanti dagli sgomberi a quel punto feroci, viene
ucciso da un colpo di pistola. La sua storia è ricostruita da San
Basilio, storie de Roma (2014), progetto di public
history condotto da e per il quartiere. Emergono dagli archivi di ieri
e dalle voci di oggi le forme di solidarietà vissute tra quei lotti, qui ricordate
o rimpiante. Come pure lo scollamento tra cittadini e istituzioni, quella
violenza mai dimenticata. Con grande partecipazione si praticava a San Basilio
l’autoriduzione della luce a 8 lire per Kwh e lo sciopero dell’affitto. Ma
anche l’operoso «sciopero al rovescio», per l’autonoma
(ri)costruzione di quei servizi sempre carenti in Capitale. Ne osserviamo uno
anche nel cortometraggio oggi muto filmato da Luigi Perelli per la Unitelefilm
(San Basilio, ’70 ca.), che è un tuffo onnisciente nel quartiere, dalla
strada all’assemblea, dalle pozzanghere alle fermate d’autobus nel bel mezzo
del nulla.
È vero, la buona volontà di quel tempo si sarebbe presto attutita, e
censurato quel fiero vivere in comune “tipico” dei lotti popolari. Ma in questo
salto d’epoca che ci farebbe precipitare nel melodramma odierno – in cui
nemmeno «l’intellettuale di sinistra» può mai evitare di associare San Basilio
solo allo smercio di droga pesante – preferiamo far tappa nelle autonarrazioni
che han descritto altrimenti tanto le suburbane locations dei
reazionari film di finzione oggi predominanti quanto l’uomo che per
davvero ci deve vivere. E così anche negli anni del riflusso emerge
uno dei più bei e compiuti esempi del filmer la parole ai
margini della capitale: La trilogia sulle borgate romane di
Rulli e Petraglia. L’ultimo atto è un Lunario d’inverno e
si svolge in una San Basilio del 1982, già composta da quei cani
sciolti e «tutti smarriti, poco prima raccolti da un raggio di luce chiamata
Cristo», subito dopo contraddetti «di brutto» dalla realtà. C’è ancora rabbia
per quella implicita vergogna a dirsi di San Basilio, o a definirsi «proletari
di borgata». E invece l’orgoglioso distacco dalle zone del benessere sarebbe
necessario, perché la cultura «chiamiamola così: borghese», quella «che
sostiene lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non va nemmeno chiamata cultura»,
afferma un abitante.
Arriviamo nel 2016, in Racconti e immagini dalle periferie – San
Basilio (di Massimiliano Cera e Paolo Ricciardi) si filmano
invece le parole dei piccoli partecipanti a un progetto per le scuole medie
curato da LABnovecento. Nostalgici anche loro, sanno che quel «senso di
famiglia» si è perduto, e che se «fino a qualche anno fa il quartiere era
formato da persone, adesso è il quartiere che forma le persone», e non si sa se
ancora «ti fa giusto» (Dal film Il mio Tufello, Paolo Di Nicola,
2016), perché la lotta individuale è più difficile. Ma di sicuro il quartiere è
formato anche da quei ragazzi convinti che «la devono ave’ tutti una casa, non
solo chi se la compra», o chi può pagare un caro affitto. Essi sanno che San
Basilio da fuori fa spavento, ma anche che la «confidenza che c’è qui, non c’è
al centro», e che «il quartiere è brutto però si vive bene» perché «ci sta ’sto
legame di amicizia».
Torniamo nel 1974 per lasciare le cinestorie di San Basilio. Cecilia
Mangini dirige La briglia sul collo: 15 minuti a colori vividi
sulla «rieducazione» in una scuola del quartiere. «Fabio, 7 anni, in italiano
un “caratteriale”, in romanesco un impunito, viene assegnato a una classe
differenziale». La casa in cui abita è composta da due stanze per cinque
persone, attorno ci sono migliaia di bambini, una sola scuola elementare
pubblica, un solo autobus che percorre i 12 km necessari «per andare a Roma».
La maestra dice «bisogna riportare Fabio nel gregge», riadattarlo alla ridente
società di domani. «Ma non può essere questa reazione anche un fatto positivo
alle cose che loro sentono ingiuste?».
Alla Magliana. Quartiere popolare di Roma ci arriviamo nel
1972 con tre titoli su nastri del noto collettivo Videobase:
montaggi, rimontaggi e sintesi autoprodotte evocativamente nominate Il
fitto dei padroni non lo paghiamo più, La nostra forza è l’autoriduzione, la
nostra forza è l’organizzazione e Quartieri popolari di
Roma.Videobase trascorre un anno nel comitato di quel quartiere
irregolarissimo costruito «per proletari che restassero tali». «Siamo andati a
filmare i sogni degli altri, o almeno le loro lotte, filmando più le parole che
le immagini», affermano i registi. E i sogni del sud di Roma cominciano con
l’«autoriduzione per diritto» di affitti e bollette. Vi aderiscono il 90% degli
inquilini, reclamando il «10% del salario, giusto affitto proletario». E però
«anche se avremo la casa, che avremmo ottenuto?». Saranno ancora bassi gli
stipendi e cara la vita, si dice in assemblea. E allora la «convergenza delle
lotte» chiede gli asili in una città di musei e i trasporti in una città
capitale, ma pure un cinema e una tv con meno tabù, chiede «esperti nelle
scuole statali» e le 150 ore, cure sanitarie per proteggersi dall’insalubrità
della zona e giustizia per gli omicidi bianchi, ridiscute il contratto
«feudale» degli edili «nell’era spaziale» come pure la guerra del Vietnam (i
cui combattenti sono come gli «inquilini al primo piano» dello sfruttamento
globale).
Anche Magliana di Miguel Herrera, denso
cortometraggio del 1974, è realizzato in collaborazione col Comitato di
quartiere, dentro e fuori del quale ogni giorno ci si «lotta la casa». Con un
capogiro d’audaci zoomate e musica progressive, l’occhio di Herrera precipita
senza timore nel mercato del carovita e nelle fogne di quartiere, nei governi
di Andreotti e nei piani regolatori, nei volti dei palazzinari e nelle
manifestazioni in Campidoglio, nelle «18mila ingiunzioni di sfratti del mese di
marzo» e nelle barricate, nella scuola popolare autogestita e nei terreni
occupati per creare uno spazio d’infanzia, nelle «marrane aperte» e nelle
«piscine chiuse», nei campi di bocce di fatto baracche e nell’agiato Eur, così
vicino eppur così lontano. «L’obiettivo è il completo risanamento del
quartiere», perché qui più che altrove la lotta contro l’emarginazione è
inserita in una critica urbanistica, e vuole agire contro i crimini delle
società immobiliari anche costituendosi parte civile e aprendo vertenze. «La
piccola scintilla che fece divampare la lotta per la casa alla Magliana, che arrestò
la speculazione edilizia romana degli anni Settanta, che portò alcuni
Amministratori Capitolini nelle aule giudiziarie, che fece conoscere il
quartiere a tutto il mondo scaturì da un gruppo di donne, tutte massaie, che in
maniera del tutto spontanea organizzarono una manifestazione contro l’Ufficio
affitti delle Società Immobiliari Prato e Lisbona. Le donne, chiedendo una
riduzione del costo d’affitto per le abitazioni in cui vivevano, furono così
decise che il ragioniere responsabile delle due Società scappò dalla finestra»
(Le donne di Magliana, in Comitato Quartiere Magliana).
È vero, oggi alla Magliana ci sono i fascisti, quelli bellocci nella
televisione e quelli veri pe’ strada. La Magliana, oggi, «è un luogo non
riconciliato», ci dice un documentario del 2013 (Sotto l’argine,
realizzato in un laboratorio di Daniele Gaglianone). Se prima la classe
edilizia era «leggermente abbandonata» (Dal film Sciopero nazionale
degli edili. Roma, 1° ottobre 1969, Unitelefilm, girato
non finito), e per questo gli andavano affiancate «categorie più forti», oggi
gli edili sono certo ancora più soli, e forse nemmeno la loro lingua sappiamo
parlare. L’archivio filmico ribadisce le scintille possibili e le vittorie
virtuali ma anche le disfatte, le impotenze, le contraddizioni di quella
regione di lotta apparentemente lontana. Narrazione vettoriale e mai conclusa,
può però tenere assieme tanto l’individuale esigenza di abitare un suolo,
quanto la collettiva critica all’attuale stato urbano delle cose. Mostrare la
dispersione dell’origine dell’emergenza abitativa, ma anche farci intuire la
dispersione della sua «fine», o del suo ricominciamento continuo.
Scendiamo dai binari su ruote di pellicola, disinseriamo il rullo d’autore
dalla cinepresa di quartiere. Ci consegniamo alla fosca primavera del 2019, a
quel biennio poco rosso in cui l’alloggio popolare è assegnato ad appena un
terzo delle famiglie e dei singoli che – ogni anno – perdono la casa (1.500
circa). Roma vanta ancora il primato degli sfratti in Italia, e sui giornali ne
sbandiera sempre di nuovi (22 subito, ha urlato Salvini il 23 aprile). Ma se l’archivio
è davvero un «dispositivo del futuro», come ci dicono i ricercatori messicani (Comunicación
y memoria: un territorio por explorar, 2016, e Los poderes de la
imagen, 2018, entrambi di Pablo Martínez Zárate), con gli occhi
analogici di tutti e con gambe individuali proprie si tornerà ancora alla
Magliana e forse ci siamo già tornati, in quella via dove proprio per noi era
affisso, su un palazzo in lotta del 1974, il cartello «NO al ruolo di futuri
baraccati».
*Arianna Lodeserto è regista senza telecamera, montatrice senza programmi,
ricercatrice senza contratti. S’interessa del “piacere semplice per il
visibile”, del cinema d’archivio, del suono aspro delle lotte.
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