La pizza e il fascismo sono due esempi dell’estro inventivo degli italiani.
Entrambi prodotti poveri – un po’ di farina, mozzarella e pomodoro; un po’ di
agrari, reduci e sottoproletari –, il condimento di mani sapienti et
voilà: la creatività italiana si esporta in tutto il mondo, diventa
tradizione, diventa trend. Il “Made in Italy” come modello di una qualità
riconosciuta nel tempo.
Da alcuni mesi, dentro una grande industria modenese, la Italpizza,
orgoglio del territorio e del nostro export, la continuità produttiva è
assicurata da un reparto celere messo cortesemente a disposizione dell’azienda.
Il presidio poliziesco pressoché permanente, il sistema sanzionatorio, la
sicurezza interna e un clima pre-bellico, rendono Italpizza un’azienda
sostanzialmente militarizzata, come capita alle industrie strategiche in tempo
di guerra. Gas tossici, mazzate, denunce, gipponi lampeggianti, provvedimenti
disciplinari, licenziamenti. Tutto questo non avviene in una maquiladora messicana;
e neanche nelle campagne brumose che nascondono arretrate microimprese “old
manners”. Siamo a Modena, poco lontano dal centro, lungo un asse viario
strategico che risulta spesso bloccato dalle cariche poliziesche o dai blocchi
dei manifestanti: gli automobilisti, nei momenti peggiori devono tirare su i
finestrini per evitare che il gas CS entri negli abitacoli. Sullo sfondo, ben
visibile dalla strada, il grande marchio Italpizza svetta su uno stabilimento
moderno e blindato, in cui in passato politici e amministratori hanno fatto
spesso visite devote.
Insomma, tutti sanno quello che sta succedendo in località San Donnino,
tutti sono consapevoli di questo bizzarro segno dei tempi: un’azienda
che da mesi resta aperta e fa uscire i suoi prodotti, solo perché decine di
robocop mascherati, bastonano e gasano una parte del personale che sciopera e
picchetta.
La storia dell’organizzazione del lavoro in Italpizza è tristemente
comune: circa 600 dipendenti, di cui solo 80 assunti direttamente; il
resto tutti precari in capo a un paio di pseudo cooperative riconducibili alla
proprietà; ritmi, turni, orari massacranti decisi in modo unilaterale dal
committente, sottoinquadramento contrattuale (contratti delle pulizie for
ever) che garantisce risparmi anche del 40% sui costi del lavoro vivo. Vivo
e povero.
Italpizza, come da tradizione marchionnesca, decide unilateralmente chi
sono gli interlocutori sindacali, in un gioco a geometrie variabili, che
comunque lascia fuori qualsiasi rappresentanza che metta in discussione i suoi
interessi. Queste pratiche accumulano un enorme ammontare di elusione
fiscale e contributiva (già 700.000 euro sono stati comminati dagli organi
ispettivi), ma queste sanzioni sono evidentemente messe nel conto dall’azienda,
come altrettante multe per divieto di sosta.
Italpizza sta diventando metafora del modello emiliano 4.0: uffici stampa,
presenza social, adesione a tutti i blandi protocolli che rimandano a una
qualche memoria concertativa nella ex Emilia rossa. E operai sfruttati,
precarizzati, mortificati e gestiti manu militari. In sovrappiù
l’azienda si permette anche di disertare una convocazione presso il Ministero
del Lavoro, perché non gradisce al tavolo la delegazione Cobas: una specie di
dichiarazione d’indipendenza dalle vecchie pastoie sottogovernative, una
rivendicazione dell’autonomia del comando d’Impresa. Abbiamo il grano, i
programmi di investimento, gli accordi sul piano regolatore: non rompete i
maroni sulla forza lavoro – quella è roba nostra. Per un
sottosegretario Cinquestelle che convoca tavoli, c’è un sottosegretario
leghista che manda la polizia. È il governo dei tempi moderni.
Centinaia di ore di sciopero, centinaia di candelotti lanciati addosso ai
presidi, decine di cariche, un numero indefinito e crescente di denunciati,
secondo le regole del nuovo Decreto Sicurezza.
Il bello è che i lavoratori in agitazione – spesso donne e
straniere – stanno solo chiedendo la corretta osservanza di leggi e norme:
l’applicazione del giusto contratto collettivo, un minimo di confronto sulla
prestazione. Insomma: i bastonati/gasati/denunciati stanno oggettivamente
difendendo il feticcio della legalità borghese, mentre l’imprenditore e gli
organi polizieschi, garantiscono ogni giorno la reiterazione del reato – con un
enorme investimento di spesa, peraltro, a carico del contribuente (anche dei
mazziati, evidentemente). Ecco il genio italico in azione: la Giornata
della Legalità in prima pagina e nel contempo l’esibizione pubblica e muscolare
dell’Impunità d’azienda.
Si dice in giro che il gigante Italpizza (120 milioni di fatturato
esportazioni in 55 paesi del mondo) per difendere il privilegio di fare
quello che gli pare, olii generosamente la politica e la stampa: sponsorizzazioni,
inserzioni, piani di sviluppo scritti di concerto all’amministrazione, una fama
“democratica” che traballa ma gode ancora di solidi supporti politici. Gente
organizzata, insomma – non i pirati della logistica con le loro cooperative
spurie. Dio solo sa come abbiano convinto la Questura a mettersi
sostanzialmente a disposizione dell’azienda come una qualsiasi agenzia di
guardie giurate– non solo, immaginiamo, con sostanziose donazioni alla
Befana della Polizia, ma anche grazie alla consapevolezza che a quei
cancelli si gioca una partita importante sulla rappresentanza e sui diritti:
e che, su questo crinale, è meglio che le truppe armate dello Stato diano una
mano agli intrepidi esportatori di pizza e alla benemerita opera di
modernizzazione che stanno promuovendo.
Come potremo definire questa allucinante quarta dimensione del degrado
italiano, questa metafora dell’eccellenza che ha, come al solito, nell’enorme
moloch post-moderno del “food” il suo terreno originale di coltura? “Pizza e
Fascismo”, sarebbe una buona sintesi?
Oggi “l’antifascismo”, soprattutto nei periodi di fibrillazioni
pre-elettorali, conosce rinnovati momenti di gloria: l’Espresso e Repubblica in
testa, si sbracciano per evocare il pericolo rappresentato dai gruppuscoli di
destra, ne raccontano con raccapriccio e sincero sdegno democratico le gesta e
i canali di finanziamento, ne ingigantiscono il peso e il profilo (vedi le
incursioni anti-rom nei quartieri romani raccontati come l’invasione dei
mongoli secondo un format mediatico ormai collaudato). Si sa che questa
esaltazione del “fascista all’attacco” è funzionale alla costruzione di
ipotetici “fronti antisovranisti” – ormai è un giochino svelato. Questi
antifascisti della tredicesima ora, nel calduccio delle loro redazioni, non colgono
(o colgono fin troppo bene) l’essenza dei tempi: il fascismo vero oggi è
rappresentato dai reparti celere che sparano gas lacrimogeni addosso ai
lavoratori che presidiano sindacalmente la loro azienda; altro che Casapound e
simili utili idioti – di volta in volta legittimati o mostrificati alla
bisogna.
I nuovi assetti di potere stanno manifestando, oggi, un approccio
pragmatico, moderno, assolutamente estraneo alla demagogia sulla “cacciata
dello straniero”, buono solo per le campagne elettorali – ma poco utile nelle
campagne del foggiano o del crotonese, dove lo schiavo nero è alla base della
filiera agroalimentare. Nessuno li vuole cacciare, quello che si
vuole è la loro sottomissione, l’invisibilità sociale, il disciplinamento nelle
loro funzioni: a spennellare pizze o pulire cessi (tanto il contratto è lo
stesso).
Il razzismo, la xenofobia “der popolo” è solo folclore. La forza lavoro è
petrolio: si è mai visto qualcuno gettarlo via? Bisogna solo saperlo incanalare
nelle tubature giuste. È fascismo, questo? È post-fascismo?
Pre-fascismo? Lo leggeremo sui libri di storia. Intanto la polizia e la
magistratura italiana stanno dando il loro contributo al dibattito, attraverso
una stretta repressiva silenziosa, infame e implacabile, che conosce pochi precedenti.
Purtroppo avremo il tempo di riflettere ed elaborare, circa questo nuovo stato
delle cose.
Per il presente, ricordiamo a noi stessi che il manganello sulla
schiena operaia è l’essenza del fascismo, quello metastorico, che attraversa le
epoche: oltre le mitologie, le coreografie, le estetiche decadenti o virulente,
il fascismo è fatto sempre degli stessi genuini ingredienti di una volta: il
contrasto alla lotta di classe, il sabotaggio degli scioperi, il crumiraggio
organizzato, il disciplinamento della forza lavoro, la bastonatura di chi mette
in discussione le gerarchie di classe.
Tutta roba semplice, cose di una volta. Come gli ingredienti della pizza.
Articolo uscito anche su Carmilla, che ringraziamo
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