Ciao, sono il Castoro di Bianciardi,
stretto nello scaffale tra quelli di Jean Genet e Ghiannis Ritsos, le mie
cattive compagnie di ragazzacci. Siamo qui, perfettamente allineati e stanchi
di non essere neppure estratti per qualche rapida consultazione. Nessuno ci
compulsa ormai da tempo. Eppure siamo stati eroici, e oggi siamo
dimenticati. Il mio piccolo gruppo, saremo ormai rimasti una ventina,
prende polvere in una libreria che sta per chiudere, in una cittadina di
provincia. Se non chiedi di me al banco, se non preghi l’addetto di interrogare
il computer, difficilmente ci conosceremo.
La novità è che, contrariamente alla
consuetudine che mi vede letto, oggi voglio parlare io. Prendo la parola, per
una volta, in occasione dell’evento che sovvertirà il trantran di questa
libreria che sta per spegnersi, travolta dal vicino Centro Commerciale dove un
finto libraio, più finto di questo che conosco da trent’anni, dispone di una
clientela assai più numerosa che mette nel carrello, tra patatine e Simmenthal,
l’ultimo di Bruno Vespa, però scontato al trenta. Dicevo che anche il mio
libraio non è tale. Piuttosto è magazziniere: raccoglie l’ordine, se può lo
evade subito, se no a sua volta ordina. Non mi consiglia più a nessuno: ordina,
non mi sfoglia davanti agli occhi del cliente; non mi valorizza: ordina, a
malapena spolvera.
Oggi è molto eccitato, oggi il negozio
sarà invaso da una moltitudine, oggi è in programma la presentazione di uno
scrittore “esordiente” da vent’anni: si sa, ingranare per alcuni è faticoso.
Ecco perché prendo licenza e parlo – io che son nato per dar voce – e qui
ribalto i ruoli. Gli amici dello scrittore, sollecitati dallo stesso, hanno
inviato a centinaia di conoscenti, club della lettura, associazioni culturali, messaggi
di invito alla presentazione odierna, poiché si vuol gremire. Siamo tutti
pronti, noi sugli scaffali, elettrizzati e in festa: c’è uno di noi al centro
dell’attenzione, come una volta, sarà bellissimo!
La docile commessa predispone sedie, cura
la scena, è l’ora. L’autore, un giovin signore ultracinquantenne (in
letteratura si è giovani sino a quando si è pubblicati dal grande editore) è in
compagnia di un critico-autore-studioso-editore che fa da chaperon e mentore.
Nell’illustrare l’opera, parte dal fondo ovvero dalla lettura dell’ultima
pagina del romanzo, con smarrimento dell’autore. A noi libri ci trattano così,
senza riguardo. Sarebbe come se a uno di noi si sostituisse un umano e, nel
presentarlo al pubblico, lo si facesse dar di spalle, abbassare le mutande e
mostrare il culo, per non dire altro. Sarebbe come se per illustrare un
problema che ci interroga, si partisse dalla soluzione. Sono senza parole, ho
il cuore in gola…
Un tomo rilegato in viola, “Storia del
Dadaismo”, dallo scaffale di fronte mi fa sapere che è un metodo provocatorio,
che ci si vuole originali e mica provinciali, e cerca consenso presso il volume
sul “Futurismo” che gli sta accanto e che annuisce. Io, che sono il Castoro di
Bianciardi, quello della “Vita Agra”, resto della mia: mi sembra un modo di
procedere un po’ strano. Comunque la dozzina di partecipanti che affolla il
posto, sembra attenta e interessata: sarà contento, il mio libraio, per il
pienone! E prima che la noia li stramazzi, dopo aver costretto l’autore a leggere
pagine e pagine ed a parlar di sé, la seratina chiude con l’assedio di due
giornalistine per una fiacca intervistina e la ripresa dell’ultima fotina da
pubblicare sulla paginetta culturale del locale giornalino. Il successo ha il
suo prezzo.
Glorificato e pago, il giovane scrittore
piucchecinquantenne raccoglie i complimenti dei presenti in sala: la vecchia
mamma, il babbo del critico officiante, la sorella, il cognato, tre ex compagni
di scuola (di cui uno si è dato), una presenzialista estrema, una insegnante-scrittrice,
un amico scrittore parimenti esordiente pluriennale, un film-maker con signora,
coi quali ultimi l’autore ha scorrazzato al sud. E noi lì, che non possiamo
muoverci, appesi agli scaffali, delusi, col cuore a pezzi, in lacrime.
E’ proprio in quel momento che uno dei
presenti allunga la mano e, senza troppi complimenti, mi afferra e sfoglia. La
mossa mi provoca vertigine per la provvida ventilazione. Pochi attimi. Mi si
richiude, mi si mette in tasca e via verso la cassa. Uno aspetta una vita e
poi, quando ormai crede che tutto sia finito e il suo destino il macero, ecco
che tutto accade.
Ora son sistemato per ordine alfabetico
in questa bella casa, tra Berto e Bigiaretti, e oggi, che ormai è un altro
giorno, sono stato letto quasi per intero. Il mio tardivo, ormai insperato,
appassionato atto d’amore prossimo a compiersi.
Dedico la mia vita di carta, tutte le
centosessanta pagine, a quegli umani soli che, privati dell’attenzione degli
altri, stanno, inesistenti, al mondo. A tutti coloro che non hanno più niente.
A una donna in bicicletta che ha perso una figlia e con lei tutta la speranza.
Firmato, Il Castoro di Bianciardi
163/164, vivente la sua gioia, stretto sullo scaffale.
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