Uno striscione dei portuali di Genova che si opponevano al trasporto di
armamenti da parte del cargo saudita Bahri Yanbu, che arrivati a destinazione
sarebbero stati usati in quella catastrofe umanitaria che è la guerra nello
Yemen portava la scritta: «Guerra alla guerra». Si tratta di un segno di
consapevolezza dell’azione che si sta compiendo, di resistenza alle sirene
della guerra al terrorismo, dell’umanitarismo con cui si giustificano
interventi militari, bombardamenti, stragi e violazione dei più elementari
diritti umani.
Spariscono i guerrafondai nel linguaggio comune perché è sparita la guerra
con il suo orrore dall’immaginario collettivo, sepolto sotto una coltre di
ipocrisia che nasconde i programmi dei paesi e dei partiti così «democratici»
da esportare democrazia affondando le proprie basi sulla polvere da sparo.
«La mentalità democratica ha stabilito la casistica tra guerra e guerra,
tra difesa e offesa, tra guerra democratica e guerra imperialistica: non è
arrivata a comprendere la guerra come funzione di Stato, dell’organizzazione
economico-politica del capitalismo», faceva notare Gramsci un secolo fa,
mostrando come si cerchi in maniera ossessiva «di far dimenticare le parole,
sperando di far dimenticare le cose». Ma i camalli di Le Havre prima, quelli di Genova poi,
fino a Marsiglia hanno dimostrato di non lasciarsi incantare dalle sirene
guerrafondaie.
La mobilitazione che ha coinvolto anche il porto di Genova ha pertanto un
carattere internazionale. È partita come detto nelle scorse settimane dal porto
francese di Le Havre. Qui, il 9 maggio scorso, la nave saudita Bahri Yanbu
avrebbe dovuto, secondo il giornale investigativo Declose, caricare
armi che l’Arabia Saudita avrebbe usato contro i civili nella guerra in Yemen.
Già nelle settimane precedenti lo stesso giornale aveva documentato l’uso di
armi francesi da parte di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti nella guerra in
Yemen. Per tale motivo due giornalisti di Diclose erano
stati convocati dalla Direzione generale di sicurezza interna
francesecome parte di un’indagine preliminare per compromissione
del segreto di Stato che avrebbe potuto mettere in pericolo la sicurezza
nazionale. Una convocazione che suona come un messaggio intimidatorio, verso
quelli che sarebbero colpevoli, evidentemente, di aver decodificato il canto
delle sirene francesi. La lotta al terrorismo, ad esempio, è la giustificazione
che ha usato il governo transalpino per spiegare, dopo le rivelazioni di
stampa, la partnership strategica con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi
Uniti che include esportazioni di materiale militare. Sta di fatto che la nave
saudita a Le Havre non ha potuto attraccare.
Le stesse ragioni hanno portato i camalli di Genova a respingere l’approdo
del cargo nel porto ligure, dove la nave era arrivata il 20 maggio. Qui, il
mercantile battente bandiera saudita è stato accolto dai lavoratori in sciopero
aderenti al Calp (Collettivo autonomo lavoratori portuali) in primo luogo e
alla Filt-Cgil, oltre ad associazioni e gruppi antimilitaristi. Il presidio, a
Genova come poi anche a Marsiglia, ha impedito il carico di strumenti militari
e di morte: «Noi portuali saremo sempre ostili a ogni tipo di conflitto e
di certo non faremo da tramite per i vostri affari gestiti da personaggi che
fanno della sofferenza altrui un profitto costante e proficuo». Così si legge
in una nota del Calp, che ha dimostrato, nei
giorni immediatamente precedenti alle elezioni europee, quanto la maturità
delle lotte possa sopravanzare la ben più misera discussione politicista sulle
disastrose alleanze elettorali.
Si legge, infatti, nelle lotte dei portuali, la consapevolezza di avere di
fronte un capitalismo di guerra, un capitalismo di esproprio come lo definisce
David Harvey, che produce ricchezza anche attraverso una sorta di continua
«accumulazione primitiva», mediante l’assoggettamento di interi popoli, il loro
sfruttamento, il saccheggio delle risorse, l’esproprio forzato di territorio. E
attraverso la guerra, come quella che almeno dal 2015 (ma bombe sono state
sganciate anche negli anni precedenti) sta martoriando la popolazione yemenita.
Rinchiusi in una cortina capitalista sempre più estesa, come nel
romanzo Rulli di tamburo
per Rancas: «Il recinto continuò ad avanzare. Dopo essersi
inghiottito quarantadue colli, nove lagune e diciannove corsi d’acqua, il
Recinto dell’Est serpeggiava alla volta del Recinto dell’Ovest. La pampa non
era infinita; il Recinto sì». In un modo che la «la scoperta dell’oro e
dell’argento in America, lo sradicamento, la riduzione in schiavitù e la
tumulazione nelle miniere della popolazione indigena di quel continente, gli
inizi della conquista e il saccheggio dell’India, e la conversione dell’Africa
in una riserva per la caccia commerciale dei pellenera» potrebbe apparire una
descrizione del mondo di oggi almeno quanto lo fu dell’accumulazione primitiva
descritta da Marx.
Oltre alla mobilitazione, abbiamo osservato l’immediato (e anche scomposto)
intervento istituzionale sulla vicenda, che dovrebbe indurre ad analizzare il
ruolo strategico della logistica nell’attuale catena del valore capitalista. A
Le Havre, a Genova, a Marsiglia è stata aperta una maglia della catena del
valore necessaria alla realizzazione del profitto, che in questo caso (ma non è
il solo) è fatto in maniera brutale e cinica attraverso la guerra.
La guerra non sarà fermata solo dallo sciopero e dalla solidarietà dei
portuali italiani e francesi, ma con la loro mobilitazione hanno mostrato il
significato dell’internazionalismo fuori da qualsiasi schema acritico o
banalmente europeista. D’altronde la follia distruttrice della guerra, quando
non è nascosta dall’ipocrisia dei loro signori e teorici, è vista come
«distruzione creativa» che ridisegna confini, economie e rapporti di potere. Ma
un’interruzione nel settore della logistica, specie nei suoi settori più
nevralgici (qual è il trasporto marittimo), può dare un colpo destabilizzante
con una dimensione ben più ampia del luogo fisico in cui avviene. Quello
logistico è infatti un settore strategico, con un fatturato di centinaia di
miliardi di euro all’anno pari al 13% del Pil, che assume un’importanza tanto
più grande quanto più la produzione è flessibile e quanto più viene spinta la
velocità di rotazione del capitale, necessaria alla sua valorizzazione. Ecco
perché mobilitazioni come quelle di Le Havre, Genova, Marsiglia, possono (e
dovrebbero) essere uno stimolo alla riflessione e alla mobilitazione verso la
ricomposizione di classe nell’odierna organizzazione della produzione.
Occorre tener conto, inoltre, che anche se l’organizzazione della
produzione è giunta a un grado elevatissimo di frammentazione, dopo decenni di
esternalizzazioni e delocalizzazioni di intere fasi produttive; nonostante
l’uso di tecnologie avanzate che velocizzano le operazioni, solo apparentemente
viene meno la necessità di luoghi fisici della produzione che invece rimane
saldamente materiale. David Harvey, nel suo saggio La geopolitica del
capitalismo, fa notare come «qualunque mobilità geografica del capitale ha
bisogno di infrastrutture spaziali stabili e sicure». Nel caso delle merci,
compresi gli strumenti di guerra come quelli che avrebbe dovuto trasportare il
cargo diretto in Arabia Saudita, il capitale necessita di un «efficiente e
stabile sistema di trasporti, il quale deve essere sorretto da un intero
complesso di infrastrutture fisiche e sociali per facilitare e assicurare lo
scambio». È questo sistema che è venuto meno nel corso delle mobilitazioni dei
portuali italiani e francesi. Il paradosso descritto dal geografo britannico
per cui «una parte del capitale e della forza-lavoro deve essere immobilizzata»
e deve mantenersi sempre stabile ed efficiente per «permettere alla restante
parte di circolare liberamente» e sempre più velocemente per potersi
necessariamente valorizzare per non svalutarsi.
La mobilitazione delle scorse settimane dei portuali contro il profitto dei
guerrafondai può indicare, insomma, le crepe dove inserire la lotta per il
superamento di un sistema che deve accumulare per sopravvivere a sè stesso e
non si fa scrupoli nemmeno di fronte a una catastrofe umanitaria come quella
che da anni colpisce lo Yemen.
*Carmine Tomeo si occupa di sicurezza sul lavoro. Si interessa ed ha
scritto di lotte per il lavoro, precarietà, sfruttamento.
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