Pochi giorni prima delle ultime elezioni politiche, era il primo marzo del
2018, Luigi Di Maio presentava la lista degli ipotetici ministri di
un ipotetico governo 5 Stelle. Uno dei profili più sorprendenti era quello del
ministro dei beni culturali designato,Alberto Bonisoli: il suo profilo da outsider della
politica, laureato alla Bocconi, esperto di moda e design e direttore di
un’accademia di Belle arti privata, appariva del tutto inadatto a portare
avanti le riforme in senso nettamente pubblicistico e statalista nel campo
della cultura che il Movimento 5 Stelle annunciava nel suo programma. In campagna elettorale il M5S
prometteva di voler smontare pezzo per pezzo le recenti riforme del ministro
precedente, quel Dario Franceschini capace pochi giorni più tardi di uscire
sconfitto anche in un collegio, considerato roccaforte, di Ferrara. Bonisoli
sarebbe poi diventato ministro di un governo fondato su di un contratto che non conteneva
traccia alcuna degli impegni programmatici dei 5 Stelle.
Esattamente un anno dopo, nei primi giorni di marzo 2019, si è appreso che un fondo afferente alla corona dell’Arabia Saudita
era in procinto di entrare nel consiglio di amministrazione del Teatro alla
Scala di Milano, in cambio di una donazione di 15 milioni. La
notizia doveva rimanere nell’ombra: una simile elargizione era impossibile da
giustificare politicamente. Per questo, l’operazione è saltata dopo due settimane di
rimpalli di responsabilità. Eppure, quella donazione sconveniente risulta
perfettamente legale e in linea con lo statuto della Fondazione Teatro alla
Scala, tanto che il sindaco di Milano Giuseppe Sala si è affrettato a
dichiarare che «il Cda della Scala non ha alcuna preclusione nei confronti
dell’Arabia saudita». Ma gli italiani hanno preclusioni verso la
possibilità che un qualsiasi milionario, italiano o straniero, possa prendere
il controllo dei maggiori teatri lirici del paese? A giudicare dal fuggi fuggi
dei politici quando la notizia è trapelata, probabilmente sì.
In effetti buona parte dei più importanti beni culturali italiani è gestita
da Fondazioni di Partecipazione, che possono ricevere finanziamenti privati da
chiunque, e spesso a qualunque costo: dal Teatro dell’Opera di Roma, al Palazzo
Ducale di Venezia, dal Museo Egizio di Torino fino, appunto, alla Scala di
Milano. Finché questi finanziatori non erano i sauditi, sembrava che la
questione non ponesse problemi: in un ormai celebre diverbio tra
il direttore del Museo Egizio di Torino e Giorgia Meloni, quest’ultimo vantava
a gran voce che il Museo Egizio «non riceve fondi pubblici», come dato positivo
e niente affatto problematico. Dato peraltrogrossolanamente falso, ma questa menzogna
gratuita non è stata sottolineata da alcun giornale dell’epoca. Come si è
arrivati fino a qui, senza alcun dibattito pubblico e senza alcun
contraddittorio?
Una rapida privatizzazione
Il processo è durato oltre 25 anni, procedendo rapidamente senza che
l’opinione pubblica avesse i mezzi (le informazioni) per comprenderne la
portata. Nel 1993 i servizi di guardaroba, biglietteria o visite guidate
all’interno dei musei pubblici venivano esternalizzati (obbligatoriamente),
cedendo a grandi gruppi legati alla politica circa l’80% degli introiti di
istituti quali Colosseo e Museo degli Uffizi. Il provvedimento fu votato all’unanimità dal parlamento. Nel
1996 i teatri lirici venivano trasformati in fondazioni di diritto privato,
ancora una volta senza alcun contraddittorio, e da lì in poi fondazioni private
per gestire pezzi di patrimonio culturale pubblico venivano create per Musei
statali (Museo Egizio a Torino, Maxxi a Roma) e non, come i musei di Torino,
Venezia (tra i quali Palazzo Ducale), Brescia, Bologna e via discorrendo. Fino
a quando, il 13 novembre 2017, tutti i direttori dei più grandi musei italiani
(divenuti nel frattempo a gestione autonoma) proponevano a gran voce di trasformare tutti i musei in fondazioni di diritto
privato. Tutto questo senza che il parlamento abbia
mai provveduto a distinguere gli enti privati che gestiscono patrimonio
pubblico dagli enti privati che gestiscono patrimonio privato.
Ed eccoci ancora ai Sauditi che provano a prendere il controllo della Scala
di Milano. Una situazione non nuova, dal momento che i grossi gruppi economici
di Torino o Venezia controllano i musei della città già da oltre dieci anni,
che pure sembra aver scosso l’opinione pubblica e messo alle strette la
politica.
Poche settimane prima, il 7 febbraio 2019, il movimento Mi
Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali, di cui fanno
parte i due autori di questo articolo, aveva tentato, con successo, didenunciare pubblicamente un sospetto che gli operatori de
settore nutrivano da anni: che si fosse prossimi a una
trasformazione di tutti i più grandi musei statali (Colosseo, Uffizi, Brera,
Reggia di Caserta…) in fondazioni private, sulla falsariga di quanto avvenuto
nel 1996 per i Teatri lirici. Quella denuncia elencava gli indizi
per cui si poteva ipotizzare tale operazione, e spoegava quanto deleteria
sarebbe stata per il patrimonio pubblico; illustrava anche i motivi che
spingevano l’establishment economico-finanziario italiano a voler controllare i
nostri musei pubblici, sottolineando anche un aspetto poco noto: i possibili
meccanismi di evasione fiscale che possono attivarsi attraverso la donazione
(detassata al 65%) di denaro da parte di privati a enti privati che gestiscono
patrimonio pubblico. Le motivazioni anzitutto economiche alla base della
trasformazione dunque dovrebbero preoccuparci non poco. Dopo qualche settimana
di silenzio, il ministro Bonisoli ha smentito la possibilità che
i musei divengano Fondazioni, e i sostenitori della
trasformazione non hanno trovato argomenti per difenderla: il processo di
privatizzazione ha subìto un arresto, ma per quanto?
Come detto le motivazioni sono soprattutto economiche, eppure c’è un altro
aspetto che spinge questi gruppi di potere a voler controllare il nostro
patrimonio culturale con il sistema delle fondazioni: un aspetto squisitamente
ideologico, che dovrebbe portarci a considerare il patrimonio culturale, i
nostri musei (ma anche tutti gli altri spazi culturali, quali i siti
archeologici o i teatri lirici), come un terreno fondamentale di scontro nel
tentativo di abbattere l’egemonia neoliberista.
Dal pubblico al privato
L’istituzione-museo nel corso dei secoli è stata oggetto di critiche e
revisioni continue, campo d’azione non solo scientifico ma soprattutto politico
ed economico.
Nel Diciottesimo secolo si cominciò a considerare la divulgazione del
sapere come una responsabilità pubblica: nacquero allora i musei, con
l’acquisizione di collezioni private da parte di alcuni enti statali. L’accesso
era in genere regolato da norme e possibile solo dietro il pagamento di un
biglietto. Seppur l’idea dei musei aperti a tutti nacque durante l’Ancien
régime, fu con la Rivoluzione francese che i musei (anzitutto il Louvre,
precedentemente pensato per conservare le collezioni reali) divennero pubblici
e accessibili a tutti i cittadini senza distinzione di ceto o reddito. Possiamo
affermare che in quel periodo nascono i musei europei, in modo radicalmente
diverso da quanto accadeva negli Stati uniti, dove un percorso parallelo e
distinto portava al concetto di museo-impresa, luogo nato da iniziative
private da gestire come un’attività imprenditoriale, che punta a svolgere un
ruolo attivo di orientamento del gusto pubblico imponendo, attraverso i canali
dell’industria culturale, passioni e mode. Il modello americano negli ultimi
vent’anni si sta imponendo in Europa, con la differenza non da poco che il
museo non nasce dall’iniziativa privata ma occupa uno spazio precedentemente
pubblico.
Ma torniamo ai musei europei del Diciannovesimo secolo. Si imposero allora
i compiti morali di un museo: bisognava offrire al pubblico un’opportunità di
edificazione personale attraverso l’esaltazione di valori che avrebbero
contribuito a trasformare l’individuo in cittadino modello. Il museo nasce e si
sviluppa non solo con il compito di acquisire e conservare reperti e opere di
interesse culturale, ma soprattutto ha la grande responsabilità sociale di
garantire l’educazione e di porsi al servizio della collettività. Nel corso dei
decenni questo modello evolve, con la crescita del nazionalismo e dell’imperialismo
le collezioni museali si trasformano in senso maggiormente statalista e
celebrativo, ma il solco è segnato. Per tutta questa fase, è bene
sottolinearlo, sono ancora le élites nazionali ad avere il saldo controllo su
cosa va preservato, come, e per chi.
Ma in tempi recenti accade qualcosa. Si rafforza, repentinamente, la
convinzione che la responsabilità sociale del museo debba superare i confini
convenzionali e trovare nuove forme di applicazione.
Negli anni Sessanta il museo scopre la sua vocazione sociale e riorganizza
la sua struttura e narrazione partendo dal basso. Si inizia a sviluppare un
approccio meditato e consapevole alle politiche di acquisizione e di
esposizione, oltre che una maggiore coscienza e comprensione del loro
potenziale ruolo nel costruire delle società più inclusive. Si comprende che i
musei possono comportarsi come catalizzatori per la rigenerazione sociale,
conferendo poteri alle comunità per aumentare la loro autodeterminazione,
sviluppare la fiducia e la capacità di esercitare maggiore controllo sulla
qualità della propria vita e sullo sviluppo dei quartieri nei quali vivono.
Negli Stati uniti nasce l’Anacostia Neighborhood Museum, il primo museo
di quartiere, nel 1967. Ciò segna un cambiamento significativo nel modo di
concepire un museo: pensato non più soltanto come un’istituzione finalizzata a
migliorare la conoscenza, a promuove la ricerca e a conservare la memoria, ma
soprattutto come un organismo creato grazie all’apporto diretto della comunità
alla quale si rivolge. Una nuova idea di museo nasce da Hugues de Varine, nel
1971, per la prima volta parla di Ecomuseo ovvero un organismo
che, pur rivolgendosi a un pubblico esterno, ha come interlocutori principali
gli abitanti della comunità i quali, anziché visitatori passivi, diventano
parte attiva, partecipando alle decisioni di pianificazione dei contenuti e del
museo stesso. Il tema del diritto dei cittadini alla partecipazione alla
cultura viene posto al centro della Convenzione di Faro, un trattato
internazionale promosso dal Consiglio d’Europa al quale aderiscono 47 paesi
europei (che l’Italia deve ratificare dal 2013). Un testo di grande importanza,
a tratti rivoluzionario, promuovere una maggiore partecipazione dei cittadini
scardinando i ruoli di gestione e promozione del patrimonio culturale e
incoraggia i processi di valorizzazione partecipativi dal basso. Anche molti
artisti contemporanei hanno messo in discussione il ruolo dei musei, osservato
le loro pratiche, sono intervenuti in essi e hanno contribuito a ridefinirli.
In molti hanno utilizzato l’istituzione museale come dispositivo critico per
analizzare la società contemporanea e denunciarne gli aspetti negativi. Una
delle opere d’arte più potenti e d’impatto degli ultimi tempi rimane, a
distanza di anni, quella realizzata nel 1992 da Fred Wilson, dal titolo Mining The Museum per
il Maryland Historical Society di Baltimora, opera in cui l’artista riflette
sul ruolo del museo, sull’effetto che una certa scelta espositiva ha sul
visitatore, su cosa esprime e sullo sbilanciamento dei musei a favore della
cultura borghese bianca. L’artista creò all’interno del museo dei
riallestimenti espositivi con l’intento di arrivare a una narrazione museale
inclusiva, per esempio esponendo nella stessa teca un paio di manette di
metallo utilizzate per gli schiavi contrapponendole a una serie di brocche e
bicchieri d’argento riccamente decorati.
Sono anni di spinte dal basso che chiedono una revisione delle narrative
dei musei, includendo altre classi, altri generi, altre etnie. Non appare un
caso che i musei, in tutto il mondo e in Italia, dove questo
dibattito è arrivato con molta meno forza, si siano aperti in quel momento ai
privati, utilizzando la retorica dell’apertura e di fatto
concedendo il controllo delle narrazioni non più alle élites statali nazionali
ma a quelle economiche locali e transnazionali. In pochi decenni questa
tradizione centenaria, in evoluzione, è stata messa sotto attacco, imponendo ai
musei la “sostenibilità economica”, la raccolta fondi, l’autofinanziamento,
tutte le tipiche caratteristiche del modello americano. Non ci sembra avventato
scorgervi una reazione preventiva alle critiche esposte e alla richiesta di
maggiore inclusività.
Il museo offre narrazioni, decide cosa conservare della nostra storia e
della nostra identità, come renderlo patrimonio fruibile, come esprimere valori
che ci rappresentano oggi e che possono diventare storia per il domani. Facile
intuire quanto un simile spazio di comunicazione e formazione, dotato di
un’aura di indipendenza e imparzialità, continui a essere simbolo di potere,
non solo economico. Facile intuire quando possa essere utile controllare quelle
narrazioni, minando l’indipendenza di un museo. Inutile dire che un
ragionamento simile vale per il controllo dei palinsesti e del prezzo dei
biglietti dei nostri Teatri.
Affidare la gestione del patrimonio pubblico ai privati significa affidare
loro non solo la gestione dei profitti ma anche la possibilità di riorganizzare
e trasmettere significati sbilanciati a loro favore, di decidere quali elementi
sottolineare a scapito di altri, quali verità considerare e quali ignorare. Il
museo non è mai stato uno spazio statico e imparziale, è da sempre un luogo di
controllo sociale e strumento di produzione di consenso, un campo in cui è in
atto uno scontro di potere tra culture diverse. Le narrazioni in esso contenute
non sono mai neutrali, subiscono le pressioni e sono regolate da tensioni
politiche e sociali. Gli allestimenti museali sono scelti per essere al
servizio della rappresentazione e discendono sempre da una interpretazione, e
ogni interpretazione è necessariamente di parte. Carol Duncan, analizzando
l’uso politico che è stato fatto dei musei, dichiarò che sono «straordinarie
macchine per la definizione di identità. Controllare un museo significa,
controllare la rappresentazione di una comunità e alcune delle sue varietà più
alte e autorevoli».
Purtroppo, impegnati su più fronti, abbiamo lasciato ad altri il controllo
degli spazi culturali statali, vedendo i biglietti di ingresso crescere, i
gestori cambiare, il lavoro sparire, senza riuscire a imporre un’agenda
alternativa. Per le classi subalterne, e per chi vuole costruire un mondo non
capitalista, riappropriarsi del ruolo pubblico e comunitario del museo e del
patrimonio culturale, appropriarsi della storia e delle narrazioni identitarie
in esso insite appare fondamentale per rendere possibile il cambiamento:
raccontare le rivolte e i mondi possibili, le società umane che hanno
prosperato in altri sistemi economici, il lato oscuro di ogni monumento
costruito dal potere sulla pelle degli ultimi, è un futuro possibile per i
nostri musei. Un futuro che chi li ha e li vuole trasformare in fondazioni
private vuole rendere impossibile. Sta a noi riprenderci il nostro patrimonio
culturale pubblico.
*Leonardo Bison, archeologo e dottorando all’Università di Bristol (Regno
Unito), si è occupato soprattutto di migrazioni e interazioni culturali nel
Mediterraneo antico. Daniela Pietrangelo, educatrice museale, ha collaborato
con enti pubblici e privati alla progettazione e realizzazione di attività
educative con particolare attenzione ai temi dell’inclusione museale e
dell’accessibilità al patrimonio culturale. Entrambi sono attivi sui temi
riguardanti la gestione del patrimonio culturale con il collettivo Mi
Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali.
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