L’uso disinvolto delle divise dei corpi dello stato da
parte del Ministro degli Interni ha suscitato negli ultimi tempi grandi
polemiche. Tuttavia, chi ha associato questo stile comunicativo a quello dei
grandi dittatori del Novecento ha finito per non cogliere la natura di questa
nuova “democrazia autoritaria”
Un celebre e sarcastico adagio marxiano recita che i
grandi eventi e personaggi della storia si presentino sempre due volte, una
prima come tragedia e la seconda come farsa. La tentazione di ricorrere a
questa semplificazione nel trattare i fenomeni storici attuali è forte, vista
la pochezza dei personaggi che li attraversano e guidano, ma risulterebbe
riduttiva della tragicità degli eventi: da una parte l’uso dell’ironia non
avrebbe alcun effetto disvelatore sulle nefandezze presenti, mascherandole
invece e rendendole così in qualche modo accettabili e obliabili, dall’altra si
finirebbe per stereotipare alcuni segni del potere come risibili vezzi
esteriori, impedendo la comprensione del loro funzionamento.
Un esempio di questo rischio è la polemica sorta
sull’uso che l’attuale Ministro degli Interni fa di divise di corpi dello
Stato, in particolare della polizia. La querelle è, in
quest’epoca in cui la tempestività si calcola in secondi, ormai vecchia, ma non
per questo meno paradigmatica. Se, infatti, sui social lo
scherno si è manifestato in una massa di meme e commenti
caustici, alcune riflessioni hanno cercato di trovare corrispondenze tra questo
uso e quello fatto da vari dittatori nel corso della storia del ‘900. Queste
hanno sì il pregio di smascherare il fine pragmatico del camuffamento e cioè la
sua funzione intimidatoria e propagandistica, ma non colgono del tutto nel
segno per una troppo semplicistica associazione con i regimi dittatoriali che,
invece di mettere in guardia da possibili derive (più) autoritarie del governo
o di quelli a venire, rischia di derubricare il tutto, appunto, a farsa.
Innanzitutto la divisa principalmente indossata da
Salvini non è militare, ma della polizia. La questione non è puramente formale.
Se l’uso di divise dell’esercito o di milizie paramilitari manifesta il legame
di questi con il potere politico o, meglio, la loro unione indissolubile nella
persona del tiranno e del suo arbitrio «sostenuto soltanto dalle proverbiali
baionette»[1],
qui l’immedesimazione spettacolare si gioca sul piano della confusione tra
poteri dello Stato. La polizia, infatti, viene percepita e rappresentata come
istituzione volta alla protezione dell’incolumità dei cittadini, travestimento
bonario e paternalista del potere, quando in prima istanza è la forza che
garantisce all’interno l’ordine statuale. Oltre a ciò, l’uso dell’uniforme
rinvia a una caratteristica meno appariscente, ma più inquietante, di questa
istituzione: e cioè «che, in essa, è soppressa la divisione tra violenza che
pone e violenza che conserva la legge».[2]
Se è evidente che il secondo tipo di violenza è la
precipua funzione repressiva della polizia, il primo tipo necessita di alcuni
chiarimenti. Potere che pone il diritto non è semplicemente quello legislativo,
ma quello di promulgare «qualunque decreto emanato con forza di legge»[3].
La polizia si configura quindi come «un potere a fini giuridici (con potere di
disporre), ma anche con la facoltà di stabilire essa stessa, entro vasti
limiti, questi fini (potere di ordinare)»[4] e
che «segna proprio il punto in cui lo Stato, vuoi per impotenza, vuoi per le
connessioni immanenti di ogni ordinamento giuridico, non è più in grado di
garantirsi – con l’ordinamento giuridico – gli scopi empirici che intende
raggiungere ad ogni costo»[5],
senza però una soppressione formale delle libertà personali o dell’ordinamento
stesso, diversamente dalla “tutela” militare dell’ordine costituito. Questa
doppiezza del dispositivo di pubblica sicurezza è saldamente legata alla
genealogia nella quale si situa. Se nell’antichità e nel Medioevo il termine
“polizia” (dal greco politeia, costituzione) indicava, in
breve, la forma di governo e se è solo dall’Ottocento che ha assunto
l’accezione ristretta ora comune, è nell’età moderna che si può rivelare la sua
natura ancipite. Nella tardiva evoluzione del Sacro Romano Impero Germanico
in Stato nazionale e nelle spinte autonomistiche dei vari principi
tedeschi è all’opera quel sistema di ordinanze che il sovrano emette «per
imporre la propria presenza e la propria autorità nei confronti delle forze
tradizionali della società imperiale: l’imperatore, al di sopra di lui, e i
ceti territoriali al di sotto.»[6] Di
lì, il concetto viene riferito all’intero ordinamento dello Stato e,
metonimicamente, ridotto «all’apparato di potere destinato a garantire
quest’ultimo.»[7]
Questo dispositivo funziona quindi in maniera peculiare,
sul limitare dell’ordinamento giuridico, aprendo al suo interno, quando
necessario, zone di anomia, zone cioè in cui l’ordinamento stesso è de
facto, temporaneamente o meno, sospeso[8].
Se non esiste, infatti, gruppo umano che non abbia una qualche forma di
diritto, un codice di leggi che ne regoli relazioni e comportamenti, formatosi
sì storicamente, ma assunto sincronicamente come insieme significante pieno,
dato una volta per tutte, è proprio questo pieno che si deve svuotare,
distruggendolo o sospendendolo tutto o in parte, per creare spazio a un diritto
nuovo o a una zona di indistinzione in cui l’arbitrio del potere possa
emergere. Ciò prende il nome di stato d’eccezione. Se intendiamo «sovrano colui
che decide sullo stato d’eccezione»[9],
acquista il suo significato precipuo l’etichetta sovranista: non tanto o non
solo la riassunzione di prerogative statuali rispetto a organismi
sovranazionali, quanto invece l’attribuzione a sé della possibilità di deroga
incondizionata alle leggi. Non si tratta tanto di un apparato di cattura che
iscriva al suo interno una realtà preesistente al diritto, quanto piuttosto di
un dispositivo che fabbrica vuoti normativi per poter dispiegare la propria
violenza normalizzante, che fabbrica quindi spazi e soggetti al di fuori del
diritto sui quali applicarsi.
È in questo che possiamo vedere una differenza con una
dittatura: a una sospensione in toto delle libertà
costituzionali si contrappone una differente spazializzazione dello stato
d’eccezione per cui, accanto alla vigenza normale dell’ordinamento, si instaura
una puntuale regola dell’eccezione o, meglio, all’interno dell’ordinamento
vengono aperte delle zone di anomia che lo bucano, normalizzando lo stato
d’eccezione. È la declinazione democratica dell’ottava tesi di filosofia della
storia di Benjamin[10].
Si potrebbe forse ipotizzare che questa nuova spazializzazione sia sufficiente
al potere per una ragione tecnica: l’estensione delle reti di controllo rende
superflua la sovrapposizione delle zone di anomia all’intero territorio nazionale;
il punto, comunque, è che, almeno per ora, una dittatura non è necessaria al
potere. Concorrono a ciò l’atomizzazione di una società in cui la libertà è
ancorata e limitata alla scelta di quale possa essere il proprio indebitamento
e di dove indirizzare la propria delega, la marginalizzazione e la repressione
durata decenni dell’opposizione al suo interno mascherate da pacificazione, la
creazione di una memoria nazional/nazionalista vittimista e aproblematica.
E il come viene messa in scena questa distanza da una
dittatura ne è esempio. L’uso della divisa, qui, non è completo o, meglio, la
divisa che viene utilizzata per l’immedesimazione con il potere di polizia non
è completa. Non si tratta, infatti, di un’uniforme vera e propria, quanto
piuttosto di capi casual, comuni come giubbotti o polo.
Questa casualizzazione della divisa avvicina il leader al
suo popolo, lo rende simile, sodale, allo stesso modo della comunicazione che
usa. Non solo un’appropriazione simbolica di un’istituzione che il pensiero
liberale vorrebbe super partes, quindi l’assunzione su di sé della
violenza poliziesca, ma anche un’appartenenza spettacolare a una massa, il
“popolo”, che si mitizza come indivisa: la riduzione a indumento banale, a
indumento qualsiasi, marchiato indifferentemente come brand tra
gli altri brand, crea l’illusione della prossimità. A prima
vista anche questa tecnica di ricerca di consenso sembra avvicinarsi a quelle
dittatoriali o totalitarie che puntavano a un rapporto diretto tra il capo e il
popolo. In quei tipi di regimi la presunta vicinanza era sì invocata nei
discorsi, ma si palesava come falsa sia nel diaframma frapposto dall’uso della
divisa militare, che scremava tra la classe dirigente e la massa poco o nulla
mobilitata, o di quella paramilitare che conformava la massa irreggimentata
all’immagine del capo, sia nella prossemica tra balcone e piazza.
L’apparente orizzontalità del rapporto tra Salvini e
il suo pubblico, invece, oltre che di un guardaroba gentizzato, si avvale anche
dei nuovi mediadigitali (Facebook su tutti, palesando una
convergenza tra invecchiamento del social ed elettorato
leghista)[11] grazie
ai quali è possibile una diffusione capillare dei messaggi politici, mentre
i followers ne ricavano l’illusione di un filo diretto con la
persona di potere. A ciò contribuiscono sia i post marcatamente pop,
sia l’intera strategia comunicativa che affastella sulle bacheche post di vari
argomenti e toni, come nella bacheca di chiunque.
Per compattare i supporters, elettorato
potenziale, Salvini addita un bersaglio esterno all’idealizzata nazione e
considerato causa del suo declino, sul quale far sfogare pulsioni: i quotidiani
due minuti d’odio orwelliani. Nazione non come comunità immaginata[12],
ma omogenea, organica ed escludente[13],
in cui non sarebbero presenti corpi estranei né segmentazioni né obiettivi
confliggenti. È su questa passione rimontante per «l’Uno che esclude»[14],
coestensiva alla sparizione della lotta di classe, che attecchiscono i discorsi
mitologici delle destre tradizionaliste. E se, da una parte questa volontà di
esclusione si rivolge verso l’alto nell’attacco alle istituzioni
sovranazionali, ad altri poteri dello Stato e a ogni forma di pensiero articolato
e basato su dati oggettivi, costruendo un nemico nell’élite contraria
al “popolo” e ai suoi difensori (Salvini, ovviamente), dall’altra si rivolge
verso il basso, fomentando i peggiori istinti con una retorica non solo
xenofoba, ma compiutamente razzista. Autodefinita “buonsenso”[15],
fabbrica verità utilizzando inferenze fallaci, mischiando fenomeni reali con
costruzioni di significato allucinatorie (il Piano Kalergi, ad esempio) con la
conseguenza principale di amplificare un discorso discriminatorio che da molto
tempo media e politica vanno facendo, «posizionando il
predicato “clandestino” come termine medio tra i predicati “immigrato” e
“delinquente”»[16].
Questa nuova versione di razzismo (che potremmo
definire giuridica o legalitaria dal momento che indica come fonte di ogni male
o reato, a dispetto della costante diminuzione degli stessi, una categoria di
persone accomunate da una semplice condizione giuridica, quella, cioè, di
essere sprovvisti di documenti) si ammanta della strenua difesa della legge, ma
ne rappresenta solo l’ennesima mutazione. Il razzismo biologico, quello
spirituale evoliano, il differenzialismo culturale di Alain de Benoist e ora il
razzismo giuridico non sono che variazioni più o meno elaborate di un’ideologia
volta a giustificare e instaurare una rigida gerarchia tra gruppi umani poiché
«è razzismo ogni dottrina secondo la quale gli uomini di un gruppo nascono portatori
di una data cultura e soggetti a un dato destino.»[17] E
se è vero che «il concetto di nazione è basato sulla lingua, non sul sangue»[18],
mentre «i sogni del razzismo hanno origine in ideologie di classe,
più che in quelle di nazione»[19],
aristocratiche e colonialiste, è innegabile che nell’Italia post-bellica lo
stretto legame tra le due si sia rinsaldato nelle teorizzazioni dei vari gruppi
della galassia (neo)nazifascista sulla lotta per l’autonomia di comunità
etnicamente omogenee. Dottrine la cui contiguità con la Lega è dimostrata,
oltre che dai concetti, anche dalla presenza tra le sue file di personaggi
gravitanti attorno alla rivista “Orion” di Maurizio Murelli, in primis Mario
Borghezio, e al centro culturale “Ideogramma” (Gianluca Savoini)[20],
come pure dall’appoggio reciproco ai partiti neofascisti, di cui
sistematicamente si minimizzano le violenze.
La realtà fabbricata dalla Lega, collimante con quella
neofascista, per inverarsi tende quindi all’espulsione di ogni corpo estraneo
dal corpo puro della nazione, con un processo di stampo totalitario[21].
Le conseguenze di questa logica si abbattono sulle minoranze e sulle persone
che continuano ad affogare in mare o a essere deportate in quello che rimane
della Libia e lì torturate ed abusate. Omettendo, nel caso dei migranti che
tentano di attraversare il Canale di Sicilia, la realtà di questa tragedia e
rimpiazzandola con la delirante teoria della sostituzione etnica, si ottiene un
duplice risultato: da un lato, il consenso di una parte consistente della
popolazione, impaurita dall’eventualità del declassamento sociale e sensibile
all’offerta di un capro espiatorio privato di parola; dall’altro, la
costruzione di una verità autoassolutoria che fa scomparire i morti attraverso
l’allontanamento di soccorritori e testimoni, quando invece le probabilità di
perire nella traversata stanno aumentando[22].
In questa macchinazione inverante agisce quel principio di polizia che per
Rancière costruisce simbolicamente il reale, essendo «una forma di intervento
che prescrive il visibile e l’invisibile, il dicibile e l’indicibile»[23],
una «partizione del sensibile»[24] che
costruisce una società in cui sono prescritti «funzioni, luoghi e modi
d’essere»[25] in
rigida corrispondenza tra loro, mentre ciò che a questa suddivisione non si
conforma, lo scarto così prodotto, viene espulso nell’inesistenza.
La caratteristica del principio di polizia di
stabilire propri fini giuridici, invece, riemerge nei post in cui viene dettata
l’azione politica del Ministro degli Interni. Oltre alla decretazione d’urgenza
(i liberticidi e razzisti decreti sicurezza), caratteristica dello slittamento
delle democrazie da parlamentari a «governamentali»[26],
che con la motivazione “necessità e urgenza” permette all’esecutivo di
inglobare il potere legislativo, Salvini cerca di imporre la sua volontà al di
fuori di qualsiasi diritto, nazionale e internazionale, attraverso tweet e post sui social,
senza atti formali. L’assenza di atti formali, scritti e quindi accessibili e,
in caso, impugnabili, si avvicina alla consuetudine totalitaria in cui la
parola del capo è immediatamente legge, ma allo stesso tempo se ne discosta
poiché questa pratica risulta palesemente falsa e propagandistica: il doppio
scopo è quello di mostrarsi inflessibile all’elettorato e di piegare a proprio
favore i rapporti di forza all’interno della maggioranza. Se queste azioni sono
risultate temporaneamente efficaci lo si deve soprattutto alla pavidità e alla
complicità dell’alleato di governo, come ben dimostrano i casi delle navi
Aquarius e Diciotti. Se nel primo caso il ministro competente per i porti,
Danilo Toninelli, ha rincorso e spalleggiato il suo omologo, nel secondo il
governo si è schierato compatto con il Vicepresidente del Consiglio, negando,
il 20 marzo 2019, l’autorizzazione a procedere per sequestro di persona. Le
uniche direttive diramate in materia dal Ministero degli Interni sono
posteriori a questa data, a dimostrare, se ce ne fosse ancora bisogno, la
vigliaccheria, oltre al cinismo e all’opportunismo, del segretario della Lega.
Al fondo del consenso che questa messa in scena della
politica suscita, più profonda dei desideri fascisti di un uomo forte, di giustizia
sommaria, di protezione, del rifugio in un’identità fissa, bianca, borghese e
bigotta, e della rabbia scaricata sui più deboli, cova una duplice paura. Non
tanto l’emozione difensiva che sorge di fronte a un pericolo, quanto «la
disperazione che deriva dall’impossibilità di agire»[27],
uno stato d’animo, quindi, di una società atomizzata che riemerge nei singoli
isolati gli uni dagli altri. Dalla «percezione della propria impotenza»[28],
dell’impossibilità di un’azione di concerto e di una costruzione di significati
comuni, ottenuta sia con la repressione del dissenso sia con l’inebriamento del
consumo, si generano da una parte il timore nei confronti del potere degli
altri esseri umani, dall’altra «quella volontà di dominare che è la volontà del
tiranno».[29] Come
in un sistema che si autoalimenta, la paura vede nella volontà di dominio una
via d’uscita dalla sua inanità e finisce per desiderarla, barattando libertà
per sicurezza. Da questa paura deriva pure quella, tutta borghese, del
declassamento sociale che prova l’“uomo comune”, il “buon padre di famiglia”
spesso evocato, sui social e in occasioni ufficiali, da
Salvini. È questa la figura del pater familias, disposto a tutto
per la salvaguardia della sua posizione e della sua rispettabilità nella
società. Lo stesso sentimento su cui faceva leva Himmler. La compartecipazione
alle atrocità naziste non poteva essere ottenuta sulla base della crudeltà dei
singoli, quanto invece sul loro senso del decoro, inserendoli all’interno di
una complessa macchina burocratica che faceva loro assumere il ruolo di
semplici ingranaggi, deresponsabilizzandone le azioni e garantendo loro
l’impunità, come ha messo in luce Arendt[30].
Oggi, la sottintesa similitudine che emotivamente
chiama in causa il buon padre di famiglia fa appello agli stessi meccanismi per
derubricare l’appoggio, sia alle elezioni che nella sguaiata presa di parola
virtuale, a politiche razziste e omicide, ma rese invisibili, come semplici
opinioni tra le tante lecite. Non serve nemmeno che le persone comuni vengano
coinvolte attivamente nel quotidiano orrore, poiché questo è stato appaltato
alle milizie che controllano i confini italiani ed europei al di là del
Mediterraneo, mentre in patria è demandato alle forze dell’ordine e a
gruppuscoli neofascisti. Anche per questo non è necessaria alcuna dittatura:
già funziona a meraviglia questa democrazia autoritaria.
(da DinamoPress)
Note:
[1]Hannah Arendt, Che cos’è l’autorità?, in Id., Tra
passato e futuro, Garzanti, Milano, 1999 p. 139.
[2]Walter Benjamin, Per la critica della violenza, in Id., Angelus
Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1962, p. 15.
[3]Ibidem.
[4]Ibidem.
[5]Ivi, p. 16.
[6]Pierangelo Schiera, Stato di polizia, in N. Bobbio, N.
Matteucci, G. Pasquino, Il dizionario di politica, Utet, Torino,
2004, p. 948.
[7]Ivi, p. 949.
[8]Cfr. Giorgio Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri,
Torino, 2003.
[9]Carl Schmitt in Giorgio Agamben, cit., p. 9.
[10]«La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di emergenza” in cui
viviamo è la regola» ,Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia,
in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, cit., p. 79.
[11] Si potrebbe ipotizzare che l’efficacia della comunicazione sia la
risultante di un azzeccato targeting, considerando che in Italia il
58% degli utenti di Facebook ha più di 36 anni e che l’elettore tipo della
Lega, per ora e semplificando, è un adulto relativamente sicuro del
proprio posto di lavoro e che vive nella parte più ricca del Paese (cfr. Gianluca
Passarelli, Dario Tuorto, La Lega di Salvini. Estrema destra di governo,
Il mulino, Bologna 2018).
[12]Benedict Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei
nazionalismi, Laterza, Bari-Roma, 2018, pp. 10-12.
[13]Pietro Stara, La comunità escludente. La nuova destra tra piccole
patrie e l’Europa, Zero in condotta, Milano 2007, pp. 19-25.
[14]Jacques Rancière, La fine della politica o l’utopia realista,
in Id., Ai bordi del politico, Cronopio, Napoli 2011, p. 48.
[15]Gianluca Passarelli, Dario Tuorto, La Lega di Salvini. Estrema
destra di governo, cit., pp. 49-52.
[16]Jacques Rancière, L’inammissibile, in Id., Ai bordi del
politico, cit., p. 145.
[17]Furio Jesi, Cultura di destra, Nottetempo, Roma 2011, p. 39.
[18]Benedict Anderson, cit., p. 136.
[19]Ivi, p.139.
[20]Cfr. Claudio Gatti, I demoni di Salvini. I postnazisti e la Lega,
Chiarelettere, Milano 2019. Sui rapporti tra neofascisti, Lega e integralisti
cattolici, cfr. Emanuele Del Medico, All’estrema destra del padre.
Tradizionalismo cattolico e destra radicale, La fiaccola, Ragusa 2004.
[21]Cfr. Hannah Arendt, La natura del totalitarismo: un tentativo di
comprensione, in Id., Antologia, Feltrinelli, Milano, 2006, pp.
149-155.
[22]http://www.vita.it/it/article/2019/05/08/non-stanno-diminuendo-i-morti-in-mare-stanno-diminuendo-i-testimoni-in/151504/. Non si può però omettere la natura
condivisa di queste criminali politiche migratorie, partendo dalla legge
Turco-Napolitano, attraverso la Bossi-Fini e il decreto Minniti, per arrivare
all’apice col decreto sicurezza salviniano.
[23]Jaques Rancière, La causa dell’altro, in Id., Ai bordi
del politico, cit., p. 166.
[24]Per partizione del sensibile Rancière intende «la legge generalmente
implicita che definisce le forme del prender-parte stabilendo innanzitutto i
motivi percettivi in cui queste si iscrivono.»
[25]Jaques Rancière, Dieci tesi sulla politica, in Id., Ai
bordi del politico, cit., p. 190.
[26]Giorgio Agamben, op. cit., p. 28.
[27]Hannah Arendt, La natura del totalitarismo: un tentativo di
comprensione, in Id., Antologia, cit., p. 136.
[28]Ivi, p.137.
[29]Ibidem.
[30]Cfr. Hannah Arendt, Colpa organizzata e responsabilità universale,
in Id., Antologia, cit.
Nessun commento:
Posta un commento